Autostima, la Considerazione che ognuno ha di se stesso

Avete mai guardato allo specchio la vostra Autostima? Sapete che volto ha? Premetto: parlo solo per esperienza personale.

Quando nasciamo non sappiamo cosa sia l’Autostima e, senza che nessuno ce lo insegni, la costruiamo o la distruggiamo in funzione delle dinamiche che viviamo.
L’Autostima è la somma dei riconoscimenti ricevuti, delle critiche costruttive, dei complimenti, dei denti rotti e dell’anima spezzata.
Prima o poi devi farci i conti.
Durante la scuola spesso capita di sentirsi inadeguati o la difficoltà di superare un esame diventa invalidante. La stessa cosa nella vita adulta: i riconoscimenti che riceviamo, negativi o positivi, sono cicatrici indelebili. Restano incise sulla pelle. Segni eterni che non vanno via, come una smagliatura. Strappi nell’anima difficili da ricucire.
Io mi chiedo, ogni giorno, se le persone si rendono conto dei danni che provocano quando si rapportano con gli altri. Si fa un gran parlare di empatia, di comprensione, il web è pieno di articoli, post, documenti che parlano di counseling, psicologia e poi ci perdiamo in un bicchiere d’acqua: il rapporto quotidiano.
Parlo perché ho sofferto e se ci penso ancora oggi gli occhi si riempiono di rabbia, di quella delusione amara che resta appiccicata addosso e si trasforma nei peggiori sentimenti, quelli che non sapevi nemmeno esistessero. E allora diventi rancorosa, adirata, sospettosa, chiusa, vendicativa, bisognosa di ricevere un sorriso, quello che hai perso da tempo e non sai più ritrovare, quella voglia di ridere e divertirti e sperare che arrivi presto lunedì per entrare in ufficio dalle persone che ami e che ormai è solo un lontano ricordo.
Parlo perché un giorno qualcuno mi disse che non avevo Autostima. La voglio scrivere con la A maiuscola. E poi me lo disse anche coi fatti. Il messaggio era più o meno questo: ti butto via perché non vali o non mi servi. E tu, che l’Autostima l’hai cullata in mezzo al mare in tempesta, quando arriva l’onda lunga ti butti giù e bevi. Bevi. Bevi. E speri solo sia un incubo, un brutto sogno da cancellare al risveglio.
No!
È realtà. Un roccia dura da sgretolare con le unghie ogni giorno.
Quando sei sott’acqua pensi non ci sia nessuno o nulla che possa salvarti. Sei lì, alla fine di una vita stupenda e complicata, con il nulla in mano. Sola con gli scheletri: ricordi bellissimi e travolgenti. Mai stati più belli di così.
Il sapore dei ricordi può essere amaro. E quando diventa amaro non hai più scampo. Ci muori dentro.
Bene! Ma la vita non finisce così e la medicina è una sola. UNA SOLA!!
Il sogno che hai chiuso nel cassetto quarant’anni prima. Quel sogno che ti sbriciola dentro, ti rigenera, ti fa sentire euforica, cancella le maschere attorno a te, rigenera la fiducia, dipinge a colori accesi, polverizza i ricordi brutti, ti riempie di dubbi, di “ce la faccio”, di “cazzo, è dura”, di alzatacce, sonno, voglia di riposare, ma vai avanti!! È il boccaglio che qualcuno ti passa mentre sei sott’acqua, quella mano che ti tira su a respirare ossigeno.
Cos’è? La so definire solo con una parola: Amore. Per quello che sei, che vivi e fai.
È amore per un sogno che coltivi da tempo e finalmente ce l’hai in mano. Per la possibilità di dimostrare a te stessa che hai le palle sotto la gonna. E perché finalmente hai fatto il passo che ti ha allontanata dalle maschere con cui hai vissuto per anni.
E alla fine devi ringraziare proprio quelle persone che hanno tentato di distruggere l’unica parte dell’anima che aveva bisogno di coccole, senza riuscirci, e perché grazie a loro hai capito che l’Autostima ce l’hai e se la potessimo misurare peserebbe TRENTA tonnellate!

