L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Sandro Campani

L’ora del tè festeggia l’inizio della sua terza stagione e purtroppo a breve subirà uno stop per lavori in corso (maggiori dettagli li riceverai a fine intervista).

Riprendiamo le nostre chiacchierate de L’ora del tè con un autore giovane, talentuoso e di grande caratura, che sono onorata di avere qui con me questo pomeriggio.
Ammetto l’ignoranza: non avevo mai letto nulla del mio ospite; il suo libro mi era stato consigliato da un amico e così, attraverso la lettura di bellissime pagine, ho conosciuto la stupenda personalità e la magnifica penna di Sandro Campani, autore che tutti dovrebbero leggere.
Il giro del miele è il titolo della sua ultima pubblicazione (Ed. Einaudi);  di questo ed altro parleremo oggi. Ti anticipo che si tratta di  un romanzo pieno di quella quotidianità che non sa fingere; contiene il dolore, la fatica, la paura, la morte e la vita.
Dopo aver letto il romanzo l’ho invitato a L’ora del tè perché i bravi autori mi incuriosiscono: adoro scoprire ciò che si cela dietro il mistero di un libro e uno stile di scrittura, in poche parole amo ficcare il naso nelle loro abitudini!
Ho conosciuto Sandro attraverso le sue risposte alle mie domande e ne ho apprezzato la semplicità, la generosità, la voglia di farsi conoscere e il grande amore per la scrittura che sempre mi commuove. Ho amato molto i personaggi, come li ha costruiti, di quanta umanità li ha inzuppati: mi sono immedesimata, ho divorato pagine e pagine di una intensità sbalorditiva, incapace di staccarmi dalla storia, curiosa di sapere, capire, conoscere, volermi emozionare ancora e ancora.
A questo punto smetto di parlare io e lascio parlare Sandro; in questa chiacchierata non andremo a fondo nella trama del libro e non ci saranno spoiler. Ho parlato de Il giro del miele nella mia recensione che trovi a questo link.
La chiacchierata riguarderà l’autore e il suo e il nostro amore per i libri e la scrittura.
E, a proposito, io sono convinta che gli incontri non avvengano a caso. Ogni persona che intreccia il suo cammino con il nostro ha un motivo di essere. Ed anche per questo motivo sono felicissima di bere il tè con Sandro, oggi. Ma chissà se berrà tè?
Basta parlare; andiamo a conoscerlo meglio!

Benvenuto nel mio salotto, Sandro, grazie per avere accettato il mio invito a parlare di scrittura, libri e sogni. Prima di iniziare ti chiedo, come ho fatto con gli altri autori, che cosa posso offrirti: tè, caffè, biscotti, o altro a tuo piacimento…

Se vogliamo stare in tema con Il giro del miele, una grappa va bene. Bianca secca.

 

Ah ecco! Niente tè, come temevo! Va benissimo la grappa; io ti farò compagnia con una belga aromatizzata al miele, giusto per rispettare l’ingrediente del giorno.
E ora, se sei comodo, parto con l’interrogatorio! Iniziamo?

Certo.


A che età hai iniziato a scrivere?

Storie a fumetti e quotidiani inventati, da piccolino; poesie da adolescente, poi buttate; con l’intenzione di pubblicare, a venticinque anni.

 

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?

Niente di che. Tener lontani i gatti dallo schermo, farmi un caffè ogni tanto, bere del vino mentre rileggo ad alta voce la sera, se sono contento. 

 

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?

Una valle appenninica immaginaria, trasfigurata, costruita a partire dalla valle in cui sono cresciuto ma che ingloba elementi di altri luoghi.

 

Il libro più bello che hai letto?

È impossibile rispondere. Ti dico quello che da piccolo mi ha toccato di più, e insegnato un mondo: Al dio sconosciuto, di John Steinbeck.

 

Il luogo più strano in cui scrivi?

Scrivo solo a casa. Gli appunti, li prendo ovunque, anche vocali, in macchina; ma per mezza pagina, se sono altrove vuol dir che non ho tempo.

 

Sandro, perché la scrittura? Ogni autore ha un proprio motivo per scrivere, una propria urgenza. Considerando i tuoi passi nel mondo della narrativa, qual è stato l’episodio o la situazione che ti ha fatto decidere di scrivere per pubblicare? Quando scrivi, qual è l’obiettivo che ti poni? Cosa deve arrivare, di te o della tua storia, al lettore?

