A mia nonna
Domande che
rimasero senza voce
Ultimo giorno
Nella perfezione, però, manchi tu.
È vuoto, quello che sento? O forse l’egoismo di non voler, a nessun costo, sentirmi sola. Mi chiedo spesso cosa sia la solitudine e perché incuta così tanto timore. Poi guardo al passato e capisco che non è l’essere da sola a spaventarmi, ma la mancanza delle tue parole, il non poterti ascoltare ridere a squarciagola come di solito fai. Anche in mezzo al dolore.
Sì, perché si può anche ridere di dolore.
Io non lo sapevo. Ma la prima volta che ho perso te ho riso. La seconda mi sono incazzata a morte con il destino. La terza ho desiderato la tua morte. La quarta, la mia.
Nell’imperfezione, esisti tu.
Non è un amore, il nostro, lo vedo più come una sfida, coltelli in mano, a costringere l’altro a cedere al proprio desiderio. Non solo quello carnale. Anzi, di carnale non c’è proprio nulla, considerando che non sei il mio uomo, né la mia donna, né un oggetto sessuale. Sei mio, mia, tutto, non so cosa sei. Una volta, tanto tempo fa, abbiamo provato a dircelo, anzi, a scriverlo su fogli immensi appiccicati al pavimento. Con i pennarelli in mano io scrivevo di te e tu di me. Abbiamo riso. Dio quanto abbiamo riso!
Tu di me hai scritto pene, e io, intendendo il sesso maschile, ti ho guardato seria e ho intercettato il tuo sguardo per poterci leggere il significato di quella parola associata a me. Tu, bastarda, hai colto il mio dubbio e non hai mosso neanche l’angolo della bocca ad accennare un sorriso. Mi hai lasciata così, inebetita davanti alla tua strafottenza. Avrei voluto prenderti a schiaffi, morderti e poi baciarti dolcemente sulle labbra, sfiorarti con i polpastrelli e annusare la tua pelle. Quando hai colto il mio desiderio, allora hai riso. Doppiamente bastarda!
Per strappare dalla pancia la mia eccitazione, ti sei alzata e hai preparato la nostra ora del tè. Hai riempito d’acqua il bollitore vecchio di mia nonna, quello che ti ostini a non voler buttare via perché solo lì il tè viene come piace a te. Poi le tazze, sistemate sul vassoio, la mia e la tua, vicine, vicinissime. Lo zucchero solo di canna grezzo di coltivazione biologica, in alternativa miele dell’apicoltore che vive vicino al torrente. Non so perché tu ti sia intestardita nel volerlo comprare solo da lui, ma ho visto gli sguardi, ho notato che ogni barattolo che compri te ne regala un altro. Quando vai a comprare il miele non torni mai a casa. Una volta sei rientrata il giorno dopo. E io sono impazzita! So che muori tra quelle braccia possenti mentre io posso solo deliziarti con carne morbida e vellutata.
Hai scelto il mio tè preferito. Darjeeling indiano di dubbia provenienza, così lo chiami per farmi arrabbiare. Per te tisana al finocchio; sembra che abbia il potere di farti rilassare e ti aiuti a pensare positivo. Tua nonna, quando eri piccola, ti riempiva il biberon grande di quella bevanda e da allora non hai più smesso.
Mentre tu prepari il tè, io penso a una parola che ti rappresenti e scrivo anima. Dopo che mi hai definito pene non meriti una parola così bella, ma il mio cuore suggerisce solo questa e la scrivo in maiuscolo, stampatello, grassettato e con una linea rotonda che ci gira tutto attorno. Sopra la parola il cerchio si schiaccia verso il basso, sotto invece forma una punta all’ingiù. L’ho incorniciata con una riga rossa, il colore del cuore.
Quando ti avvicini con il vassoio in mano, io siedo con le gambe incrociate e attendo paziente che appoggi la nostra merenda sul pavimento, sopra le nostre parole, e siedi vicino a me. Guardi il cuore. Poi me. Poi sorridi.
Bello il cuore, dici.
E della parola cosa ne pensi? chiedo senza staccare gli occhi dalle tue folte ciglia.
Bella, rispondi senza troppa enfasi. Molto bella, aggiungi un attimo dopo.
