L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Angelo Ricci

Benvenuti nel mio salotto per la consueta chiacchierata con l’autore durante L’ora del tè. Oggi conosciamo Angelo Ricci, noto scrittore italiano, che ha al suo attivo numerose pubblicazioni. Angelo ha scritto la trilogia della pianura, tre romanzi noir ambientati nella pianura della Lomellina e pubblicati da Antonio Tombolini Editore nella collana Officina Marziani; inoltre ricordiamo, fra gli altri libri pubblicati, i racconti di Padania Blus e Borges aveva un tumblr.

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La trilogia della pianura è formata da Sette sono i re, Notte di nebbia in pianura e L’odore del riso. Di questo ed altro parleremo oggi con Angelo.

Ciao Angelo e benvenuto nel mio salotto. Solitamente alle cinque io offro tè e una fetta di crostata. Va bene anche per te o gradisci altro?
Ciao Roberta. Grazie per l’invito, sono felicissimo di essere qui. Tè e crostata vanno benissimo.

Ottimo! Allora possiamo partire con le prime cinque domande brevi?
Sono pronto!

A che età hai iniziato a scrivere?
In modo narrativamente organizzato dopo i trentacinque anni.

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Non ne ho, o almeno così credo.

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
Nella mia terra, la Lomellina, principalmente e comunque nella Pianura Padana.

Il libro più bello che hai letto?
“Martin Eden”, di Jack London.

Il luogo più strano in cui scrivi?
Scrivo sempre e solo in cucina.

Ho una curiosità, Angelo, che è scaturita dalla lettura dei tuoi romanzi, di cui poi parleremo. Immergendosi nella trilogia della pianura appare evidente un elemento che contraddistingue i tuoi libri. Si parla tanto, ai corsi di scrittura, de “il luogo in cui scrivere” che a mio avviso non è solo il luogo in cui l’autore si siede per scrivere ma anche il paese, la città, lo stato in cui la storia che racconta è ambientata. Io ho anche un’altra convinzione personale, molto opinabile: “il luogo di cui decido di scrivere” può influenzare il mio modo di scrivere. Ti dico questo perché secondo me la tua scrittura risente dell’umidità tipica della nebbia, è ricca dell’odore del riso e cruda del sangue che scorre nelle tue storie. Quanto è vero questo secondo te? Quando la tua amata Lomellina influenza il tuo modo di scrivere? Non hai mai pensato di “girare” le tue storie in luoghi diversi?
Hai perfettamente ragione. La mia scrittura è fortemente calata nelle atmosfere della mia terra, ne trae spunto e ne è al contempo decisamente influenzata. Ogni essere umano proietta la propria anima sui luoghi in cui vive e i luoghi, a loro volta, si riflettono nell’anima di chi li abita, di chi li respira. È un rapporto di reciproca simbiosi, nel bene nel male, un rapporto cui non ci si può sottrarre tanto facilmente. Non è semplicemente un mezzo per scrivere solo di ciò che si conosce, come insegnava Hemingway, ma è una sorta di feedback narrativo e narrante tra organismi pluricellulari, una comunicazione, uno scambio di informazioni genetiche e culturali che fonde il trasferimento di parole e di visioni tra l’unità senziente a base carbonio che scrive e l’insieme di paesaggio, persone, posture, pietre e pensieri che lo circonda in ogni nanosecondo della sua vita e che, a sua volta, si muta in un’altra unità senziente, e spesso questa mutazione avviene in modo misterioso e inquietante e comunque mai uguale a se stessa. Si crea un intervallo infinito di spaziotempo quantistico in cui l’osservatore e l’osservato si modificano a vicenda e giungono alla consapevolezza della reciproca esistenza proprio in quanto si osservano l’un l’altro.
Certamente e più volte ho pensato di scrivere al di là di ciò che significa per me la mia terra, e accadrà ed è già accaduto e accade e saranno proprio queste costanti di comunicazione genetica e culturale che si fondono a creare un altrove che altro non potrà essere, una volta ancora, se non questo attimo di trasfigurazione in cui chi scrive osserva la sua propria scrittura intenta a osservarlo mentre sta scrivendo.

