L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Sandro Campani

L’ora del tè festeggia l’inizio della sua terza stagione e purtroppo a breve subirà uno stop per lavori in corso (maggiori dettagli li riceverai a fine intervista).

Riprendiamo le nostre chiacchierate de L’ora del tè con un autore giovane, talentuoso e di grande caratura, che sono onorata di avere qui con me questo pomeriggio.
Ammetto l’ignoranza: non avevo mai letto nulla del mio ospite; il suo libro mi era stato consigliato da un amico e così, attraverso la lettura di bellissime pagine, ho conosciuto la stupenda personalità e la magnifica penna di Sandro Campani, autore che tutti dovrebbero leggere.
Il giro del miele è il titolo della sua ultima pubblicazione (Ed. Einaudi);  di questo ed altro parleremo oggi. Ti anticipo che si tratta di  un romanzo pieno di quella quotidianità che non sa fingere; contiene il dolore, la fatica, la paura, la morte e la vita.
Dopo aver letto il romanzo l’ho invitato a L’ora del tè perché i bravi autori mi incuriosiscono: adoro scoprire ciò che si cela dietro il mistero di un libro e uno stile di scrittura, in poche parole amo ficcare il naso nelle loro abitudini!
Ho conosciuto Sandro attraverso le sue risposte alle mie domande e ne ho apprezzato la semplicità, la generosità, la voglia di farsi conoscere e il grande amore per la scrittura che sempre mi commuove. Ho amato molto i personaggi, come li ha costruiti, di quanta umanità li ha inzuppati: mi sono immedesimata, ho divorato pagine e pagine di una intensità sbalorditiva, incapace di staccarmi dalla storia, curiosa di sapere, capire, conoscere, volermi emozionare ancora e ancora.
A questo punto smetto di parlare io e lascio parlare Sandro; in questa chiacchierata non andremo a fondo nella trama del libro e non ci saranno spoiler. Ho parlato de Il giro del miele nella mia recensione che trovi a questo link.
La chiacchierata riguarderà l’autore e il suo e il nostro amore per i libri e la scrittura.
E, a proposito, io sono convinta che gli incontri non avvengano a caso. Ogni persona che intreccia il suo cammino con il nostro ha un motivo di essere. Ed anche per questo motivo sono felicissima di bere il tè con Sandro, oggi. Ma chissà se berrà tè?
Basta parlare; andiamo a conoscerlo meglio!

Benvenuto nel mio salotto, Sandro, grazie per avere accettato il mio invito a parlare di scrittura, libri e sogni. Prima di iniziare ti chiedo, come ho fatto con gli altri autori, che cosa posso offrirti: tè, caffè, biscotti, o altro a tuo piacimento…

Se vogliamo stare in tema con Il giro del miele, una grappa va bene. Bianca secca.

 

Ah ecco! Niente tè, come temevo! Va benissimo la grappa; io ti farò compagnia con una belga aromatizzata al miele, giusto per rispettare l’ingrediente del giorno.
E ora, se sei comodo, parto con l’interrogatorio! Iniziamo?

Certo.


A che età hai iniziato a scrivere?

Storie a fumetti e quotidiani inventati, da piccolino; poesie da adolescente, poi buttate; con l’intenzione di pubblicare, a venticinque anni.

 

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?

Niente di che. Tener lontani i gatti dallo schermo, farmi un caffè ogni tanto, bere del vino mentre rileggo ad alta voce la sera, se sono contento. 

 

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?

Una valle appenninica immaginaria, trasfigurata, costruita a partire dalla valle in cui sono cresciuto ma che ingloba elementi di altri luoghi.

 

Il libro più bello che hai letto?

È impossibile rispondere. Ti dico quello che da piccolo mi ha toccato di più, e insegnato un mondo: Al dio sconosciuto, di John Steinbeck.

 

Il luogo più strano in cui scrivi?

Scrivo solo a casa. Gli appunti, li prendo ovunque, anche vocali, in macchina; ma per mezza pagina, se sono altrove vuol dir che non ho tempo.