E quel TRENTA non è un numero a caso!! 😉

La mia Shoah

È un po’ che ci penso, giro attorno alle parole per trovare quelle giuste. Scrivo, cancello, ricomincio daccapo. E poi chiudo tutto e penso ad altro. O almeno ci provo.

Per anni ho chiuso orecchie, occhi, cuore, anima pensando a cose piacevoli per evitare di capire, conoscere, toccare.

Quest’anno no. Saranno i cinquantaquattro anni appena compiuti? Una maturità (si spera) maggiore? Il desiderio di entrare nei ricordi ed esserne parte? O il bisogno di sapere di più?

È accaduto per caso, un giorno, alla Mondadori. Un giro tra gli scaffali. Un’occhiata in qua e in là. Rigiro qualche volume tra le mani e tanti ne rimetto a posto. Tranne uno. Che mi rimane appiccicato. Ha una bella copertina, il testo è impaginato come piace a me: lettere a grandezza media, righe distanziate, carta avorio ruvida. C’è ossigeno tra le parole. Leggo qualche frase, osservo i dialoghi, con occhio critico registro lo stile pulito, semplice e lo compro.

A casa trova posto sul mobiletto di fianco al comodino assieme ad altri suoi simili in attesa di superare il periodo di adattamento prima che la mia attenzione cada su di lui. Alcuni libri restano abbandonati per anni. Qualcuno per sempre.

A dicembre è il suo turno. La scelta di un libro ha un significato profondo e, per quel che ne so, non sono mai io a scegliere quale leggere ma il contrario. Mi ricorda tanto la storia delle bacchette di Olivander.

Pagina dopo pagina m’incammino tra le righe di Avevano spento anche la luna con una apprensione leggera di fronte all’ignoto. In bella calligrafia Ruta Sepetys ci presenta Lina. Sono a un bivio, a destra chiudo il libro e lo lascio decantare, a sinistra apro gli occhi, osservo e contemporaneamente chiudo il cuore e lo proteggo dal dolore. Vado a sinistra.

Lina, la sua famiglia e altre migliaia di persone vengono strappati senza motivo dalle loro case in Lituania e deportati nei campi di lavoro in Siberia. Qualcuno finisce in prigione (forse ucciso), gli altri in luoghi sperduti, in mezzo al fango, alla neve, in baracche costruite al momento, precarie, inutili, sempre più deboli e malati. È nei campi di lavoro che Lina conoscerà a fondo l’umanità e la disumanità. Imparerà il senso della sopravvivenza, il dono dell’amore agli altri, la condivisione, l’aiuto, la cura.  Conoscerà Andrius, un ragazzo che diventerà una persona importante della sua vita, e Nikolaj Kretzskij, una giovane guardia dell’NKVD, che Lina odierà per quello che rappresenta. Lo strappo dal paese di origine e dal padre stravolgerà, in una sola notte, la sua vita tranquilla: raccoglierà a stento pochi effetti personali, prima di essere buttata su un camion in partenza per un luogo sconosciuto. Viaggerà per mesi, su un treno merci, ammassata ad altre persone, nello sporco, negli escrementi, per raggiungere l’Inferno, un girone dannato da cui non si fa ritorno. Lina, bravissima in disegno, userà il suo talento per comunicare con il padre, deportato in prigione, e per lanciare segnali: ritrae le persone, i luoghi, documenta i fatti, conserva ogni foglio con cura a testimonianza della crudeltà degli uomini. Maltrattati, scherniti, sfruttati i deportati vivono nella disperazione, lottano ogni giorno nella speranza che l’incubo sia soltanto un incubo.

Arrivo alla fine della storia di Lina con il bisogno di comunicare. Ci provo ma le parole si spezzano da sole e non trovano la strada per il racconto. Cerco altro e sul Kindle mi imbatto in Se questo è un uomo. Riposa nel mio e-reader da non so quanto. Lo apro: è ora.