Forse ce l’ho scritta in faccia, la delusione per la tua reazione. Mi aspettavo un abbraccio, sì, lo volevo, un tuo abbraccio. Perché non puoi amare una persona, come tu ami me, senza desiderare un suo abbraccio.
Sorseggi la bevanda e mi chiedi, perché anima? Perché sono un’anima, secondo te?
Ci penso e non lo so spiegare. Tu sei eterea, intoccabile, una nuvola soffice che galleggia sul filo dell’aria, quella che mi necessita per vivere. Tu contieni ossigeno, sei della stessa sostanza dell’acqua. Potrei vivere senza questi due elementi? Non c’è risposta a una domanda così banale. Un giorno sei entrata nella mia atmosfera. Non so come. Non ti ho chiesto perché, a me non serviva saperlo. Ti avevo e tanto bastava al mio cuore.
Provo a spiegarti questo, ma tu mi guardi con la faccia che sa di nuvola, panna montata, con due fragole appiccicate alle guance e una leggera sfumatura color oro sulle palpebre. Hai gli occhi neri e quel tocco brillante li fa esplodere ancora di più. Dio quanto amo i tuoi occhi. Li passi su di me come un radar, scandagli i miei sensi con l’arroganza della donna libera. Mi provochi, scavi un buco nel mio torace e poi lo riempi di un amore solo tuo. Non mi hai mai detto quello che provi per me, ma io lo percepisco.
So che non potresti vivere senza questo legame che ci unisce. Ridi, mentre lo dico. È il mio modo per tirarti fuori un sì, che non arriva. Non arriverà mai. Sei troppo orgogliosa per dirmi che mi ami. Hai paura di una delusione. Un rifiuto. Un abbandono.
Ma come posso lasciarti se l’amore che provo per te è totalizzante, unico, travolgente. Se mi sono trasformata da persona a zerbino. Se ho scelto di vivere come tu vuoi che io viva.
Il darjeeling mi osserva dalla tazza, con il suo temperamento ambrato. Tè nero. Che io lascio in infusione per pochi minuti. A conferma del suo sapore delicato. È lì che si specchia il tuo sguardo, con quel sorriso mozzato che mi punge la pancia in più punti. È lì che trovo te, quella parte di anima che ha saputo, in questo ultimo anno, alimentare la mia, nutrirla, farla crescere. Hai saputo, con i tuoi occhi scuri, accogliere il mio affetto con un’accettazione infinita.
Mi hai preso per mano? Lo sai che non lo ricordo? O forse io ho preso per mano te. E abbiamo camminato. Tanto. Per una destinazione sconosciuta. Abbiamo cercato invano un riparo, quando l’unico riparo utile eravamo noi due, con due cuori accostati così vicini da sembrare uno.
Mi chiedo quanto potremmo vivere, l’una senza l’altra, o senza quelle parole, quei gesti che ci fanno toccare la vita. Porgo a te la domanda, ti lancio la palla, e tu ridi, con quel suono cristallino che automaticamente coinvolge anche la mia risata. Sono le parole, mi dici, il nostro unico legame, sono i nostri pensieri, così reciprocamente collegati, sono i momenti felici, di pura gioia, e quelli tristi, fino alla profondità dell’anima. Anime asciutte, le nostre, senza più lacrime da versare. Non devi piangere, ti dico, nemmeno tu, rispondi. La tua mano ora è sulla mia, disegna tatuaggi immaginari di parole che incidono l’anima e la liberano dalle sue pene.
Giorno numero uno
Non lo ricordo più, il giorno numero uno. Un giorno non c’eri e quello dopo invece sì. Sei apparsa, iniziando a fare parte di quel mondo che ha per confini la mia vita.
Hai iniziato tu oppure io? Non ricordo nulla del nostro Big Bang. Due universi esplosi per poi fondersi in un unico nucleo, quello che contiene il succo della nostra amicizia.
Avevamo qualcosa in comune. L’amore per la scrittura. Quelle parole che hanno formato un legame solido, una catena di acciaio che ha legato la mia anima alla tua.
Siamo partite da lì, dalle parole. Da quel poco che sapevamo l’una dell’altra e da ciò che amavamo di più. Ci siamo inventate, raccontate, una tessera dopo l’altra e ci siamo scoperte totalmente diverse pur essendo profondamente uguali.