 

Sandro, perché la scrittura? Ogni autore ha un proprio motivo per scrivere, una propria urgenza. Considerando i tuoi passi nel mondo della narrativa, qual è stato l’episodio o la situazione che ti ha fatto decidere di scrivere per pubblicare? Quando scrivi, qual è l’obiettivo che ti poni? Cosa deve arrivare, di te o della tua storia, al lettore?

 Sono per molta parte del mio tempo una persona inadeguata al mondo, disattenta, incapace di trattenere le cose e il loro senso; scrivere mi dà l’impressione di arrivare a capire, a un livello più profondo di quanto non mi succeda normalmente, quello che altrimenti non riuscirei a capire: in merito alle persone, e alle cose; mi dà l’illusione di trattenere il senso del tempo, di riordinare tutto ciò che altrimenti mi schiaccerebbe con la sua insensatezza.
La certezza di voler scrivere per pubblicare l’ho avuta frequentando, nel 1999, un corso tenuto da Emidio Clementi (scrittore meraviglioso oltre che voce di un gruppo rock che seguivo ovunque da ragazzo, e continuo ad ascoltare: i Massimo Volume). L’obiettivo che mi pongo (oltre a quello, relativo al metodo e alle intenzioni, di lavorare il più possibile sulla dignità e la profondità di quel che faccio, di portare rispetto alla lingua) potrei riassumerlo con il titolo di un pezzo dei Massimo Volume, appunto: “Qualcosa sulla vita”. Dire qualcosa sulla vita.
Quanto a me, non mi interessa che arrivi qualcosa della mia persona o della mia storia al lettore, mentre scrivo: certo (sarebbe mentire negarlo) mi gratifica se chi mi legge riconosce le mie intenzioni verso la lingua, verso la vita dei personaggi e delle cose, e le trova dignitose. Ma quanto ai contenuti, non penso di aver niente di speciale da dire di me, né penso che la mia vita o i miei pensieri abbiano alcunché di necessario, tanto da dover essere “espresso”: mi capita spesso di usare ciò che ho pensato o ciò che mi è successo come un serbatoio a cui attingere per rendere vivo o credibile un personaggio: di usare i miei panni per immedesimarmi nei suoi, per ricrearli. La mia esperienza può essere un materiale utile come altri, da riutilizzare, da trasfigurare, nella misura in cui si riveli utile a far funzionare la storia che sto raccontando. Non è mai un fine. Non so se potrei dire di avere “urgenze espressive”. Penso di no.

 

Parliamo del tuo romanzo Il giro del miele. Quando l’ho letto sono rimasta colpita da un ricordo: Le braci di Sandor Marai. Il tuo romanzo ha richiamato tantissimo quello dello scrittore ungherese per due dettagli: il tempo della narrazione e lo stile descrittivo.
Entrambe le storie si svolgono nell’arco di una notte durante la quale i due protagonisti (uomini) si confidano, rispolverano un passato lontano e si confessano alcuni segreti. Inoltre Il giro del miele ha la potenza di una narrativa descrittiva che arricchisce la storia di particolari legati al mondo in cui vivono i personaggi, che immagino rispecchi molto il mondo in cui vivi tu.
Traspare l’amore per la natura, nelle tue parole; traspare l’importanza che dai ai luoghi, all’atteggiamento delle persone, alla quotidianità, al lavoro…
Quanto ti ritrovi in questa mia riflessione?
E poi ti chiedo, c’è un autore che ha influenzato il tuo modo di scrivere, che più di altri pesa sulle tue scelte stilistiche?