 Sono per molta parte del mio tempo una persona inadeguata al mondo, disattenta, incapace di trattenere le cose e il loro senso; scrivere mi dà l’impressione di arrivare a capire, a un livello più profondo di quanto non mi succeda normalmente, quello che altrimenti non riuscirei a capire: in merito alle persone, e alle cose; mi dà l’illusione di trattenere il senso del tempo, di riordinare tutto ciò che altrimenti mi schiaccerebbe con la sua insensatezza.
La certezza di voler scrivere per pubblicare l’ho avuta frequentando, nel 1999, un corso tenuto da Emidio Clementi (scrittore meraviglioso oltre che voce di un gruppo rock che seguivo ovunque da ragazzo, e continuo ad ascoltare: i Massimo Volume). L’obiettivo che mi pongo (oltre a quello, relativo al metodo e alle intenzioni, di lavorare il più possibile sulla dignità e la profondità di quel che faccio, di portare rispetto alla lingua) potrei riassumerlo con il titolo di un pezzo dei Massimo Volume, appunto: “Qualcosa sulla vita”. Dire qualcosa sulla vita.
Quanto a me, non mi interessa che arrivi qualcosa della mia persona o della mia storia al lettore, mentre scrivo: certo (sarebbe mentire negarlo) mi gratifica se chi mi legge riconosce le mie intenzioni verso la lingua, verso la vita dei personaggi e delle cose, e le trova dignitose. Ma quanto ai contenuti, non penso di aver niente di speciale da dire di me, né penso che la mia vita o i miei pensieri abbiano alcunché di necessario, tanto da dover essere “espresso”: mi capita spesso di usare ciò che ho pensato o ciò che mi è successo come un serbatoio a cui attingere per rendere vivo o credibile un personaggio: di usare i miei panni per immedesimarmi nei suoi, per ricrearli. La mia esperienza può essere un materiale utile come altri, da riutilizzare, da trasfigurare, nella misura in cui si riveli utile a far funzionare la storia che sto raccontando. Non è mai un fine. Non so se potrei dire di avere “urgenze espressive”. Penso di no.

 

Parliamo del tuo romanzo Il giro del miele. Quando l’ho letto sono rimasta colpita da un ricordo: Le braci di Sandor Marai. Il tuo romanzo ha richiamato tantissimo quello dello scrittore ungherese per due dettagli: il tempo della narrazione e lo stile descrittivo.
Entrambe le storie si svolgono nell’arco di una notte durante la quale i due protagonisti (uomini) si confidano, rispolverano un passato lontano e si confessano alcuni segreti. Inoltre Il giro del miele ha la potenza di una narrativa descrittiva che arricchisce la storia di particolari legati al mondo in cui vivono i personaggi, che immagino rispecchi molto il mondo in cui vivi tu.
Traspare l’amore per la natura, nelle tue parole; traspare l’importanza che dai ai luoghi, all’atteggiamento delle persone, alla quotidianità, al lavoro…
Quanto ti ritrovi in questa mia riflessione?
E poi ti chiedo, c’è un autore che ha influenzato il tuo modo di scrivere, che più di altri pesa sulle tue scelte stilistiche?