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 “…chi scrive osserva la sua propria scrittura intenta a osservarlo mentre sta scrivendo.”
Fantastica Angelo la tua citazione. Partiamo da qui per affrontare un altro argomento che mi sta a cuore e che non so dove ci condurrà in questa chiacchierata. Come scrittrice io mi sono già data una risposta, ma vorrei sapere da te cosa ne pensi.
Non è solo il “luogo di cui scriviamo” che influenza la nostra scrittura, giusto? Ma anche il nostro vissuto, la vita di ogni giorno, le persone che incontriamo, il lavoro che svolgiamo, i libri che leggiamo, l’educazione che abbiamo ricevuto… Quale di questi elementi agisce maggiormente sulla tua penna? La scrittura è solo osservare e narrare oppure c’è dell’altro? Cosa contiene la scrittura di Angelo di ciò che di vero c’è nella vita di Angelo? Quando scrivi osservi la vita e la narri oppure è la vita che si fa narrare da te?
Direi che tutti tutti gli elementi che hai indicato più che influenzare la mia scrittura ne costituiscono delle basi di partenza; non ce n’è qualcuno che pesi di più, tutti sono sullo stesso piano. Scrivere è anche e soprattutto rubare, rubare visi, posture, voci isolate, fattezze, rubarle per poi rimescolarle in qualcosa che viene infuso in una struttura narrativa, in uno schema che spersonalizzi chi scrive. Certo, come giustamente dici il vissuto, la propria formazione di vita, le paure, i sentimenti entrano a forza nell’azione dello scrivere. Attenzione però. La scrittura intesa come un’organizzazione narrativa degna di lettura, perché possa portare a una storia che viva di vita propria, deve prendere da tutti questi elementi ma poi da questi elementi se ne deve in qualche modo allontanare. In questo senso parlavo di spersonalizzazione. La storia che nasce dalla scrittura deve diventare altro da chi la scrive, deve diventare estranea a chi l’ha pensata. Solo così riuscirà ad avere una sua forza, una sua cittadinanza. Ogni romanzo, ogni racconto è un po’ come un figlio. Lo metti al mondo, lo ami, lo fai crescere, poi però deve prendere la sua strada. Questo è quell'”altro” che secondo me va oltre la scrittura intesa solo come osservazione e narrazione. Nella mia scrittura cerco sempre di mettere pochissimo della mia vita, le considero due cose rigorosamente separate e faccio moltissimo per tenerle lontane l’una dall’altra. Nel tempo ho imparato a non usare la scrittura come un mezzo per fare i conti con me stesso o con la mia vita o per fare bilanci di qualche tipo. Uso la scrittura per tentare di scrivere storie che in qualche maniera cerchino di stare in piedi dignitosamente. Non mi pongo altri obiettivi. In questo senso osservo la vita per prendere appunti per una storia ma poi è la vita (o la storia, che forse è la vera vita) a farsi raccontare da me. Io sono solo un tramite.

Parliamo allora di tuo figlio, anzi, dei tuoi tre figli. Mi riferisco ai tre romanzi che compongono la trilogia della pianura (Notte di nebbia in pianura, Sette sono i re, L’odore del riso). Tre noir d’autore: uno stile personale molto marcato, vicende dai tratti duri, personaggi connotati da caratteristiche forti. Io che non sono abituata al noir, mi sono appassionata al tuo stile ed alle storie che hai scritto. Ho amato gli odori, le luci soffuse, la nebbia. I personaggi che si mimetizzano con l’ambiente in cui vivono e che insistono per raccontare la loro storia.
Sono rimasta molto colpita. Non è un genere che amo particolarmente, ma grazie ai tuoi romanzi mi sono avvicinata al noir e ne ho apprezzato la lettura.
Faccio una piccola digressione e poi torniamo sull’argomento.
La lettura di un noir non è cosa facile. I tuoi, poi, sono testi che richiedono attenzione, un po’ come una bella donna. Hanno bisogno del giusto tempo e dello spazio adatto. Di concentrazione e silenzio. Vanno goduti.
Quando scrivi pensi al tuo lettore tipo? Alcuni autori scrivono riferendosi a colui che leggerà il loro romanzo. È così anche per te? Ti domandi come reagirà al contatto con le tue storie? Se ne resterà influenzato, deluso, sorpreso, eccitato.
E poi, sempre per sedare la mia curiosità di femmina, hai un Lettore Ideale (come lo definisce S. King) a cui sottoponi le tue storie in anteprima e che critica in modo costruttivo il tuo lavoro? A volte abbiamo bisogno di conferme, no?
Usi per i miei piccoli libri parole bellissime, parole di cui ti ringrazio e che probabilmente non merito. Mi chiedi se quando scrivo penso a un mio lettore tipo. Probabilmente chiunque abbia provato l’esperienza della scrittura si è immaginato la figura del lettore, si è immaginato le sue reazioni, i suoi pensieri. È naturale, la scrittura è inevitabilmente un rapporto biunivoco, un dialogo silenzioso tra chi crea una storia e chi la fa sua leggendola. Io però scrivo i libri che mi piacerebbe leggere. Con questo non voglio negare che non pensi al lettore, tuttavia la scrittura è per me uno strumento che si posiziona principalmente tra me e la storia che cerco di scrivere, una sorta di interfaccia, di soglia cui prima o poi la trama, i personaggi, i dialoghi, le atmosfere, il detto, ma anche il non detto, giungono a soffermarsi e a porsi alla mia attenzione di tramite narrativo. Non ho un Lettore Ideale e probabilmente non lo vorrei nemmeno perché finiremmo per detestarci a vicenda. Quando ho finito di scrivere un libro lo leggo e lo rileggo e lo aggiusto finché non mi dà la sensazione che a scriverlo sia stato non io ma un estraneo. Solo in quel momento capisco che può avere una qualche speranza di essere letto.