Tu ai monti, io al mare. Tu nera, io gialla. Tu con tutte quelle treccine. Strette e colorate. Ci siamo scoperte piano piano, come terre selvagge, dove entri un passo alla volta, cercando di non fare rumore. Tu, terra sconfinata, che ancora ogni giorno mi sorprendi per quanto sei immensa e inesplorata.
Parto da qui, dalla descrizione che posso fare di te.
Hai una età indefinita fra i diciotto e i diciannove anni. Rideresti, lo so, perché sono certa tu ne abbia più di quaranta. Ma che importa. Dicono tutti che l’età è quella che ci sentiamo dentro e per me tu hai diciotto anni e mezzo. Quel mezzo in più che ti concedo è per darti modo di poterti considerare una donna matura. Sei una strega, e per quanto ne so potresti andare in giro la notte per i tetti su una scopa a disturbare il sonno dei bambini indifesi. Ti avvicineresti con il semplice desiderio di fare loro qualche scherzo innocente: il solletico sotto i piedi, un pizzico piccolo piccolo su una guancia paffutella o un brutto sogno. Una cosa è certa. Di notte vivi sui tetti. Siedi sui coppi, raccogli le gambe strette vicino al seno, avvolta in uno scialle, e osservi il cielo. Cerchi una parola, un segnale, una risposta, un accenno di futuro. Sei la bontà assoluta. Quando non ti arrabbi. Nell’anno che abbiamo trascorso assieme non ti ho mai vista irritata; delusa, forse, ferita, amareggiata, ma adirata mai. Sei quasi troppo buona che a volte mi incazzo io per te. Quella volta che il tuo vicino di casa è entrato senza il tuo permesso l’avrei preso a pugni negli occhi. Ti sei limitata a guardarlo male, l’hai apostrofato per bene e gli hai sbattuto il portone sul naso. Troppo poco, io credo. Avresti dovuto stringere i pugni come fai quando sali sul ring e pestarlo fino a farlo piangere. Porco! Gode nell’osservarti. Ama la tua carne pallida. Si eccita a un tuo sorriso. E io non lo sopporto. Tollero a mala pena le tue fughe di sesso, quando sparisci di notte e nessuno sa dove sei, se rilassata sul tetto, nascosta nel bosco o infilata in mezzo alle lenzuola di qualcuno o qualcuna. Non ho ancora capito cosa ami di più al mondo. Quale sia la cosa a cui non rinunceresti. So che non faresti mai a meno del tuo cavallo e lo porteresti anche su un’isola deserta. Anche il telefono è indispensabile per te, e spero lo sia perché è l’unico filo che ci lega, il solo modo per colmare la nostra distanza. Ami il tè, il vino e tutte le verdure che crescono nel tuo orto. Quando sono stata da te ho mangiato solo vegetali e non ho sofferto per l’assenza di carne. Per quella c’eri tu. Hai riempito la mia anima con ciò che sei e non ho avuto fame.
La nostra prima volta non la ricordo. Io avevo letto il titolo del tuo libro da qualche parte, su qualche sito, e mi aveva incuriosita. L’ho acquistato, scaricato e dopo averlo letto ti ho scritto. È avvenuto così? Tu hai memoria di come sia andata? Quello che non dimenticherò mai è quanta emozione mi abbiano trasmesso le tue parole. Mi sono rintanata a leggere le tue pagine, chiudendo il mondo fuori e lasciando entrare solo te. Ho sottolineato con una linea immaginaria ciò che mi emozionava: tutto! Per leggerti avevo bisogno di silenzio, di averti solo mia. Di capirti come nessun altro aveva fatto. Di trovare nella tua anima quello che mancava alla mia. In quel momento credo di avere capito che non avrei mai più potuto vivere senza di te, che la mia esistenza non avrebbe avuto senso in tua assenza. Ne aveva avuto prima di te? Me lo chiedo ancora.
Per che cosa ho vissuto, se non per incontrare te?
Quando te l’ho detto hai sorriso, poi sei scoppiata dentro e mi hai riempita di quelle parole che nessuno mi aveva mai donato prima.
Ho capito una cosa. La so da tempo ma per la prima volta la scrivo a te.
