La giusta via della giustizia

(Storia di una cittadina alle prese con provvedimenti e rendiconti senza rendersene conto)

L’avvocato pronunciò tre parole che somigliavano a qualcosa di imponente. Non conoscevo il significato.  Mi resi conto della fregatura solo quando giurai e la giudice mi disse: «Auguri e buona fortuna».

Ho una nonna. Una dolcissima vecchina di poche parole, autonoma e indipendente fino ai cent’anni. Ha cucinato, pulito, accudito il figlio ultra-settantenne come meglio poteva e senza chiedere l’aiuto di nessuno. Anche adesso, se provo ad avvicinarmi, lei tenta di allontanarmi. Poi sorride e si fa accarezzare.

Al compleanno cifra tonda con due zeri l’ho portata al ristorante. Ha percorso le cinque rampe di scale per scendere dal secondo piano senza ascensore (perché nel condominio non esiste), ha raggiunto la macchina e si è lasciata accompagnare. Ha soffiato sulle candeline e mangiato da sola, con forchetta e coltello, gustando, fino all’ultima goccia, un bel bicchiere di vino.

Ha l’approccio rude ma poi mi dà la mano e viene con me.

Parla poco, ci sente poco. E allora io urlo, scandisco le sillabe e penso a quelli attorno a me che osservano una (la sottoscritta) gridare a una vecchina che mi guarda con gli occhi dello stupore. Forse anche lei pensa di avere una nipote svitata, ammesso che si ricordi chi sono. Quando mi vede sorride, quando l’abbraccio batte affettuosamente con la mano sul mio braccio e quando la bacio risponde allo stesso modo, anche se poi, quando qualcuno le chiede chi sia quella donna giovane che è passata a trovarla («Donna giovane non lo sono più tanto ma grazie del complimento!»), lei non risponde, resta assente e con gli occhi persi chissà dove e non c’è modo di farle pronunciare parola.

Le racconto qualcosa, non so neanche cosa recepisce. Però il freddo delle mie mani non le sfugge mai.

«Uh! Che fredda!» dice.

E io le spiego che fuori si gela, la temperatura si è abbassata, è inverno ma la sua mente è già altrove. Non risponde più, guarda i miei braccialetti, li fa tintinnare con le dita e saluta con la mano l’infermiera che passa e la chiama per nome, con un gesto che somiglia a quello del Papa.

L’avvocato mi disse che per gestire la nonna occorreva un Amministratore di Sostegno o ADS per dirla in gergo, qualcuno insomma che potesse amministrare i conti della Regina della mia casata e occuparsi dei suoi bisogni. Per una povera vecchina di un centinaio d’anni la legge imponeva un ragioniere.

Quale occasione migliore! Un ragioniere? C’est moi! E perché uso il francese? Meglio It’s me? Manca solo lo spagnolo: Soy Yo? E siamo al completo (grazie Mister Google per la traduzione). Il senso è sempre lo stesso: il ragioniere, anzi la ragioniera sono io, diplomata con un calcio nel sedere.

E così entro nel dedalo intricato dei corridoi con la lettera e delle stanze con il numero. Imparo presto: gli orari, i nomi, i volti, i sorrisi e il gusto del cappuccino con pasta di riso al bar del piano terra, in attesa del mio turno.

Imparo presto che se scrivo tutto quello che il funzionario mi dice, quando arrivo a casa ricordo ogni particolare. Sì, perché lui, anzi è una lei, parla a raffica, sciorina veloce veloce le pratiche da preparare: l’istanza da scrivere (e quello che ci va scritto), i moduli da compilare, le marche da bollo da acquistare che non devo comprare né troppo presto né troppo tardi ma in una data precisa. E mentre recita la lista della spesa, mi sorride e dice: «Ha segnato tutto?» (Sottotitolo: Se non hai bisogno di altro te ne puoi andare).

Ho imparato a non uscire da quella stanza se ho il più piccolo dei dubbi, un’incertezza o se non ho capito anche una sola delle diecimila parole che la funzionaria (non si dice ma mi piace) ha pronunciato in cinque secondi. Perché quando chiudo la porta alle mie spalle io non ricordo più nulla. Buio totale.

È il girone dell’Inferno. Aveva ragione la giudice ad augurarmi buona fortuna!

“Domattina vado in tribunale e se tutto va bene a mezzogiorno sono in ufficio” penso mentre organizzo la giornata. È un’avventura: sveglia presto per essere la prima davanti al cancello del tribunale, attendere le otto e mezza, prendere il biglietto e poi gironzolare fino alle dieci quando l’ufficio apre ai clienti. Ci va una mattinata. E non ne basta una sola: vado la prima volta a chiedere cosa devo fare, la seconda a consegnare (sperando di non avere fatto errori) e poi altre due o tre per ritirare l’atto (la prima non è ancora pronto, la seconda non c’è l’impiegato, la terza, se sono fortunata, me lo consegnano ma solo dopo aver comprato le marche da bollo e fatto le fotocopie). Un supplizio al supplì!

Per fortuna c’è la pasta di riso ad attendermi al bar.

In quell’ora e mezza di attesa, qualche volta, accendo il computer, rispondo alle mail, alle telefonate e leggo documenti di lavoro. C’è un salotto con divanetti, tavoli e piante. Mi accomodo lì, in quello spazio fuori dal tempo, dove le persone corrono, sbuffano e attendono.

Mi ripeto ogni giorno che non potevo fare altro. Che alternative avevo? Lasciare la mia nonnina, sangue del mio sangue, nelle mani di uno sconosciuto? Che poi quando la vedono diventano tutti amici suoi. Perché lei è così: tanto rude quanto dolce.

«Buongiorno» mi salutano gioiosi quando entro nella struttura che la ospita. «Che cara la nonna!» aggiungono. Ed è vero. È silenziosa, dorme quasi tutto il giorno e mangia ancora da sola. Rigorosamente frullato.

Ma lo stupore maggiore lo leggo negli occhi dell’impiegato comunale o del funzionare o dell’avvocato quando mi chiedono: «Quando è nata la nonna?»

Chiunque sia la reazione è sempre la stessa. Voi come reagireste se rispondessi 22 luglio 1913?

 

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