Con Le braci è successa una cosa curiosa. Non avevo mai letto quel libro – era fra le mille lacune che ho – ma, quando ho cominciato a girare per le presentazioni del romanzo, più di una volta una persona l’ha citato; diverse volte qualcuno ha detto che Il giro del miele glielo aveva ricordato; a questo punto, ho pensato, dovevo leggerlo, e l’ho fatto; sì, la struttura è molto, molto simile, il “tutto in una notte” e non solo: c’è il fuoco, che è un elemento centrale, c’è una lettera (che ne Il giro del miele rappresenta un punto di entrata e in fondo una falsa pista). La differenza più evidente che ho trovato è stata nel fatto che là tutto rimane centrato sul rapporto fra i due protagonisti, con l’amore per la stessa donna come campo di battaglia irrimediabilmente perso per entrambi, fino al disvelamento finale e alla chiusura del duello, mentre ne Il giro del miele la scena teatrale diventa un contenitore di storie differenti e divaganti, altri rapporti, altri temi. C’è di sicuro che per me è stata una fortuna non aver letto prima Le braci: se l’avessi fatto, avrei trovato somiglianze così evidenti da forzarmi a cercare altre strade più artificiose, mi sarei fatto scrupoli deleteri. In realtà, quando grazie al consiglio di Giulio Mozzi capii che il modo giusto per raccontare questa storia era trasformare la voce narrante da una terza persona onnisciente a una prima persona interna alla vicenda, e quindi cominciai a pensare di costruire l’intero romanzo attorno a un unico, grande flashback, l’unico esempio che mi venne e a cui tornai, fra le mie letture, fu “Lord Jim”, di Conrad.
La cura che metto nelle descrizioni è conseguenza del rispetto che sento di dover portare ai luoghi, alle persone, ai lavori, agli oggetti che racconto. E anche del rispetto che devo a me stesso: scrivere vuol dire strappare il tempo a forza al lavoro, ad altri impegni, alle persone a cui vuoi bene, e se dovessi usare questo tempo sciattamente – nelle intenzioni, s’intende: quelle contano; il risultato può essere buono o mediocre, e non sta solo a me giudicarlo – bene, mi sentirei uno stupido e un truffatore.
Di autori che mi hanno influenzato, e che mi insegnano costantemente qualcosa, ne ho tantissimi. Autori che mi piacciono, e autori che magari non mi piacciono. Se devo dirti un solo autore che prima di tutti mi ha formato, invece, devo dirti John Steinbeck. “Al dio sconosciuto”, su tutto. È già tutto lì. E anche “L’inverno del nostro scontento”, che è spesso considerato un suo libro minore, scritto quando aveva già dato quel che doveva dare, deviante rispetto al suo filone.

 

Ho aperto: era Davide. Grandone, alto com’è sempre stato, tanto che cammina preparato a chinarsi per passare dalle porte. È proprio dalla stazza che l’ho riconosciuto, perché la luce esterna era strinata e lui non ha parlato, inizialmente: ho ravvisato un uomo che nel momento in cui aprivo si tirava indietro, al buio; ero sorpreso perché non avrei mai detto di vedermelo ritornare all’uscio, ma un attimo dopo ho pensato (ed è stato peggio): era destino che arrivasse, prima o poi. Gli occhi ha dovuto abbassarli, per riuscire a guardare me in faccia. Non lo faceva da un bel po’ di anni. Non ho avvertito odore d’alcol, e ho avuto sollevo nel vederlo nuovamente in forma, sbarbato, i capelli castani ordinati in un’onda, da bimbo biondissimi e adesso, rispetto all’ultima volta, stempiati alla scriminatura. Lui se li copriva dal vento con un braccio, in modo buffo, come un ragazzone che uscisse per ballare. Aveva addosso i suoi anfibi da buttafuori, e un maglione di lana infeltrito, di quelli per cui la Silvia un tempo lo prendeva in giro e che però continuava a regalargli, con i fiocchi di neve, i cervi e le stelline. Ma lì sulla porta, per me, sono stati i suoi occhi il problema, perché aveva due occhi impressionanti, come infiammati e soggiogati da uno spirito che li avesse invasi e li stesse facendo ammattire.
– Fammi entrare, Giampiero, – mi ha detto, e quindi io l’ho fatto entrare.

(Estratto da Il giro del miele)
Copyright Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

Entriamo nel vivo della trama e dei personaggi. Innanzi tutto parto da uno dei comandamenti della narrativa: la storia deve essere credibile. È una delle prime cose che si imparano sui banchi di scuola.
E per credibile s’intende che il lettore debba credere a ciò che legge. Io stessa mi ritrovo, prima di iniziare a scrivere, a pianificare, organizzare, fare ricerche per raccogliere le informazioni che mi serviranno durante la stesura della storia.
Mentre leggevo Il giro del miele chiedevo a me stessa (e ora rivolgo la domanda a te!) se anche Sandro Campani avesse lavorato allo stesso modo. Non è quasi mai la nostra vita quella di cui parliamo, quindi fare ricerche, studiare, documentarsi, diventa un obbligo. Come approcci questa esigenza quando devi trattare un tema che conosci ma non nei minimi dettagli?