Io e te dovevamo incontrarci, prima o poi. Per un motivo o un altro. In qualsiasi forma o creatura. Sotto forma di nuvola o cane o fantasma. O come foglie di uno stesso albero, trasportate dal vento o dall’acqua, in un legame eterno, indissolubile.
Quale sia lo scopo me lo chiedo dal giorno numero uno della nostra amicizia. O amore. O non so.
L’amore e l’amicizia sono le due facce della stessa moneta. Qual è il limite? L’amicizia finisce sul bordo da cui inizia l’amore?
Ho provato a chiedertelo più volte ma hai sempre eluso l’argomento. Mi hai lasciata con il dubbio. Sospesa a un filo. Buttata in un angolo come un sacco. Persa nei miei pensieri.
Cominciano con la A. Amicizia. Amore.
Ma ancora non capisco quale sia il confine.
Quella volta che
Il mio amore per il tè non è nato con il darjeeling. Ha origini molto più antiche, cresciuto tra le mura nere di fuliggine della vecchia cucina. Tra pareti strette, scrostate dal tempo e dall’umidità.
Se potessero parlare. Se potessero raccontare ciò che hanno visto e ascoltato…
Nonna aveva un modo tutto suo di prepararlo. Oggi farebbe inorridire i cultori della tradizione. Coloro che non ammettono tè in bustina con il limone e lo zucchero.
Ma lei si farebbe una risata, perché il tè che preparava era il più buono del mondo.
Era robusta e si muoveva a fatica, ma instancabile e dolce come non ne ho conosciute mai. Pronta a donare quello che aveva: un piccolo dolce, una bevanda calda o una storia terrificante.
Versava l’acqua nel bollitore, facendola scendere piano, a gocce, e canticchiando. Lo poggiava sulla stufa e, con gesti lenti e misurati, apriva la vetrina e cercava le tazze, scegliendole tutte uguali. Bianche, di ceramica con le rose rosa, il profilo d’oro e qualche sbeccatura qua e là.
Le spolverava con un cencio di cotone, disponendole al centro del piattino, prendeva i cucchiaini che infilava nella zuccheriera e poi tagliava la ciambella, a forma di filoncino, fatta con le sue mani carnose e ricoperta di zuccherini colorati o confetti piccoli piccoli. Era morbida come le sue guance. E sapeva di nocciola e uvetta.
Il tè era bollente con tanto limone, zucchero e amore. Il suo.
Poi sedeva al tavolo. Prendeva in mano un uncinetto, un filo di cotone bianco e, mentre raccontava, passava un capo sul dito, infilava il ferretto e lo estraeva da una catenella. Poi gettava di nuovo il filo sull’uncinetto e continuava così, senza guardare dove andavano le mani. Ogni tanto sorseggiava il tè.
Da una pentola sotto il coperchio, uscivano sbuffi di vapore. C’era sempre qualcosa che bolliva sulla stufa: verdura, carne o semplicemente acqua pronta all’uso. Perché poteva sempre servire.
Avrei tanto voluto fartela conoscere. Voi due vi sareste riconosciute subito. Avreste imparato l’una dall’altra: lei a scrivere e tu a fare l’uncinetto. Avreste invertito i ruoli. Tu a preparare il tè, lei a cavalcare il tuo stallone.
Avresti raccontato le sue storie: di donne che si svegliano per la paura di non essere sole, di uomini che strappano l’anima alle bambine, di vita che sa andare solo avanti e mai indietro.
Lei era il caldo di un abbraccio. La luce di un sorriso. La consolazione di una parola.
Sapeva sempre cosa c’era nella tua testa e nel tuo cuore. Senza chiedere.
Sapeva tutto di tutti, senza uscire mai di casa.
La vita non aveva segreti.
Le amiche le facevano compagnia ogni domenica pomeriggio, in quella cucina piena di vapore e profumo di ciambella.
Nella tasca del grembiule aveva le caramelle, i fazzoletti e le carte.
Quando incontrava qualcuno che aveva gli occhi tristi, lei mischiava il mazzo e cominciava a tirare fuori una figura alla volta e a disporle in una lunga fila dritta.
Poi parlava con una voce diversa che faceva paura anche a me che la conoscevo.
Diceva cose strane, mezze canticchiate. L’ospite di turno mi guardava con un velo di panico negli occhi e lo sguardo che formulava domande. A me. Io che ne capivo meno di lui.