È quello che penso, Angelo, e ti ringrazio perché ci hai donato tre capolavori. Anche perché, i libri, quando diventano tali, non sono più dell’autore, non credi? Ma diventano miei, tuoi, suoi e di qualsiasi persona decida di comprarli e leggerli.
Ed ora veniamo a noi. Tu sai che io ho amato in modo molto particolare L’odore del riso, una storia così intensa che quando l’hai finita rimani imbrigliato ancora nelle sensazioni, negli odori, nei colori. Che non ti stacchi di dosso.
Io vorrei davvero che tutti coloro che amano leggere conoscessero Angelo Ricci, la sua scrittura pungente, le sue storie crude, le sue pennellate su carta. Non voglio chiederti come sono nati Sette sono i re, Notte di nebbia in pianura e L’odore del riso (anche se muoio di curiosità) perché credo che l’atto della creazione sia un momento molto particolare che solo l’autore comprende. Però una cosa vorrei saperla, anzi più di una.
Quali sono state le tue sensazioni, le tue emozioni, le tue percezioni durante le fasi di progettazione e di realizzazione della trilogia? Io solitamente vivo nella pancia quello che scrivo e credo sia così per la maggior parte degli autori. Capita lo stesso a te? Quando hai scritto la parola fine dopo il terzo romanzo cosa ti è rimasto dentro l’anima?
Innanzi tutto ti devo dire che all’inizio non avevo programmato questi tre romanzi come una trilogia. Sono tre romanzi che ho scritto dal 2006 al 2013 (il primo è stato “Notte di nebbia in pianura”) e hanno avuto genesi diverse, sono legati a momenti e a esperienze della mia vita differenti, si riferiscono a versioni di un me stesso inteso come scrittore che forse non c’è nemmeno più, che inevitabilmente è mutato come tutto, d’altra parte, è destinato a mutare. La trilogia si è come composta da sé quando, conclusa la scrittura del terzo romanzo, “Sette sono i re”, tutti e tre si sono come autoassestati in modo da poter essere considerati come parti di una trilogia, anche perché erano attraversati da un filo rosso che è quello dei luoghi di una pianura che spesso diventa il personaggio principale. È un po’ come se i tre romanzi avessero deciso loro, al di là del loro stesso autore, di unirsi in questo modo, di considerarsi parti, comunque del tutto autonome, di qualche cosa di più grande che li abbracciava e li coniugava. Sai che io considero i miei romanzi come qualcosa di altro da me, qualcosa che vive di vita propria, qualcosa che mi prescinde e va oltre me. La stessa cosa fanno i miei personaggi. Io non li creo, sono loro che, uno ad uno, si presentano alla mia attenzione e mi dicono cosa vogliono fare, cosa vogliono dire, cosa amano, cosa odiano. E così è accaduto in ognuna delle stesure dei tre romanzi. Tra l’altro quando immagino una nuova storia la fase della scrittura è per me solo la fase finale, una sorta di verbalizzazione di quello che per mesi ho vissuto e si è sviluppato nel mio pensiero. È lì che la storia nasce e prende vita, cambia rotta, si adegua e si trasforma. Il tutto, naturalmente, sempre seguendo la via maestra che mi indicano volta per volta i vari personaggi. Per parte mia seguito a fare la mia vita solita, cerco di mantenermi il più possibile come osservatore esterno degli sviluppi della trama del romanzo. Poi arriva il momento in cui tutte le tessere del mosaico vanno al loro posto, inizia la fase della scrittura, della stesura del verbale, e poi compare un libro che riporta in copertina il mio nome, cosa che, il più delle volte, osservo con pensieroso stupore. In questo senso quando ho scritto la parola fine la mia anima era uguale a prima. È l’anima dei miei personaggi che invece era irrimediabilmente cambiata. 

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Mi ritrovo molto nelle cose che dici. E come me, credo, tanti altri autori. L’immagine che dai dello scrittore è realistica: colui che osserva la storia che altri (i personaggi) gli raccontano. Sembra surreale ma non lo è. È vivere la vita con altri abiti e raccontarla.
Ultima curiosità. Tu non sei solo autore dei tuoi romanzi, se non erro. Sei anche editor e correttore bozze. Giusto?
Come riesci a coniugare tre fasi così particolari e diverse fra di loro in una persona (tu) sola? Progettare, scrivere, valutare se il testo è valido per la pubblicazione, correggere refusi ed errori di italiano… non è facile essere obiettivi quando si tratta del nostro lavoro.
Essere editor di se stessi, come si fa?
Quello che dicevo prima, sul fatto che per me un mio lavoro è pronto soltanto quando leggendolo mi sembra che a scriverlo sia stato un altro, ha un valore personale, nel senso che rappresenta il momento in cui un mio libro per me ha finalmente raggiunto una vita propria. Certamente, quando si pubblica con un editore, il proprio lavoro, una volta accettato, viene letto e sottoposto alla visione di un editor. Per parte mia ho avuto diversi editori e il lavoro dei loro editor sulle mie opere non è mai stato invasivo, tutte sono sempre state lasciate come apparivano nel manoscritto, tranne alcuni minuscoli aggiustamenti in un paio di casi (nel primo l’editor mi aveva chiesto di trasformare una frase, che era scritta in dialetto, in modo che apparisse comprensibile a un pubblico più vasto, nel secondo si trattava di sviluppare un po’ di più un certo capitolo) ma mai nessun editor ha stravolto o riscritto parti dei miei libri, anche perché mi sarei opposto. Questo è quello che cerco di fare anche sui testi di altri. L’editor non deve stravolgere o riscrivere un testo. Il suo compito è quello di verificare se il testo ha un suo particolare ritmo, se la struttura narrativa regge, se esiste un senso della e nella scrittura, consigliando l’autore a fare, se necessario, degli aggiustamenti in quel senso. Se intende seguire queste indicazioni è comunque sempre l’autore che deve intervenire sul proprio testo perché è solamente lui che, in fin dei conti, ne conosce l’intima essenza. Quanto all’essere editor di se stessi sicuramente è possibile nel senso che, come autori, bisogna essere spietati con le proprie opere. Prima di presentarle a un editore vanno ripensate, rilette, eventualmente anche riscritte. Bisogna fare tesoro della propria esperienza di scrittura, di lettura, di affinamento di una certa tecnica. Poi però c’è la necessità che questi scritti passino al vaglio di un lettore professionale o editor che dir si voglia. Non va intesa come una prova terribile. È semplicemente una necessità. Fa semplicemente parte del gioco, così come le attese, i silenzi e i rifiuti da parte degli editori. Attendere che un proprio libro venga accolto da un editore è una prova faticosa e snervante che come scrittore purtroppo conosco benissimo per esperienza personale. Tuttavia verrebbe da dire: “È l’editoria, bellezza!”.