Se questo è un uomo è storia. Non mi vergogno a dire di aver sempre chiuso gli occhi di fronte alle atrocità dell’antisemitismo e non credo di essere l’unica a non aver avuto coraggio, per molti anni, di infilare il cuore in quel mare di fango. Primo Levi apre le pagine al diario dei ricordi e lo fa come se dovesse raccontare un qualsiasi viaggio. Chiude il rubinetto delle emozioni e lascia che sia il lettore a trasformare le parole in sensazioni, immagini, percezioni. Quello che mi ha toccata profondamente è la determinazione, la forza di vivere, la tenacia e la motivazione dei prigionieri di fronte a un destino che avrebbe ridotto alla disperazione chiunque. Ma non loro! Ogni giorno era un giorno in meno nel campo e un giorno più vicino alla speranza. Ogni giorno era un giorno di vita vissuto in più. Di fronte a certe pagine diventi piccola. Provi a metterti in quei panni anche se sai che non puoi farlo. Ti vergogni, questo sì. Di quello che hai, di come vivi, dello spreco, delle lamentele inutili e della violenza a cui assisti ogni giorno. Pensi che forse quello che hanno sopportato i deportati non è servito da lezione all’umanità. Le lotte razziali continuano nel 2020 e non solo verso gli ebrei.

Per un mio senso di riservatezza non ho mai espresso la mia opinione in modo plateale; preferisco svelare i miei sentimenti attraverso il racconto di ciò che hanno rappresentato per me queste letture. Credo nell’esempio, nell’integrità umana, nel rispetto degli uomini e delle idee. A volte il silenzio, un’immagine, una frase, una preghiera fanno più rumore di troppe parole.

Nella nostra era diversamente tecnologica rispetto ai tempi di cui narriamo gli eventi, tutti sanno ciò che stiamo facendo in qualsiasi momento. E così Google conosce alla perfezione i libri e gli argomenti a cui sono interessata. Una spia silenziosa, a volte inquietante, altre volte utile che mi propone nuovi libri dello stesso genere di quelli in cui sto ficcando il naso in questo periodo. Perché la cosa che ho allontanato per cinquantaquattro anni diventa l’unica che all’improvviso voglio fare. Ed è così che incontro Charlotte, La bambina che guardava i treni partire.

La trovo in biblioteca e la porto a casa con me, assieme ad altri due volumi: uno di psicologia e uno di medicina cinese. Google continua a fornirmi titoli interessanti: Eichmann, dove inizia la notte, L’uomo che sfidò i nazisti e La banalità del male; prendo nota e li aggiungo alla lista dei libri da leggere. Ne parlo con un’amica che mi consiglia Io non mi chiamo Miriam e aggiungo anche questo. Poi ne trovo altri. E l’elenco diventa infinito.

Mentre decido quale leggere per primo, Charlotte mi prende la mano. La seguo nel suo viaggio, dalla partenza a Liegi, in direzione di Parigi, con un nuovo cognome e pochi indumenti infilati a forza in una piccola valigia perché “non devono dare nell’occhio”. Charlotte gioca con i nastrini dei capelli, li attorciglia tra le dita, li perde. L’ansia e la paura sono compagne di viaggio non invitate. Non parlare, rispondi con poche parole, ora ti chiami Wins, non sei ebrea, sei ariana, il tuo aspetto lo dimostra, stai calma. Il viaggio continua da Parigi verso Lione, in un gioco a scacchi con le milizie naziste, uno slalom dove la buona sorte muove la pedina giusta più di una volta. Charlotte e la sua famiglia si nascondono, vivono in condizioni disagiate, senza cibo, acqua, in luoghi angusti e sporchi per quattro anni, correndo verso una libertà irraggiungibile. Da Lione verso la Svizzera, poi a Grenoble e da qui verso i monti con il respiro corto e il terrore alle spalle. Lo sfiorano più volte, quel terrore che nessuno ha il coraggio di nominare.

