Tre personaggi in cerca della loro autrice
Il bollitore è sul fuoco, un filo di vapore sale dal beccuccio verso la cappa. Sono le cinque, l’ora del tè. Conto le tazze che Ilaria posa sul vassoio, assieme alla zuccheriera a fiori pastello sbeccata in più punti e ai cucchiaini: sono quattro.
«Aspettiamo qualcuno?»
Domanda retorica, è nel mio stile chiedere ciò che è ovvio.
Lei non risponde, si muove con leggerezza silenziosa, ogni tanto volge lo sguardo verso di me con una smorfia così dolce sul viso da intenerire anche un cuore di ghiaccio. Ilaria non era così nella mia immaginazione. Oggi ha raccolto i capelli a treccia, ha indossato una salopette di jeans e una t-shirt di cotone a maniche lunghe color corallo. Dallo scollo della maglia si intravedono fiori, foglie e piccoli uccelli disegnati perfettamente sulla sua pelle. Posa il vassoio sul tavolo e prepara le bustine di Early Grey, le fette di limone e apre la zuccheriera, colma di zucchero di canna. Da un pensile estrae un barattolo di biscotti secchi che pone vicino al piatto con la crostata di frutti di bosco e mandorle. Guarda l’orologio e quel preciso istante il campanello suona due volte. Come il postino.
«Apri tu?» mi dice.
Mi alzo e premo il pulsante sul citofono. Mi risiedo e, mentre scorro le notizie di Facebook per controllare i mi piace e i commenti ai post del mio Cactus, mi raggiunge il rumore del portone che si chiude, seguito dal suono di risate allegre su per la scala. Riconosco un uomo e una donna, voci che non ho mai sentito. Lei ha un tono squillante, felice. Lui ha un timbro profondo e un ritmo pacato, quasi rilassante. Appoggio il telefono e attendo con i gomiti sul tavolo e i pugni a reggere il mento.
Manca un giorno all’uscita del romanzo e io sono nella apatia più totale, in uno stato di indifferenza prolungata, insensibilità, indolenza nei confronti della realtà esterna e dell’agire pratico (tradotto dal Treccani), ossia sono talmente agitata per domani che non ho voglia di fare altro che attendere.
Assieme a Rebecca e a Vittorio nella stanza entra la luce. Lei è raggi di sole, azzurra ovunque, negli occhi, nel vestire, persino nei capelli. Il suo sorriso mi cattura subito, mi avvolge in una coperta calda ed è come se la conoscessi da sempre. Io mi alzo, attendo che si avvicini e con il cuore che batte fortissimo accolgo il suo abbraccio. Vittorio mi sorride e siede a capotavola.
Ilaria serve il tè e poi si unisce a noi.
Di solito sono io a gestire la rubrica in cui parlo di libri e cultura con scrittori e lettori nel mio salotto letterario – la mia ora del tè – e mai avrei creduto di ritrovarmi a tavola con i miei personaggi. Abitano già a sufficienza nella mia testa, nelle mie giornate, occupano cuore, anima, mente, sono i miei “amici immaginari”. Ora li ho qui, a bere il tè con me come se ci conoscessimo da sempre.
Rebecca intinge un biscotto dietro l’altro senza spegnere mai il sorriso, guarda il suo uomo e tra un sorso di tè e l’altro gli accarezza la mano appoggiata sul tavolo.
«Buono,» dico a Ilaria, per spezzare la magia presente nell’aria. Lo so, non si fa, ma ho bisogno di parlare.
«Grazie,» risponde lei.
«Mia mamma è bravissima a preparare il tè,» aggiungo.
Rebecca mi fissa a lungo.
«Io non ho una mamma.»
«Certo che ce l’hai,» dico per consolarla.
«Ma non hai parlato di lei.»
«Hai ragione. Me lo sono chiesta più volte, durante la stesura, se valesse la pena introdurre i tuoi genitori, figure importanti e fondamentali; ci ho pensato tanto e ho ritenuto sufficiente concentrare la storia sul tema principale senza aggiungere altri personaggi.»
Lei fa un cenno di assenso con la testa senza smettere di emanare luce, i capelli a caschetto ondeggiano sulle spalle accarezzandole.
«Grazie,» mi dice poi. Vittorio le stringe la mano.
«Di cosa?»
«Hai scritto la mia storia.»
Mi perdo nel blu dei suoi occhi e mi rendo conto solo ora che ho scritto per davvero la sua storia, una storia che non conoscevo e che mi ha catturata completamente. Mi sono immedesimata, ho percepito le sue emozioni, le paure, le inquietudini e il dolore che ha provato. Ero lei mentre scrivevo, ero lei mentre interpretavo la mia vita.
«Era importante farlo.»
Ilaria sorride all’amica e poi mi guarda.
«Cosa ti ha spinto a scrivere questa storia?»
«Una rabbia profonda,» dico con il fiato corto, «un dolore difficile da aggredire. Avevo una storia importante da donare al mondo e dovevo farlo. All’inizio era questo il motivo. Poi ho capito che dovevo lasciare qualcosa all’umanità, un segno. Il cactus non ha colpa è la mia eredità.»