Con Le braci è successa una cosa curiosa. Non avevo mai letto quel libro – era fra le mille lacune che ho – ma, quando ho cominciato a girare per le presentazioni del romanzo, più di una volta una persona l’ha citato; diverse volte qualcuno ha detto che Il giro del miele glielo aveva ricordato; a questo punto, ho pensato, dovevo leggerlo, e l’ho fatto; sì, la struttura è molto, molto simile, il “tutto in una notte” e non solo: c’è il fuoco, che è un elemento centrale, c’è una lettera (che ne Il giro del miele rappresenta un punto di entrata e in fondo una falsa pista). La differenza più evidente che ho trovato è stata nel fatto che là tutto rimane centrato sul rapporto fra i due protagonisti, con l’amore per la stessa donna come campo di battaglia irrimediabilmente perso per entrambi, fino al disvelamento finale e alla chiusura del duello, mentre ne Il giro del miele la scena teatrale diventa un contenitore di storie differenti e divaganti, altri rapporti, altri temi. C’è di sicuro che per me è stata una fortuna non aver letto prima Le braci: se l’avessi fatto, avrei trovato somiglianze così evidenti da forzarmi a cercare altre strade più artificiose, mi sarei fatto scrupoli deleteri. In realtà, quando grazie al consiglio di Giulio Mozzi capii che il modo giusto per raccontare questa storia era trasformare la voce narrante da una terza persona onnisciente a una prima persona interna alla vicenda, e quindi cominciai a pensare di costruire l’intero romanzo attorno a un unico, grande flashback, l’unico esempio che mi venne e a cui tornai, fra le mie letture, fu “Lord Jim”, di Conrad.
La cura che metto nelle descrizioni è conseguenza del rispetto che sento di dover portare ai luoghi, alle persone, ai lavori, agli oggetti che racconto. E anche del rispetto che devo a me stesso: scrivere vuol dire strappare il tempo a forza al lavoro, ad altri impegni, alle persone a cui vuoi bene, e se dovessi usare questo tempo sciattamente – nelle intenzioni, s’intende: quelle contano; il risultato può essere buono o mediocre, e non sta solo a me giudicarlo – bene, mi sentirei uno stupido e un truffatore.
Di autori che mi hanno influenzato, e che mi insegnano costantemente qualcosa, ne ho tantissimi. Autori che mi piacciono, e autori che magari non mi piacciono. Se devo dirti un solo autore che prima di tutti mi ha formato, invece, devo dirti John Steinbeck. “Al dio sconosciuto”, su tutto. È già tutto lì. E anche “L’inverno del nostro scontento”, che è spesso considerato un suo libro minore, scritto quando aveva già dato quel che doveva dare, deviante rispetto al suo filone.

 

Ho aperto: era Davide. Grandone, alto com’è sempre stato, tanto che cammina preparato a chinarsi per passare dalle porte. È proprio dalla stazza che l’ho riconosciuto, perché la luce esterna era strinata e lui non ha parlato, inizialmente: ho ravvisato un uomo che nel momento in cui aprivo si tirava indietro, al buio; ero sorpreso perché non avrei mai detto di vedermelo ritornare all’uscio, ma un attimo dopo ho pensato (ed è stato peggio): era destino che arrivasse, prima o poi. Gli occhi ha dovuto abbassarli, per riuscire a guardare me in faccia. Non lo faceva da un bel po’ di anni. Non ho avvertito odore d’alcol, e ho avuto sollevo nel vederlo nuovamente in forma, sbarbato, i capelli castani ordinati in un’onda, da bimbo biondissimi e adesso, rispetto all’ultima volta, stempiati alla scriminatura. Lui se li copriva dal vento con un braccio, in modo buffo, come un ragazzone che uscisse per ballare. Aveva addosso i suoi anfibi da buttafuori, e un maglione di lana infeltrito, di quelli per cui la Silvia un tempo lo prendeva in giro e che però continuava a regalargli, con i fiocchi di neve, i cervi e le stelline. Ma lì sulla porta, per me, sono stati i suoi occhi il problema, perché aveva due occhi impressionanti, come infiammati e soggiogati da uno spirito che li avesse invasi e li stesse facendo ammattire.
– Fammi entrare, Giampiero, – mi ha detto, e quindi io l’ho fatto entrare.

(Estratto da Il giro del miele)
Copyright Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

Entriamo nel vivo della trama e dei personaggi. Innanzi tutto parto da uno dei comandamenti della narrativa: la storia deve essere credibile. È una delle prime cose che si imparano sui banchi di scuola.
E per credibile s’intende che il lettore debba credere a ciò che legge. Io stessa mi ritrovo, prima di iniziare a scrivere, a pianificare, organizzare, fare ricerche per raccogliere le informazioni che mi serviranno durante la stesura della storia.
Mentre leggevo Il giro del miele chiedevo a me stessa (e ora rivolgo la domanda a te!) se anche Sandro Campani avesse lavorato allo stesso modo. Non è quasi mai la nostra vita quella di cui parliamo, quindi fare ricerche, studiare, documentarsi, diventa un obbligo. Come approcci questa esigenza quando devi trattare un tema che conosci ma non nei minimi dettagli?