La storia di Charlotte si intreccia a quella degli zii, dei nonni e di altri ebrei polacchi costretti in un ghetto a Konskie e poi deportati nei campi di sterminio assieme a migliaia di innocenti o fucilati. In modo inspiegabile queste vicende si intrecciano anche al racconto dei soldati della legione straniera francese impegnati nelle battaglie di Bir Hacheim ed El Alamein. La bambina che guardava i treni partire diventa così un romanzo storico con una narrazione travolgente.

Ecco! Questa è la mia Shoah. Non sapevo da dove iniziare ma sentivo il bisogno di colmare un vuoto e comunicare. Per il momento mi fermo qui ma continuerò a frugare nella memoria di chi ha vissuto la brutalità, sopportato la cattiveria ed è sopravvissuto. Cercherò anche le storie di quelli che non ce l’hanno fatta perché la loro memoria non resti confinata solo al 27 gennaio.

(Foto in copertina di Krzysztof Pluta da Pixabay)

Un’eredità di filo e forbici

A mia mamma
Cose che non si dimenticano

La casa è piena di aghi, spilli, bottoni, tessuti e filati di diversi tipi e colori. La chiamiamo la bancarella.
Una volta era una stanzetta lunga e stretta, stipata di mobiletti e cassettiere dove, là in mezzo, primeggiavano l’asse da stiro e la macchina da cucire. Un baule, quello del tuo corredo, era pieno di altri tessuti e buste di plastica. Solo tu sapevi cosa contenessero.
Era là che trascorrevi le giornate, a spingere con il ditale sull’ago, a tagliare vestiti, imbastire, provare, riprovare, tutto di fretta per finire l’abito da consegnare.
Ho vissuto così, accanto a te, fin da piccola, in mezzo alle gugliate di filo attaccate alle maglie o sparse per casa.
Oggi quella stanzetta è diventata una mansarda, con un tavolo grande, due macchine da cucire e tanti armadietti straripanti di fodere, sete, cotoni e lane. E ogni momento con te, sedute per terra in mezzo alle stoffe, a rovistare, ridere e sognare, è un tuffo nei ricordi.
Cose che non si dimenticano.
La tua schiena curva sulla sedia e le mani che infilavano l’ago, tiravano il filo e disegnavano una lunga cucitura, e la sigaretta sempre accesa, lasciata a consumarsi nel posacenere.
Un lavoro pesante, fatto di piccoli punti, a mano o a macchina, uno vicino all’altro. Tanti, numerosissimi, infiniti.
Quanti ne hai fatti? Quante volte il tuo ago ha infilato la stoffa?
C’è stato il periodo delle confezioni: ricevevi centinaia di pezzi che ammassavi sul baule; erano tutti uguali, solo da cucire a macchina. Erano gonne o pantaloni o abiti tagliati con lo stesso modello, cambiava solo la dimensione o il colore. Una catena di montaggio.
Poi c’è stato il periodo della grande sartoria, delle riparazioni ai vestiti costosissimi: dal semplice orlo alla modifica più impegnativa, fatte a volte anche all’ultimo minuto, per la cliente che non poteva aspettare.
Non hai mai detto di no. Correvi da casa alla boutique, ritiravi il lavoro, tornavi a casa, cucivi, cucinavi, col tempo alle spalle, preparavi tutto, aspettavi noi, sempre a schiena curva, su quella sedia e con un ago in mano.
Le tue amiche passavano per casa, sedevano vicino a te, in quella stanzetta fredda, con le doppie calze e le mani gelide. Erano chiacchiere, sigarette consumate, abiti riparati o cuciti da zero, che si ammassavano sul baule, uno dopo l’altro in attesa di essere consegnati.
C’è stato il periodo di Luna. Tu avevi paura di lei, non sapevi sarebbe arrivata, te la sei ritrovata in casa e ti ha conquistata subito. Un batuffolo bianco con una macchia nera che girava in mezzo a noi, si nascondeva nei posti più insoliti e si strusciava alle tue gambe. Amava rifugiarsi nei sacchetti di plastica, quelli pieni di stracci o ritagli di tessuti. Qualche volta s’infilava nelle buste dove avevi riposto gli abiti stirati e piegati di una cliente o negli scatoloni in cui conservavi le stoffe più belle, le sete preziose, i tagli che avevi acquistato sognando di cucire l’abito da mille e una notte.
Luna era diventata la tua compagnia. Quando non ti alzavi presto, lei veniva da te, entrava silenziosa, saltava sul letto, s’infilava sotto le coperte e ti aspettava con pazienza.
La Teresa, invece, esiste da sempre, il primo regalo di tuo padre quando iniziasti ad andare a bottega per diventare sarta, la modella che prova tutti gli abiti, di qualsiasi modello o taglia. Sempre slanciata, in forma, perfetta. Disponibile ventiquattro ore al giorno. Non ha particolari esigenze e non chiede compensi. L’abbiamo chiamata Teresa per quell’abitudine insolita di dare un nome agli oggetti, alle piante, agli alberi.
Hai cucito di tutto, non solo abiti. Hai rivestito divani, poltrone, cuscini; hai confezionato tende, lenzuola, coperte. Hai arredato scenografie e realizzato vestiti da scena. Per non parlare delle maschere di carnevale, gli abiti da cerimonia, le borse, i foulard, le mantelle e i cappotti.
Hai riparato di tutto con un’abilità solo tua. Hai rinnovato. Modificato. Accontentato ogni richiesta, anche la più strana, insolita, impossibile, quella che solo tu, per magia, sai soddisfare.
Hai iniziato giovanissima e continui ancora oggi. Con le dita storte, la schiena che fa male, la sciatica che punge e non ti lascia respirare, tu sali in mansarda e ti rifugi lì, nel tuo mondo, dove i colori, i vestiti appesi, i tagli di stoffa e i rocchetti di filo parlano di te.