Certo, ho fatto così: mi sono documentato, perché, al di là di ciò che si ometterà o si deciderà di inserire nella storia, sarebbe fatale non farlo. La superficie su cui i personaggi posano i piedi deve aver sotto strati solidi di terra. Che si decida di farne vedere al lettore qualche metro in sezione, o decine di metri, o di mostrare solo la punta dell’erba che ci è cresciuta sopra, quella terra di base dev’esserci e il lettore la deve sentire. Quindi, nel caso de Il giro del miele, si è trattato di leggere trattati sull’apicoltura, guardare video su internet, aggiungere ai ricordi personali sulla falegnameria (sia mio nonno che mio padre avevano in casa qualche macchinario e facevano da sé alcuni mobili) qualche giorno passato da amici falegnami a guardarli mentre lavoravano; si è trattato di passare alcune sere insieme a Giulio Golfarelli, buttafuori storico dei locali di rock alternativo nel modenese e caro amico, per farmi raccontare quel lavoro dal di dentro.
Poi, c’è una cosa che bisogna sempre tenere presente quando si usa la documentazione raccolta: se a una persona che fa un certo lavoro da venti o trent’anni chiediamo di raccontarcelo, difficilmente – a meno che non le sia stato chiesto di preparare una lezione sull’argomento – questa metterà in fila nozioni in modo schematico, come trasformandosi in un manuale umano; più facilmente, data la sua appartenenza a quel lavoro e la sua passione, questa persona ometterà tante cose che per lei sono scontate, e ci racconterà magari aneddoti, curiosità sghembe, laterali. Ecco, il trattamento che occorre riservare alla documentazione raccolta è un po’ questo: evitare quello che si chiama comunemente “spiegone”, e cercare invece gli spunti marginali, imprevisti, che rendano vivo il personaggio e il suo appartenere al lavoro che fa, e che al contempo siano funzionali al movimento della storia.
La credibilità riguarda anche i personaggi, il loro agire: penso che questo sia un esercizio di misura, e che ognuno abbia la sua; ciò che risulta stonato, o pretenzioso, o ammiccante, o troppo volto al “farsi bello” dell’autore, non andrebbe addossato a un personaggio, se si spera che diventi una persona. Ma, a seconda della storia, a seconda dello stile con cui la si racconta, e a seconda delle intenzioni che si perseguono raccontandola, i parametri possono cambiare molto.

 

 Sono d’accordo con te ed è quello che si percepisce nel tuo romanzo: una enorme profondità e credibilità che non diventa mai un mattone didattico (il tuo “spiegone”!).
A questo proposito faccio una digressione per affrontare un tema che mi è molto caro e che credo riguardi tutti: autori e lettori.
Una delle curiosità principali di questi ultimi è quella di capire quanto ci sia della vita dell’autore nella storia che scrive. Gli autori preferirebbero non esprimersi in merito ma non possiamo evitarlo: è così!
L’idea che mi sono fatta io, vestendo i panni della lettrice, è che ci sia tutto e niente ed è quello che ho percepito ne Il giro del miele. C’è tanta interiorità di Sandro Campani ma nulla di veramente autobiografico. Non so se sei d’accordo ma credo che la difficoltà dello scrivere sia proprio questa: raccontare la storia di un altro ma con il cuore che ci metterei se fosse la mia; lasciarsi andare a qualcosa che mi prende dentro ma che non conosco fino a quando non lo getto sulla carta. È quello che si intende quando si descrive la scrittura come il “vestire i panni di un altro”, “vivere un’altra vita”, “fare un viaggio senza partire”.
È davvero così oppure c’è sempre tanto dell’autore in ogni libro che scrive? In fondo viviamo, respiriamo, conosciamo persone, siamo animali sociali; tutto questo non va forse a comporre le nostre pagine? Quanto sono reali i personaggi che un bel giorno bussano alla nostra porta insistendo affinché raccontiamo la loro esistenza? (I miei, ti confesso, quando bussano si presentano già con il loro nome ed io devo solo scriverlo su carta…)

È come dici: c’è tutto e niente. Ogni volta che cerco di rendere la vita di un personaggio, di “vivere un’altra vita”, proprio (ed è quell’emozione, quella compassione e quell’intensità nel cercare di capire, che in parte ti spinge a scrivere, e a godere nel ricreare la vita di una persona che non esiste ma per te comincia a esistere e ti riempie), mi capita, mano a mano che conosco il personaggio e mi chiedo cosa direbbe, cosa farebbe, come reagirebbe a una certa situazione, di riutilizzare, trasformandole, cose che fanno parte della mia biografia: ne Il giro del miele, ad esempio, molte esperienze di Silvia sono esperienze mie trasfigurate. Quello che mi succede è solitamente questo: non ho né il bisogno né la voglia di raccontare ciò che mi capita, o di spiegare come mi sento. Non è interessante per me al punto da volerlo trasporre in una storia. Ma ci sono storie di persone inventate che mi interessa raccontare, e nel farlo utilizzo spesso accadimenti o sentimenti miei nella misura in cui capisco che sono funzionali alla storia, e possono entrare a far parte del personaggio. Non parto da me per raccontarmi trasfigurando il giusto: uso le mie esperienze come serbatoio da cui attingere in caso siano utili al personaggio.
Quanto ai nomi: sai che per me, invece, sono spesso (come i titoli, del resto) una cosa difficile? Arrivano a volte a metà strada, o anche dopo; arrivano chiedendomi, in base all’età, al contesto, che tipo di nome potrebbe avere quella tale persona: e quando il nome arriva, getta luce su di lei e le dà una forza ai miei occhi che prima non aveva.