Certo, ho fatto così: mi sono documentato, perché, al di là di ciò che si ometterà o si deciderà di inserire nella storia, sarebbe fatale non farlo. La superficie su cui i personaggi posano i piedi deve aver sotto strati solidi di terra. Che si decida di farne vedere al lettore qualche metro in sezione, o decine di metri, o di mostrare solo la punta dell’erba che ci è cresciuta sopra, quella terra di base dev’esserci e il lettore la deve sentire. Quindi, nel caso de Il giro del miele, si è trattato di leggere trattati sull’apicoltura, guardare video su internet, aggiungere ai ricordi personali sulla falegnameria (sia mio nonno che mio padre avevano in casa qualche macchinario e facevano da sé alcuni mobili) qualche giorno passato da amici falegnami a guardarli mentre lavoravano; si è trattato di passare alcune sere insieme a Giulio Golfarelli, buttafuori storico dei locali di rock alternativo nel modenese e caro amico, per farmi raccontare quel lavoro dal di dentro.
Poi, c’è una cosa che bisogna sempre tenere presente quando si usa la documentazione raccolta: se a una persona che fa un certo lavoro da venti o trent’anni chiediamo di raccontarcelo, difficilmente – a meno che non le sia stato chiesto di preparare una lezione sull’argomento – questa metterà in fila nozioni in modo schematico, come trasformandosi in un manuale umano; più facilmente, data la sua appartenenza a quel lavoro e la sua passione, questa persona ometterà tante cose che per lei sono scontate, e ci racconterà magari aneddoti, curiosità sghembe, laterali. Ecco, il trattamento che occorre riservare alla documentazione raccolta è un po’ questo: evitare quello che si chiama comunemente “spiegone”, e cercare invece gli spunti marginali, imprevisti, che rendano vivo il personaggio e il suo appartenere al lavoro che fa, e che al contempo siano funzionali al movimento della storia.
La credibilità riguarda anche i personaggi, il loro agire: penso che questo sia un esercizio di misura, e che ognuno abbia la sua; ciò che risulta stonato, o pretenzioso, o ammiccante, o troppo volto al “farsi bello” dell’autore, non andrebbe addossato a un personaggio, se si spera che diventi una persona. Ma, a seconda della storia, a seconda dello stile con cui la si racconta, e a seconda delle intenzioni che si perseguono raccontandola, i parametri possono cambiare molto.

 

 Sono d’accordo con te ed è quello che si percepisce nel tuo romanzo: una enorme profondità e credibilità che non diventa mai un mattone didattico (il tuo “spiegone”!).
A questo proposito faccio una digressione per affrontare un tema che mi è molto caro e che credo riguardi tutti: autori e lettori.
Una delle curiosità principali di questi ultimi è quella di capire quanto ci sia della vita dell’autore nella storia che scrive. Gli autori preferirebbero non esprimersi in merito ma non possiamo evitarlo: è così!
L’idea che mi sono fatta io, vestendo i panni della lettrice, è che ci sia tutto e niente ed è quello che ho percepito ne Il giro del miele. C’è tanta interiorità di Sandro Campani ma nulla di veramente autobiografico. Non so se sei d’accordo ma credo che la difficoltà dello scrivere sia proprio questa: raccontare la storia di un altro ma con il cuore che ci metterei se fosse la mia; lasciarsi andare a qualcosa che mi prende dentro ma che non conosco fino a quando non lo getto sulla carta. È quello che si intende quando si descrive la scrittura come il “vestire i panni di un altro”, “vivere un’altra vita”, “fare un viaggio senza partire”.
È davvero così oppure c’è sempre tanto dell’autore in ogni libro che scrive? In fondo viviamo, respiriamo, conosciamo persone, siamo animali sociali; tutto questo non va forse a comporre le nostre pagine? Quanto sono reali i personaggi che un bel giorno bussano alla nostra porta insistendo affinché raccontiamo la loro esistenza? (I miei, ti confesso, quando bussano si presentano già con il loro nome ed io devo solo scriverlo su carta…)