E anche oggi, purtroppo, la nostra ora del tè è finita. Purtroppo perché parlare con gli autori delle loro esperienze di lettura e scrittura non siamo mai sazi, vero?
Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate dei nostri primi tre numeri e dei primi autori con i quali abbiamo chiacchierato. Mi aspetto che compriate i loro libri e che li commentiate come meritano.
Grazie Angelo e alla prossima occasione.

Una scomoda memoria

Qualcosa che riemerge da un passato molto lontano. Un segreto per cui altri uccidono ancora dopo più di millecinquecento anni.

Una scomoda memoria è un giallo storico in cui Dario, il protagonista, si trova coinvolto, suo malgrado, in una vicenda più grande di lui: riceve in eredità un segreto che lo costringe a partire in fretta per Costantinopoli. La storia ruota attorno alla rivelazione che l’abate e amico Gregorio Falieri fa a Dario in punto di morte. Rivelazione che sconvolge la sua vita e la condiziona a tal punto che lo obbligherà ad abbandonare tutto e partire alla ricerca di un qualcosa che è tenuto nascosto da più di mille anni e da allora viene custodito e tramandato affinché non cada nelle mani sbagliate.

Dario viene affiancato dal monaco Tobia e dal prete Luciano, due personaggi cardine; i tre compiranno un nuovo viaggio che li porterà da Venezia alla Dalmazia, alla ricerca del monastero in cui è sepolto il segreto per il quale qualcuno uccide.

La storia è ricca di riferimenti storici e descritta nei minimi particolari. L’autrice conduce il lettore attraverso le vicende che coinvolgono i protagonisti, le cui caratteristiche emergono dalle parti descrittive, dai dialoghi e dai pensieri del protagonista. L’autrice adotta una scrittura calibrata, moderata. I fatti storici, sapientemente rappresentati, sono frutto di un minuzioso studio del periodo e di un attento lavoro di cesellatura dei fatti dell’epoca.

Scritto sapientemente da Federica Bartolozzi, è pubblicato nella collana Klondike di Antonio Tombolini Editore.

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Massimo Lazzari

Benvenuti alla seconda puntata de L’ora del tè, il salotto in cui si parla di libri e di 13920039_10209966357338097_5427798882119535818_oscrittura; il nostro intento però è soprattutto quello di conoscere l’autore che di volta in volta ci farà compagnia.
Oggi è la volta di Massimo Lazzari, autore di Quando guardo verso Ovest, una raccolta di racconti legati alle più belle canzoni rock dei nostri anni, pubblicato nella collana Officina Marziani di Antonio Tombolini Editore. I racconti di Massimo però non parlano solo di musica, anzi. Fra poco lo scopriremo.
Per conoscere meglio Massimo vi consiglio di fare una visita sul suo sito; ha una casa piena di libri, musica e persone interessanti… Questo è il link: www.massimolazzari.com

Benvenuto nel mio salotto, Massimo. Di solito offro tè e dolci. Tu cosa gradisci?
Grazie per l’invito Roby, è un piacere e un onore essere qui. Per me tè verde senza zucchero grazie.

Massimo, sei comodo? Partiamo con le cinque domande brevi?
Tre, due, uno, via!!!

A che età hai iniziato a scrivere?
La sera del mio trentesimo compleanno. Avevo bisogno di una data simbolica.

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Quando scrivo un racconto o un capitolo di un romanzo la lunghezza deve sempre essere tre pagine word, non una di più non una di meno.

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
Non ho un luogo preferito. Il romanzo Esprimi un desiderio è ambientato nei luoghi immaginari dei sogni dei protagonisti; Quando guardo verso Ovest contiene racconti ambientati sia in Italia che all’estero (Irlanda, Sudafrica, Australia, …). Il terzo libro che uscirà nel 2017 è ambientato in India.

Il libro più bello che hai letto?
Domanda difficile. Se devo scegliere un libro solo allora dico Il Maestro e Margherita di Bulgakov.

Il luogo più strano in cui scrivi?
THE END, uno dei racconti contenuti in Quando guardo verso Ovest l’ho scritto seduto su una scogliera, mentre il sole si tuffava nell’Oceano Atlantico. Ero a Finisterre (Spagna), nel punto in cui termina il cammino di Santiago.