Dopo giri e giri con le carte, alla fine lei si destava. Lo guardava negli occhi e gli diceva: hai capito? No, rispondeva lui. E lei rideva, aggiungendo: vai e sii felice.
Tranne una volta.
Quella in cui una mamma venne per chiedere aiuto. Sapeva da voci di paese che lei era capace di leggere le carte: voleva risposte e la verità.
Io ero presente, non so come ma c’ero sempre in queste occasioni.
Lessi la tensione nei suoi occhi. Anche lei sapeva che sarebbe stata un’altra cosa ma non disse di no.
Le carte girarono in modo diverso. Non era più una fila ma un cerchio stretto e poi sempre più grande. E fanti e cavalli e re, e gli assi e i colori. Qualcuno stava male, molto male. La donna non avrebbe dovuto venire da lei, disse, ma andare da un medico. C’era bisogno di aiuto per questa persona ma non era lei quella che avrebbe potuto guarire chi era in difficoltà.
La donna uscì di corsa e noi rimanemmo sole, a guardarci e farci domande che rimasero senza voce.
Dove inizia il fosso
Da piccola correvo di fronte a casa con le bambine di altre famiglie che abitavano vicino a noi. Trascorrevamo così i pomeriggi. Disegnando corse nell’erba. Giocando a nasconderci. Raccontandoci storie. Inventando Sanremo. Imitando i grandi.
I solchi nel terreno erano più alti delle nostre gambe. Sembravano montagne. Ma per noi erano giostre che andavano su e giù. Scalavamo quelle cime rincorrendoci e facendo a chi arrivava prima per poi aspettare quelli piccoli che restavano indietro e ci raggiungevano in lacrime. Il grano, quando era alto, era un nascondiglio perfetto. Non pensavamo all’ira degli adulti e incuranti del danno che provocavamo, ci infilavamo in mezzo alle spighe e ci acquattavamo a terra.
Quando sentivi l’urlo Arriva mamma!, dovevi scappare più forte che potevi, dimenticandoti chi rimaneva indietro perché più lento di te e restare fuori casa fino a quando pensavi che la sua rabbia fosse sfumata. C’era sempre quel laccio di cuoio appeso alla parete, il terrore dei piccoli e la scusa dei grandi. Lo strumento di educazione primario. Con quello davanti agli occhi facevamo qualsiasi cosa ci venisse chiesta.
E quanto tornavo sentivo fischiare l’aria prima ancora di entrare in cucina. E subito dopo quel pizzicore sulla pelle che non mi faceva dormire, tanto era forte.
Avrei voluto averti come amica da allora. Avrei voluto crescere con te, correre assieme nelle zolle, nasconderci vicine dietro il muro di casa o nella legnaia. Avresti amato il mio paese e la terra così piatta e distesa, ora verde, ora oro, ora marrone. Avresti annusato l’odore del grano, della paglia, del fieno. E insieme avremmo dormito sotto una coperta di stelle, sopra un giaciglio di erba, abbracciate strette, ognuna con i propri sogni da raccontare. E poi avremmo ascoltato il canto dei grilli, delle cicale e osservato il tramonto oltre la collina, quel giallo che si espande e poi diventa oro e poi rosso e viola e blu.
Che giorno è oggi
Perché ti racconto di mia nonna e della mia infanzia non lo so.
So che avrei voglia di condividere tutto. Diventare io per te e tu per me un’unica lunga intrecciata esistenza. Un racconto che inizia per caso e solidifica a ogni passaggio. In eterno.
Il nostro è un legame di parole.
Abbiamo iniziato così ed è così che continuiamo.
A scriverci, a sfogarci, a prenderci in giro, a stupirci, a ridere e a piangere su un foglio bianco.
Quanti anni sono non lo so, non ho contato il trascorrere delle lune, i passaggi delle stagioni, i chilometri percorsi, le lettere digitate. Quante ne abbiamo consumate?
Quante immagini scattate? Quanti abbracci mancati o sorrisi spenti?
Oggi è uno dei giorni.
Il numero x.
Uno di una lunga catena.
Uno che inizia e finisce e domani ci trova ancora qui. Anello dentro anello. Unite da un unico lungo filo di luce e dalla voglia, un giorno, di incontrarci per davvero.
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