 

Interessante e curioso il fatto che i nomi dei personaggi ti arrivino a metà strada! Ma prima che ti arrivi il nome, il personaggio come lo chiami?

Se il nome non è ancora arrivato, chiamo il personaggio con la sua funzione: madre, fratello, tenutaria dell’albergo…

 

– Giampiero, mettiti a sedere. – mi ha detto Davide davanti al fuoco. Ha poggiato le sue dita sui nervi della mia mano, e mi ha sorpreso talmente che l’ho lasciato fare mentre di solito fuggo come una biscia, quando mi toccano la mano rovinata.
Perché era venuto, lo sapevo.
– Non prendi niente da bere? Neanche un grappino?
Mi sono mosso verso la vetrinetta dei liquori, ma lui ha detto: – Lascia stare, – con un tono spazientito, come dicesse Perché mi vuoi far fesso? Cosa credi che sia venuto per bere un grappino con te? A quel punto avevo la sua mano sulla spalla e praticamente mi ha spinto sulla sedia. L’ho fissato negli occhi, da lì schiacciato a sedere dov’ero, e lui ha ritratto il braccio, vergognandosi, e io ho capito di avere lo sguardo di un vecchio.
– M’hanno raccontato che certe volte si vede la sua macchina, – mi ha detto.  – Parcheggiata proprio qui davanti.

(Estratto da Il giro del miele)
Copyright Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

 

 

 Sandro, il tempo è volato, siamo giunti alle ultime domande.
A proposito di metodo, si parla tanto della cassetta degli attrezzi dello scrittore, cioè di tutti quegli strumenti che servono per affrontare un nuovo progetto “libro”: ci sveli cosa contiene la tua e se hai qualche rito voodoo particolare a cui ti affidi per attirare sul tuo lavoro energie positive?
Infine, tornando a Il giro del miele, ti chiedo (poiché sono un’autrice impicciona e curiosa delle vicende altrui!) qual è l’aneddoto o l’episodio che ha scatenato in te l’idea di questo romanzo e a quale dei tuoi libri sei più legato e perché?

La mia cassetta degli attrezzi è disordinata e mutevole: ci sono dentro appunti scritti, appunti vocali che registro parlando da solo mentre guido e mi autoinvio per mail, appunti sulla struttura, appunti sui caratteri dei personaggi, documentazione scaricata da internet in merito a cose che devo approfondire (per Il giro del miele ad esempio, l’apicoltura); se sono molto molto fortunato ci sono anche frammenti di scaletta, o una scaletta intera, che puntualmente nego e ribalto scrivendo; c’è un momento durante la stesura in cui ciò che si vede intorno, i dialoghi che si ascoltano per strada, le proprie esperienze, i libri che si leggono, tutto viene ricondotto al romanzo che si sta scrivendo e pare darci l’illuminazione anche solo per una frase, o una svolta della trama. Si passa qualche anno ossessionati.
Magari sapessi come attirare sul mio lavoro energie positive! Una cosa che so è questa: non scriverei se non avessi vissuto condizioni di disagio, di depressione o di dolore; ma per l’atto pratico di scrivere, per riuscire a mettere in fila tre parole, ho bisogno di essere sereno e concentrato. Insomma, mi sembra di osservare questo paradosso: scrivi perché c’è il male, ma per farlo hai bisogno di star bene.
Ci sono stati alcuni motivi scatenanti alla base de Il giro del miele: la visione di due innamorati in un rifugio sulle Alpi cuneesi: come si guardavano asciugandosi, scaldandosi, il maglione di lana retrò che lui aveva indosso; la visita della lince (che ho visto con i miei occhi una notte, mentre ero in macchina con mia madre e avevo la febbre, e il mio amico d’infanzia era morto); la falegnameria che avevo vicino a casa da piccolo, dove andavo a giocare. Un posto vicino al passo del Lagastrello dove stavano gli ovili desolati in mezzo ai faggi e alla ferraglia che ho descritto nell’ultimo capitolo, dove sono capitato andando a funghi con i miei. Come ti dicevo all’inizio, ci sono immagini slegate e persistenti che finiscono per collegarsi, luoghi che attirano la testa.
Il libro a cui sono più legato è certamente questo, Il giro del miele. Provo amore per questa storia e per tante persone che l’hanno accompagnata prima e dopo l’uscita; sono molto legato anche ai racconti de Il paese del Magnano, dove credo che stiano alcune delle cose più buone che ho scritto.