Massimo, rispettiamo l’indice e cominciamo dalla fine, ossia da THE END, il primo racconto della tua antologia Quando guardo verso Ovest. C’è un argomento che mi tocca sempre molto profondamente ed è quello del CAMMINO INTERIORE. Cammino visto come passaggio di età o crescita personale o spirituale o altro. Una cosa non esclude l’altra ed a mio avviso sono tutte legate fra di loro. Tu ami molto camminare, ami la montagna, la solitudine delle cime o dei boschi, il contatto con il te stesso che batte dentro di te. Qual è il significato delle frecce gialle nella tua vita? Quale strada indicano?
Le frecce gialle a cui faccio riferimento nel primo racconto del mio libro sono quelle che indicano la via di Santiago ai viandanti che intraprendono il Cammino. Chi ha fatto questa esperienza sa che deve seguirle, è naturale farlo perché la meta è la stessa per tutti. Nella vita di ognuno di noi le cose cambiano. La meta cambia da persona a persona, oppure anche per la stessa persona in fasi diverse della vita. Eppure le frecce gialle sono sempre lì, a indicarci un cammino che non è il nostro, a spingerci verso una meta che non ci appartiene. Come avrai capito parlo dei condizionamenti, impostici dalla famiglia, dalla scuola, dal lavoro, dal contesto sociale in cui viviamo. Il filo rosso che lega tutti i racconti di Quando guardo verso Ovest è proprio questo: fotografare il momento in cui i protagonisti dei racconti riconoscono i condizionamenti delle loro vite, li affrontano di petto e decidono deliberatamente di non seguire più le frecce gialle che qualcun altro ha posizionato sul loro cammino. Mi chiedi che significato abbia tutto ciò sulla mia vita. Beh, in uno dei racconti del libro il protagonista sono io, quindi la risposta è contenuta lì…

Vorrei tornare un attimo ad un tema a cui ho accennato nella domanda precedente, perché lo sento molto mio. Ritorno a quel tuo amore per la montagna e per le camminate in mezzo alla natura, da solo: tu, la tua anima e il mondo. Dalla tua scrittura e dalle tue passioni questo amore emerge in modo quasi esplosivo. Ci racconti quando è nato e se ha un qualche legame con la scrittura?
Piccolo stimolo alla riflessione: la solitudine è uno stato molto particolare. Molte persone la temono, noi scrittori la desideriamo. Che rapporto ha Massimo Lazzari con la solitudine?
Anche la passione per il trekking e per le immersioni nella natura è iniziata tardi. La mia prima esperienza di viaggi a piedi l’ho fatta a 33 anni, quando in un periodo particolare della mia vita ho deciso di fare il Cammino di Santiago. Da lì in poi mi sono imposto di fare almeno un viaggio a piedi all’anno, percorrendo la Via degli Dei da Bologna a Firenze, un tratto della Via Francigena toscana, il sentiero delle Foreste Casentinesi e il Parco dei Monti Sibillini (una parte d’Italia dalla bellezza sconvolgente che purtroppo sta attraversando un terribile momento). Al di là di questi veri e propri viaggi itineranti, appena posso scappo dalla città per ritrovare il contatto con la natura. Quando la maggior parte delle persone si dirige verso spiagge affollate, centri commerciali e terme, io punto in direzione di fiumi, boschi, montagne. Spesso queste mie escursioni sono in solitaria, perché come dici tu la solitudine è una condizione che noi scrittori cerchiamo. Io amo stare in buona compagnia, ma amo altrettanto stare da solo. In quei momenti, specie se sono immerso nella natura, trovo uno stato di pace interiore e ispirazione che nella vita quotidiana mi è spesso interdetto. Penso che faccia bene a chiunque dedicare dei momenti a se stessi, isolandosi dal resto del mondo. Non è necessario diventare degli eremiti o degli asociali, né cercare la solitudine in cima a un monte o in mezzo a un bosco. Basta sedersi ogni tanto in un bel posto tranquillo, chiudere gli occhi per qualche minuto e ascoltare la propria voce interiore. Già questo è sufficiente a cambiare non solo la nostra giornata, ma addirittura il modo in cui approcciamo la vita intera. Provare per credere.14141482_10209180301696131_2120604001352222404_n

Proveremo, Massimo, il tuo invito è talmente convincente che tutti i nostri lettori ascolteranno la loro voce interiore. Ovviamente anch’io lo farò! A volte abbiamo paura di ascoltarci, di scoprire cose scomode, che conosciamo benissimo ma che fingiamo di non sapere.
C’è un rischio in tutto questo, a mio avviso: che una parte della vita interiore dello scrittore finisca nelle storie che scrive. Dopo anni e tanti errori di scrittura ho capito che al lettore non interessa conoscere la mia vita. Vuole una storia che lo tenga incollato alla pagina, non dia spazio al lavoro, a mangiare, a dormire. Se la riempio di vita mia personale questa s’impoverisce e rischia di annoiare.
Da quel che ho percepito i tuoi racconti parlano di storie reali, ma non annoiano. Ci spieghi quale alchimia hai inventato?
Grazie mille Roby, ma forse qualcuno la pensa diversamente. Credo che i miei racconti ti abbiano fatto questo effetto perché, come dici giustamente tu, sono tutte storie vere, o verosimili. Ogni racconto ha come protagonista una persona che conosco (parenti, amici, colleghi), e in molti casi è stata proprio la persona in questione a decidere l’episodio da descrivere nel suo racconto. Quel particolare momento della sua vita in cui ha guardato verso Ovest e ha sentito il bisogno di cambiare qualcosa. In effetti nei 33 racconti che compongono il libro non c’è quasi nulla della mia vita privata, ma c’è molta vita vissuta da altre persone, persone comuni che affrontano difficoltà e inseguono sogni che il lettore può ritrovare come propri.