È come dici: c’è tutto e niente. Ogni volta che cerco di rendere la vita di un personaggio, di “vivere un’altra vita”, proprio (ed è quell’emozione, quella compassione e quell’intensità nel cercare di capire, che in parte ti spinge a scrivere, e a godere nel ricreare la vita di una persona che non esiste ma per te comincia a esistere e ti riempie), mi capita, mano a mano che conosco il personaggio e mi chiedo cosa direbbe, cosa farebbe, come reagirebbe a una certa situazione, di riutilizzare, trasformandole, cose che fanno parte della mia biografia: ne Il giro del miele, ad esempio, molte esperienze di Silvia sono esperienze mie trasfigurate. Quello che mi succede è solitamente questo: non ho né il bisogno né la voglia di raccontare ciò che mi capita, o di spiegare come mi sento. Non è interessante per me al punto da volerlo trasporre in una storia. Ma ci sono storie di persone inventate che mi interessa raccontare, e nel farlo utilizzo spesso accadimenti o sentimenti miei nella misura in cui capisco che sono funzionali alla storia, e possono entrare a far parte del personaggio. Non parto da me per raccontarmi trasfigurando il giusto: uso le mie esperienze come serbatoio da cui attingere in caso siano utili al personaggio.
Quanto ai nomi: sai che per me, invece, sono spesso (come i titoli, del resto) una cosa difficile? Arrivano a volte a metà strada, o anche dopo; arrivano chiedendomi, in base all’età, al contesto, che tipo di nome potrebbe avere quella tale persona: e quando il nome arriva, getta luce su di lei e le dà una forza ai miei occhi che prima non aveva.

 

Interessante e curioso il fatto che i nomi dei personaggi ti arrivino a metà strada! Ma prima che ti arrivi il nome, il personaggio come lo chiami?

Se il nome non è ancora arrivato, chiamo il personaggio con la sua funzione: madre, fratello, tenutaria dell’albergo…

 

– Giampiero, mettiti a sedere. – mi ha detto Davide davanti al fuoco. Ha poggiato le sue dita sui nervi della mia mano, e mi ha sorpreso talmente che l’ho lasciato fare mentre di solito fuggo come una biscia, quando mi toccano la mano rovinata.
Perché era venuto, lo sapevo.
– Non prendi niente da bere? Neanche un grappino?
Mi sono mosso verso la vetrinetta dei liquori, ma lui ha detto: – Lascia stare, – con un tono spazientito, come dicesse Perché mi vuoi far fesso? Cosa credi che sia venuto per bere un grappino con te? A quel punto avevo la sua mano sulla spalla e praticamente mi ha spinto sulla sedia. L’ho fissato negli occhi, da lì schiacciato a sedere dov’ero, e lui ha ritratto il braccio, vergognandosi, e io ho capito di avere lo sguardo di un vecchio.
– M’hanno raccontato che certe volte si vede la sua macchina, – mi ha detto.  – Parcheggiata proprio qui davanti.

(Estratto da Il giro del miele)
Copyright Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

 

 

 Sandro, il tempo è volato, siamo giunti alle ultime domande.
A proposito di metodo, si parla tanto della cassetta degli attrezzi dello scrittore, cioè di tutti quegli strumenti che servono per affrontare un nuovo progetto “libro”: ci sveli cosa contiene la tua e se hai qualche rito voodoo particolare a cui ti affidi per attirare sul tuo lavoro energie positive?
Infine, tornando a Il giro del miele, ti chiedo (poiché sono un’autrice impicciona e curiosa delle vicende altrui!) qual è l’aneddoto o l’episodio che ha scatenato in te l’idea di questo romanzo e a quale dei tuoi libri sei più legato e perché?