 

 

Per acquistare il romanzo di Sandro Campani clicca sulla miniatura e, dalla pagina del libro sul sito EINAUDI, scegli la libreria che preferisci.

 

 

Siamo arrivati alla conclusione di questa bella chiacchierata con Sandro Campani e ti lascio con un ultimo estratto da Il giro del miele; ricordo che tutti i brani del romanzo da me pubblicati in questa pagina, sono coperti da Copyright Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino che mi ha gentilmente concesso di riprodurre e che ringrazio di cuore.

 

– Non lo so, – gli dico. – Non lo posso sapere, come si sente una bestia. Però lo capisco quel che intendi. Almeno, io penso d’aver provato una cosa così: talmente aggredito dalle cose intorno, inaffrontabili, talmente rintronato e distolto da me stesso da entrare, come ti posso dire, in uno stato diverso di coscienza.
– Sembriamo un po’ quelli che vanno a meditare scalzi nella neve, eh?
– Ci penserebbe l’Ida a farmi meditare, se mi vede fare un numero del genere -. Guardo la bottiglia, la tocco con la mano buona. – Io mi ricordo, per esempio, la notte dell’incendio: quand’è finito tutto ero al buio, cominciavo a distinguere i contorni della roba storta, ribaltata. Sono rimasto lì chissà quanto, in silenzio, con l’acqua della gomma che scorreva e il braccio morto, era come se fossi in uno stato di coscienza nuovo.
Lui fissa la mia mano e la bottiglia, come stessi provando un gioco di prestigio.
– Non ridere, Davide: quando le cose diventano, diventano cose al quadrato. Più dense, piene di se stesse, talmente cose da essere astratte.
– Non rido. Io guardo una certa cosa, delle volte, un bastone, un portachiavi che ho vinto a una pesca, è come se il passato e il futuro di quella cosa fossero lì dentro che la riempiono, spingono, mentre la tengono in mano. Però te sai che il passato non lo puoi recuperare, e il futuro non te lo lasceranno prendere, perché hai sbagliato.
– Sì. Hai sbagliato. Hai rimediato, ti sei perdonato, l’hanno fatto anche gli altri, oppure non se ne sono accorti. Quante volte hai rimediato in tempo, ti sei vinto e sei come un santo, dentro la tua vita, e nessuno lo sa, Davide, nessuno lo sa.
– Io lo so.
– Un santo pieno di schifo, di mostruosità, e devi darti battaglia, ferocemente. Per quello sei santo.
Stringo la bottiglia, l’alzo contro la luce del camino. Mancano due dita. Prendo un chiodo dal cassetto: – Ora Davide faccio una cosa. Una cosa irregolare. Tu non mi hai visto.
Con il chiodo faccio un segno più in basso di quello precedente, e questo è inciso e luccica, muovendo la bottiglia; non è un granché, non ho diamanti a disposizione: lo ripasso col pennarello frassino.
Fin qui, e non oltre.

(Estratto da Il giro del miele)
Copyright Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

 

In onore di Sandro Campani e del suo romanzo, e per il semplice fatto che è settembre e ogni cosa ricomincia, ho scelto per L’ora del tè una nuova immagine di copertina, che contiene tè, zenzero, miele e limone: il mio infuso preferito!

E ora una piccola anticipazione.
Dopo Sandro Campani pubblicherò forse altre due interviste prima di fermarmi per qualche mese e dedicarmi a un progetto personale a cui tengo molto e di cui parlerò a tempo debito. Durante questo periodo mi allontanerò da tutto il mondo social, dal blog e limiterò ogni attività letteraria (recensioni, interviste, presentazioni, divulgazione, condivisioni…) al minimo indispensabile e assolutamente necessario.

Alla prossima puntata!
E buona lettura de Il giro del miele!

 

 

2 risposte a “L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Sandro Campani”

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