33 racconti per 33 giri. Quando guardo verso Ovest ha un forte legame con la musica rock. Racconti intensi, profondi, pieni di vita che si percepisce.
Ho apprezzato molto il legame che hai creato fra scrittura e musica, due elementi che ho capito essere fondamentali nelle tue giornate. Ho trovato geniale anche l’idea di abbinare ogni racconto ad una canzone rock.
Quando si scrive un romanzo o un racconto si parte da un’idea, la si sviluppa e poi si procede con la scrittura vera e propria. Spesso la domanda che uno scrittore si sente porre è: da dove è nata l’idea per questa storia?
Nel tuo caso invece io chiedo: come è nata l’idea di costruire un’antologia di racconti dove ogni racconto ha il titolo di una canzone rock? E inoltre, come è avvenuta la scelta di abbinare ogni canzone ad una storia (che come dici tu è legata ad una persona che conosci)?
Quando ho partorito l’idea di Quando guardo verso Ovest volevo realizzare un libro che fosse al tempo stesso una compilation della migliore musica rock del secolo scorso. La musica che amo e che, come dici tu, rappresenta una parte importante della mia vita. Ti confesso che non è stato facile abbinare ogni persona e la sua storia alla canzone che dà il titolo allo specifico racconto. In alcuni casi sono state le persone a scegliere il brano, anche se ho dovuto negare a molti Stairway to heaven, che ovviamente era la canzone che avevo scelto per il mio racconto. In altri casi ho scelto io, cercando un legame tra la persona o la sua storia con uno dei pezzi che avevo deciso di inserire. Legame che si può ritrovare nel testo della canzone stessa, nel titolo o semplicemente nel ritmo. La soddisfazione più grande che ho ottenuto da questo sforzo è che adesso tutte le persone più importanti della mia vita hanno una loro canzone. Quando la sento per radio penso a loro, e sarà così per sempre.

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Quello che hai creato è qualcosa di veramente originale. Ed originale è anche il modo in cui lo porti in giro, lo promuovi. L’idea del reading con la lettura del racconto e la sua canzone abbinata, cantata dal vivo, penso sia davvero unica. Hai altre idee nel cassetto per la promozione di Quando guardo verso Ovest? Quale altra sorpresa ci riservi? Ho visto sul tuo profilo facebook una interessante iniziativa umanitaria legata al tuo libro, ce ne vuoi parlare?
Si Roby in effetti ho da poco lanciato una nuova iniziativa che spero abbia un grande successo, e ti ringrazio per l’opportunità di parlarne anche qui. Ho deciso di devolvere tutti i miei proventi derivanti dalla vendita di Quando guardo verso Ovest, sia in cartaceo che in ebook, all’Associazione Mondobimbi Onlus (http://www.mondobimbi.org) che gestisce alcune scuole a Tulear, una cittadina nel Sud Ovest del Madagascar. Con il ricavato l’associazione acquisterà tutto ciò che serve per garantire l’istruzione scolastica dei bimbi di questa città: quaderni, libri, divise, zaini, mensa, ecc. Questa mia decisione è nata dopo avere visitato il Madagascar, un Paese bellissimo ma molto povero. Due bambini malgasci su tre non hanno l’accesso all’istruzione scolastica, e questo per un Paese in cui oltre la metà della popolazione ha meno di 18 anni, è un grande problema. Spero davvero di riuscire a dare il mio modesto contributo a chi, come i volontari dell’associazione, dedica tempo, denaro ed energie a combattere tutti i giorni questo problema. Per farlo però ho bisogno dell’aiuto di tutti. Con 100 libri venduti riusciremo a mandare a scuola un bimbo per un anno, con 2.000 libri riempiamo una classe intera. A noi costa poco, ai bimbi del Madagascar arriva molto!
Grazie ancora a te e a tutte le persone che, acquistando il mio libro, mi aiuteranno a raggiungere questo obiettivo.

Grazie per avermi fatto compagnia nel mio salotto. Voglio ricordare a tutti la bellissima iniziativa di Massimo alla quale io stessa parteciperò acquistando una copia di Quando guardo verso Ovest. La prossima la compro di carta, così avrò anche la dedica dell’autore.
Arrivederci alla prossima chiacchierata!

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Ilaria Vitali

Eccoci al primo appuntamento de L’ora del tè. La rubrica ha la finalità di diffondere la conoscenza di nuovi autori italiani i cui romanzi non dovrebbero mancare nella libreria di un lettore. Parleremo con questi autori non solo di libri; esploreremo, assieme ad ognuno di loro, anche il mondo personale che sta dietro uno scrittore.

Alcuni di loro hanno una vita particolarmente interessante, intensa, ricca di storie da scrivere. È sicuramente il caso di Ilaria Vitali, autrice di Dietro lo steccato, romanzo pubblicato nella collana Klondike di Antonio Tombolini Editore.

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Ciao Ilaria e benvenuta nel mio salotto.
Ciao Roberta, è un piacere e un onore!