Ilaria fa un mezzo sorriso in attesa del resto.
«Avevo un messaggio da condividere,» proseguo come se parlassi più a me stessa che ai miei personaggi, «quando la vita ti fa lo sgambetto, alzati e cammina. Dopo il primo te ne farà un altro e tu di nuovo rialzati. Un giorno arriverà la botta più grossa e tu dovrai essere pronta ad attraversare il buio, perché dall’altra parte, anche se non lo vedi, c’è il sole.»
Rebecca sorseggia il suo tè e poi inclina la testa.
«Mi sono emozionata quando ho letto le pagine ambientate a Pont-Saint-Martin e Milano. È stato bello ritrovare i posti dove ho vissuto nella tua storia.»
«Sono anche i miei, non proprio gli stessi ma mi sono ispirata ai miei luoghi del cuore, città in cui ho lavorato per anni: Rimini, Pesaro, Milano, Ivrea. A quest’ultima, in particolare, ho lasciato in pegno il mio cuore.»
«Lo capisco.»
«Ho viaggiato per anni sui Frecciarossa, poi quando sono stata destinata a Ivrea ho sostituito il treno con l’automobile.»
«Anche tu hai lavorato con persone meravigliose come Vincenza, Susanna, Rolando, Massimo?»
«Sì, in trent’anni di carriera ho incontrato centinaia di persone splendide: colleghi, clienti, rivenditori, fornitori. Ho coordinato gruppi di lavoro formati da tecnici preparatissimi, uomini e donne indimenticabili. La mia prima responsabilità era quella di farli alzare ogni mattina con la voglia di recarsi in ufficio. L’armonia del mio reparto il mio primo obiettivo.»
«Come nel mio acquario.»
«Proprio così.»
«Hai amato il tuo lavoro?»
«Alla follia.»
«Anch’io. È stata dura separarmene e sono certa lo sia stato anche per te. Quando hai iniziato a scrivere Il cactus non ha colpa?»
«A febbraio 2019, all’Hotel La Villa di Ivrea, seduta sul letto, in quella che allora era la mia casa quattro giorni alla settimana. In quel momento mai avrei immaginato che dopo due anni quella bozza sarebbe diventata un libro con tanto di editore e ufficio stampa. Una sorpresa.»
«Credo lo sarà per tutti,» dice lei con un sorriso, mentre siede sulle gambe di Vittorio.
Lui non ha ancora parlato, ascolta i nostri scambi, attento alle parole, ai gesti, alle emozioni che aleggiano attorno al tavolo.
«Ti posso fare un’ultima domanda?» dice lei.
Dico sì con un movimento del capo e attendo. So cosa sta per chiedermi. Lo so dal momento in cui è entrata in cucina.
«Perché l’hai fatto sparire senza una spiegazione?»
Non serve che lo nomini, so esattamente chi è il soggetto. Ci penso e, mentre rimugino su cosa rispondere a Rebecca, ascolto il mio cuore e i suoi rintocchi si diffondono attraverso i muscoli, le fibre, il sangue; scorrono nella linfa riscaldandomi. Lo ascolto e ricordo le tante volte in cui mi sono ritrovata da sola a fare i conti con me stessa con un quaderno pieno di domande a cui nessuno rispose mai. Forse è stato così anche per lei.
In certe occasioni avresti bisogno di quella parola che nessuno ti può dare e le rassicurazioni che ricevi non servono a placare delusione e amarezza. Ricevi consigli da chiunque ma non sono mai quelli giusti. In altre occasioni avresti bisogno di quella mano, anche se sai che dovrai tirarti su da sola e imparare a camminare di nuovo nella vita di tutti i giorni dimenticando quella di prima. E finisce che anche tu, del resto, non sei più… quella di prima.
Rebecca è illuminata da due occhi blu color mare chiaro e li punta dritti verso di me; sono l’espressione del suo sorriso. Ci leggo tenerezza, delicatezza, affetto. So che mi capisce più di chiunque altro.
A volte le domande restano senza risposta e sono quelle che fanno più male.
«Non lo so…» azzardo sottovoce, «è sparito e basta. Forse le persone sono solo persone, con i loro pregi, i difetti e con il potere o l’incapacità di essere leali e amare gli altri. Forse alcune situazioni sono più grandi di loro e non le sanno gestire, forse si ritrovano con in mano un giocattolo e non si accorgono che non è soltanto un giocattolo. Forse è più facile sparire che dare una risposta che non c’è.»
Sì, forse la risposta è questa, meglio svanire nel nulla che affrontare il dolore altrui.
Rebecca mi sorride e stringe la mia mano. Per entrambe quel dolore fa parte di un passato che è servito a qualcosa: amare di più noi stesse.
© Roberta Marcaccio 2023 – All rights reserved
Il racconto Tre personaggi in cerca della loro autrice è un’opera di fantasia; i fatti, le persone e i luoghi sono totalmente inventati.
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