La giusta via della giustizia

Storia di una cittadina alle prese con provvedimenti e rendiconti senza rendersene conto

(Storia di una cittadina alle prese con provvedimenti e rendiconti senza rendersene conto)

L’avvocato pronunciò tre parole che somigliavano a qualcosa di imponente. Non conoscevo il significato.  Mi resi conto della fregatura solo quando giurai e la giudice mi disse: «Auguri e buona fortuna».

Ho una nonna. Una dolcissima vecchina di poche parole, autonoma e indipendente fino ai cent’anni. Ha cucinato, pulito, accudito il figlio ultra-settantenne come meglio poteva e senza chiedere l’aiuto di nessuno. Anche adesso, se provo ad avvicinarmi, lei tenta di allontanarmi. Poi sorride e si fa accarezzare.

Al compleanno cifra tonda con due zeri l’ho portata al ristorante. Ha percorso le cinque rampe di scale per scendere dal secondo piano senza ascensore (perché nel condominio non esiste), ha raggiunto la macchina e si è lasciata accompagnare. Ha soffiato sulle candeline e mangiato da sola, con forchetta e coltello, gustando, fino all’ultima goccia, un bel bicchiere di vino.

Ha l’approccio rude ma poi mi dà la mano e viene con me.

Parla poco, ci sente poco. E allora io urlo, scandisco le sillabe e penso a quelli attorno a me che osservano una (la sottoscritta) gridare a una vecchina che mi guarda con gli occhi dello stupore. Forse anche lei pensa di avere una nipote svitata, ammesso che si ricordi chi sono. Quando mi vede sorride, quando l’abbraccio batte affettuosamente con la mano sul mio braccio e quando la bacio risponde allo stesso modo, anche se poi, quando qualcuno le chiede chi sia quella donna giovane che è passata a trovarla («Donna giovane non lo sono più tanto ma grazie del complimento!»), lei non risponde, resta assente e con gli occhi persi chissà dove e non c’è modo di farle pronunciare parola.

Le racconto qualcosa, non so neanche cosa recepisce. Però il freddo delle mie mani non le sfugge mai.

«Uh! Che fredda!» dice.

E io le spiego che fuori si gela, la temperatura si è abbassata, è inverno ma la sua mente è già altrove. Non risponde più, guarda i miei braccialetti, li fa tintinnare con le dita e saluta con la mano l’infermiera che passa e la chiama per nome, con un gesto che somiglia a quello del Papa.