Cosa posso offrirti? Tè e crostata?
Un martini rosso con ghiaccio?

Iniziamo con le cinque domande brevi! Sei pronta?
Sull’attenti!

A che età hai iniziato a scrivere?
A 9 anni, non seriamente ma con molta convinzione!

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Deve essere sera o tramonto, Janis Joplin di sottofondo, un bicchierino di whisky meglio se torbato, tabacco a disposizione e un oggetto che viene dalla Thailandia. E devo essere a piedi scalzi, le scarpe mi distraggono.

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
Non ho particolari preferenze, una storia è lì dove deve essere! Ma se si tratta di luogo geografico amo molto l’oriente, se parliamo di interni o esterni, di gran lunga amo gli interni.

Il libro più bello che hai letto?
Ho bellissime letture in corso, ma l’ultimo è stato Just kids di Patty Smith.

Il luogo più strano in cui scrivi?
Talvolta nel bosco, penna e taccuino.

A questo punto siamo curiosi di conoscere meglio Ilaria. Sbirciando nella tua vita social ho notato che hai un legame molto forte con il mondo. Mi riferisco in particolare all’oriente e , se ripenso a Dietro lo steccato, all’India. Dalle poche cose che ho raccolto su di te, leggendo qua e là, ho capito che l’anima di Ilaria ha un fortissimo legame con alcuni luoghi stranieri per noi, ma molto familiari per lei. Ce ne vuoi parlare? E, se ti va di rispondere anche ad un’altra curiosità, cosa c’è di così affascinante nella vita da nomade?
Io sono nata in una piccola città, Parma, per poi crescere nella cosiddetta “bassa padana”, della quale porto dentro i sapori e gli odori di altri tempi.
Erano gli anni 70, internet non esisteva e l’unica cosa che avevo a disposizione per viaggiare con la mente era un vecchio atlante che mi divertivo a sfogliare, puntando il dito qua e là e leggendo di nomi esotici e strani. Ero affascinata dalle distese azzurre di mare che separavano i continenti, pensavo che nel 2000 avrei avuto 30 anni e che probabilmente avrei attraversato quei mari e quelle grandi terre volando.
Avevo grandi aspettative su quella cifra tonda che mi sembrava l’apertura al futuro, quello delle macchine volanti, delle invenzioni mirabolanti e di chissà quali grandi scoperte.
In realtà dovetti aspettare qualche anno e solo nel 2007 cominciai a viaggiare per terre lontane, come l’India, il mio primo vero viaggio, affrontato con uno zaino in spalla e con l’obiettivo di rimanere almeno un mese.
Ovviamente fu amore. Amore per l’avventura, per la conoscenza, per l’incognita e anche per la fatica, perché viaggiare è anche questo.
Ho scoperto di avere uno spirito di adattabilità molto forte che mi permette di affrontare le situazioni più diverse che un viaggio non organizzato e un budget calcolato possono comportare.
L’oriente ha un fascino su di me molto potente e dopo l’India ho trascorso mesi in Thailandia, in luoghi meno battuti dal turismo e più a contatto con la gente del posto.
Il grande passo è avvenuto nel 2011, di comune accordo con l’uomo che ho poi sposato: lasciare tutto e partire.
Abbiamo vissuto 4 anni in Sri Lanka, alternando mesi in Malesia e Singapore.
Poi è stata la volta del Messico, dove siamo stati 6 mesi.img_1179
Ogni luogo mi ha regalato centinaia di storie, aneddoti, conoscenze ma soprattutto molta esperienza.
Ho sempre sentito parlare del mal d’Africa, dove ancora non sono stata, ma posso tranquillamente affermare che esiste anche il mal d’Oriente, una malinconia struggente che sempre mi accompagnerà.
Nomade è una condizione dell’anima.
É la sete di conoscere, di riuscire a fare “casa” ovunque ma sopra ogni cosa il nomadismo, per me, è libertà.

Il tuo viaggio in India con lo zaino in spalla ricorda Irene, la protagonista del tuo romanzo. Durante la lettura di Dietro lo steccato si intuisce chiaramente la tua familiarità con il luogo in cui è ambientata la storia e si percepisce quel mal d’India a cui hai fatto riferimento poco fa. I viaggi sono un immenso serbatoio di personaggi, luoghi, trame; sono l’acquolina in bocca di ogni scrittore.
Pensavi già a Dietro lo steccato durante il tuo viaggio in India? Quanto, la tua vita da nomade ha influito sul tuo stile di scrittura?
L’India è stato il luogo geografico nel quale Dietro lo Steccato ha preso vita, sulle pagine di un taccuino da viaggio.
Ma la storia esisteva già da tempo, forse ancora prima che io me ne impossessassi e il trovarsi in India ha scatenato solo il bisogno impellente di raccontarla, quella storia, ma sotto voce.
L’India è un luogo senza mezze misure: o la ami o la odi e se la ami è in grado di suscitare emozioni forti, quasi catartiche.
Posso considerare l’India come un veicolante, i ritmi rallentati e le immagini di grande impatto emotivo hanno reso possibile che la storia potesse rivelarsi e uscire.
Per una tematica in particolare trattata nel romanzo, non avrei mai pensato di rendere pubblico Dietro lo Steccato e così dal 2007 è rimasto su quei taccuini, come una confessione, fino a quando ho preso la decisione, caldeggiata da chi lo aveva letto, di proporlo.
Il nomadismo ha influito per la enorme quantità di sensazioni e storie in cui mi sono imbattuta, un autentico magazzino di materiale da sviluppare.
Verrebbe spontaneo chiedersi se senza il nomadismo avrei continuato a scrivere…la risposta è sì ma probabilmente con un livello di pathos differente.
Quando vivi personalmente situazioni o eventi, scriverne è molto più coinvolgente. É come celare una propria autobiografia nelle pagine di un romanzo, nasconderla qua e là così che il confine tra il vissuto e l’inventato vada a scomparire.

Hai detto che “il nomadismo è libertà” ed è questo senso di libertà che il lettore percepisce leggendo il tuo romanzo. Fingo di non essere una scrittrice e ti porgo la domanda scontata che anche io spesso ricevo dai miei lettori, ma con una particolarità in più. La domanda è la seguente: quanto c’è di Ilaria in ciò che scrivi, ma soprattutto quanta libertà occorre ad uno scrittore per tirare fuori dalla pancia una storia come quella che racconti in Dietro lo steccato? Quanto ti ha cambiata scriverla?
Questa è una delle domande più temute da uno scrittore, o almeno così penso.
Affermare che dietro ogni romanzo e ogni suo personaggio c’è sempre Ilaria Vitali è come rivelare sé stessi e le proprie esperienze.img_0333
Ma forse la vera libertà sta proprio in questo: parlare di sé sotto mentite spoglie.
Del resto quanto vi sia di autobiografico rimane un segreto, scatena dubbi e curiosità.
La mia risposta a questa domanda è quindi evidente. Io racconto storie che conosco, anche solo in parte, ma che comunque appartengono al mio bagaglio di esperienze.
Per Dietro lo Steccato ancora prima della libertà c’è stato un discorso di coraggio, tanto è che inizialmente non avrei mai pensato di renderlo pubblico. Forse Dietro lo Steccato è stata l’occasione dove la libertà è stata più sacrificata, quello che ho raccontato è la versione morbida e filtrata della vera storia. E ho detto tutto…
Se mi ha cambiata scriverlo? non ci ho mai pensato.
Ho tirato molto il freno a mano scrivendolo, ora mi sento in un certo senso più spregiudicata e nel prossimo romanzo ho provato a dimenticare quel freno, descrivendo eventi più dettagliati senza lesinare su episodi particolarmente scomodi.
Dopo tutto…è solo un romanzo. O no? 🙂

Romanzo? Quindi finzione? O maschera davanti ad una vita vera?
Come scrittrice è un tema che mi pongo ogni volta che siedo davanti ad una macchina da scrivere. Come lettrice vorrei sapere che c’è realtà vera dietro a ciò che leggo. La differenza, credo, sta in quel freno a mano tirato. La libertà di scrivere è anche spregiudicatezza, come dici tu, osare e mostrare quello che è.
Nel tuo prossimo lavoro che tipo di storia troveremo? Una fiction vera o una finta realtà? Ti va di parlarcene?
Il romanzo può essere finzione o maschera o entrambe le cose; credo che anche all’interno di una storia totalmente costruita a tavolino vi siano inevitabilmente contaminazioni provenienti dalla realtà.
Dopo tutto a scrivere è un essere umano e, conscio o no, qualcosa di suo e/o di reale lo inserisce nella storia.
Personalmente vivo il romanzo come pretesto per raccontare storie reali e le mie lo sono.
Inserisco personaggi realmente esistiti e alcuni frutto della mia immaginazione che mi sono necessari; mi piace pensare ai miei romanzi come a delle “cacce al tesoro”, dove il tesoro è la realtà e tutto il resto solo un palcoscenico necessario alla rappresentazione.
Il freno a mano è dovuto a inesperienza, a paura di osare troppo o talvolta semplicemente a rispetto per i veri protagonisti di quella storia.
Il mio prossimo libro è basato su un insieme di storie vere, come sempre, e in quel caso ho abbandonato totalmente quel freno a mano.
La storia si sviluppa su oltre 50 anni di tempo, con una conclusione che si verifica in un futuro immaginato e all’interno di questi 50 anni si intrecciano diverse vicende, molte delle quali vissute realmente.
É ambientato tra Amsterdam e la Malesia e non manca il colpo di scena finale a riunire tutti gli avvenimenti in un unico grande cerchio.
Parlare di fiction vera o finta realtà è una questione di punti di vista.
Ho scritto di cose viste e vissute, romanzate e arricchite, ma reali: è più lecito definirlo quindi una fiction vera o una finta realtà, laddove per finta si intende quell’arricchimento?
Il lettore deve sempre avere il dubbio se ciò che ha letto è successo veramente oppure no, ma soprattutto quale degli episodi che ha letto è vero o inventato.
Da lettrice è una domanda che mi farei e non so fino a che punto vorrei ricevere una risposta, potrei desiderare di rimanere in quel dubbio e ricordare quel particolare romanzo come qualcosa di assolutamente intrigante.
Un romanzo deve anche far sognare, o no?

Grazie Ilaria per essere stata mia ospite; colgo l’occasione per ricordare che Dietro lo steccato è acquistabile in versione ebook sul sito di StreetLib e su tutti gli store.

Arrivederci alla prossima puntata con L’ora del tè.

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