L’avvocato mi disse che per gestire la nonna occorreva un Amministratore di Sostegno o ADS per dirla in gergo, qualcuno insomma che potesse amministrare i conti della Regina della mia casata e occuparsi dei suoi bisogni. Per una povera vecchina di un centinaio d’anni la legge imponeva un ragioniere.

Quale occasione migliore! Un ragioniere? C’est moi! E perché uso il francese? Meglio It’s me? Manca solo lo spagnolo: Soy Yo? E siamo al completo (grazie Mister Google per la traduzione). Il senso è sempre lo stesso: il ragioniere, anzi la ragioniera sono io, diplomata con un calcio nel sedere.

E così entro nel dedalo intricato dei corridoi con la lettera e delle stanze con il numero. Imparo presto: gli orari, i nomi, i volti, i sorrisi e il gusto del cappuccino con pasta di riso al bar del piano terra, in attesa del mio turno.

Imparo presto che se scrivo tutto quello che il funzionario mi dice, quando arrivo a casa ricordo ogni particolare. Sì, perché lui, anzi è una lei, parla a raffica, sciorina veloce veloce le pratiche da preparare: l’istanza da scrivere (e quello che ci va scritto), i moduli da compilare, le marche da bollo da acquistare che non devo comprare né troppo presto né troppo tardi ma in una data precisa. E mentre recita la lista della spesa, mi sorride e dice: «Ha segnato tutto?» (Sottotitolo: Se non hai bisogno di altro te ne puoi andare).

Ho imparato a non uscire da quella stanza se ho il più piccolo dei dubbi, un’incertezza o se non ho capito anche una sola delle diecimila parole che la funzionaria (non si dice ma mi piace) ha pronunciato in cinque secondi. Perché quando chiudo la porta alle mie spalle io non ricordo più nulla. Buio totale.

È il girone dell’Inferno. Aveva ragione la giudice ad augurarmi buona fortuna!

“Domattina vado in tribunale e se tutto va bene a mezzogiorno sono in ufficio” penso mentre organizzo la giornata. È un’avventura: sveglia presto per essere la prima davanti al cancello del tribunale, attendere le otto e mezza, prendere il biglietto e poi gironzolare fino alle dieci quando l’ufficio apre ai clienti. Ci va una mattinata. E non ne basta una sola: vado la prima volta a chiedere cosa devo fare, la seconda a consegnare (sperando di non avere fatto errori) e poi altre due o tre per ritirare l’atto (la prima non è ancora pronto, la seconda non c’è l’impiegato, la terza, se sono fortunata, me lo consegnano ma solo dopo aver comprato le marche da bollo e fatto le fotocopie). Un supplizio al supplì!

Per fortuna c’è la pasta di riso ad attendermi al bar.

In quell’ora e mezza di attesa, qualche volta, accendo il computer, rispondo alle mail, alle telefonate e leggo documenti di lavoro. C’è un salotto con divanetti, tavoli e piante. Mi accomodo lì, in quello spazio fuori dal tempo, dove le persone corrono, sbuffano e attendono.

Mi ripeto ogni giorno che non potevo fare altro. Che alternative avevo? Lasciare la mia nonnina, sangue del mio sangue, nelle mani di uno sconosciuto? Che poi quando la vedono diventano tutti amici suoi. Perché lei è così: tanto rude quanto dolce.

«Buongiorno» mi salutano gioiosi quando entro nella struttura che la ospita. «Che cara la nonna!» aggiungono. Ed è vero. È silenziosa, dorme quasi tutto il giorno e mangia ancora da sola. Rigorosamente frullato.

Ma lo stupore maggiore lo leggo negli occhi dell’impiegato comunale o del funzionare o dell’avvocato quando mi chiedono: «Quando è nata la nonna?»

Chiunque sia la reazione è sempre la stessa. Voi come reagireste se rispondessi 22 luglio 1913?

 

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