La mia cassetta degli attrezzi è disordinata e mutevole: ci sono dentro appunti scritti, appunti vocali che registro parlando da solo mentre guido e mi autoinvio per mail, appunti sulla struttura, appunti sui caratteri dei personaggi, documentazione scaricata da internet in merito a cose che devo approfondire (per Il giro del miele ad esempio, l’apicoltura); se sono molto molto fortunato ci sono anche frammenti di scaletta, o una scaletta intera, che puntualmente nego e ribalto scrivendo; c’è un momento durante la stesura in cui ciò che si vede intorno, i dialoghi che si ascoltano per strada, le proprie esperienze, i libri che si leggono, tutto viene ricondotto al romanzo che si sta scrivendo e pare darci l’illuminazione anche solo per una frase, o una svolta della trama. Si passa qualche anno ossessionati.
Magari sapessi come attirare sul mio lavoro energie positive! Una cosa che so è questa: non scriverei se non avessi vissuto condizioni di disagio, di depressione o di dolore; ma per l’atto pratico di scrivere, per riuscire a mettere in fila tre parole, ho bisogno di essere sereno e concentrato. Insomma, mi sembra di osservare questo paradosso: scrivi perché c’è il male, ma per farlo hai bisogno di star bene.
Ci sono stati alcuni motivi scatenanti alla base de Il giro del miele: la visione di due innamorati in un rifugio sulle Alpi cuneesi: come si guardavano asciugandosi, scaldandosi, il maglione di lana retrò che lui aveva indosso; la visita della lince (che ho visto con i miei occhi una notte, mentre ero in macchina con mia madre e avevo la febbre, e il mio amico d’infanzia era morto); la falegnameria che avevo vicino a casa da piccolo, dove andavo a giocare. Un posto vicino al passo del Lagastrello dove stavano gli ovili desolati in mezzo ai faggi e alla ferraglia che ho descritto nell’ultimo capitolo, dove sono capitato andando a funghi con i miei. Come ti dicevo all’inizio, ci sono immagini slegate e persistenti che finiscono per collegarsi, luoghi che attirano la testa.
Il libro a cui sono più legato è certamente questo, Il giro del miele. Provo amore per questa storia e per tante persone che l’hanno accompagnata prima e dopo l’uscita; sono molto legato anche ai racconti de Il paese del Magnano, dove credo che stiano alcune delle cose più buone che ho scritto.

 

 

Per acquistare il romanzo di Sandro Campani clicca sulla miniatura e, dalla pagina del libro sul sito EINAUDI, scegli la libreria che preferisci.

 

 

Siamo arrivati alla conclusione di questa bella chiacchierata con Sandro Campani e ti lascio con un ultimo estratto da Il giro del miele; ricordo che tutti i brani del romanzo da me pubblicati in questa pagina, sono coperti da Copyright Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino che mi ha gentilmente concesso di riprodurre e che ringrazio di cuore.

 

– Non lo so, – gli dico. – Non lo posso sapere, come si sente una bestia. Però lo capisco quel che intendi. Almeno, io penso d’aver provato una cosa così: talmente aggredito dalle cose intorno, inaffrontabili, talmente rintronato e distolto da me stesso da entrare, come ti posso dire, in uno stato diverso di coscienza.
– Sembriamo un po’ quelli che vanno a meditare scalzi nella neve, eh?
– Ci penserebbe l’Ida a farmi meditare, se mi vede fare un numero del genere -. Guardo la bottiglia, la tocco con la mano buona. – Io mi ricordo, per esempio, la notte dell’incendio: quand’è finito tutto ero al buio, cominciavo a distinguere i contorni della roba storta, ribaltata. Sono rimasto lì chissà quanto, in silenzio, con l’acqua della gomma che scorreva e il braccio morto, era come se fossi in uno stato di coscienza nuovo.
Lui fissa la mia mano e la bottiglia, come stessi provando un gioco di prestigio.
– Non ridere, Davide: quando le cose diventano, diventano cose al quadrato. Più dense, piene di se stesse, talmente cose da essere astratte.
– Non rido. Io guardo una certa cosa, delle volte, un bastone, un portachiavi che ho vinto a una pesca, è come se il passato e il futuro di quella cosa fossero lì dentro che la riempiono, spingono, mentre la tengono in mano. Però te sai che il passato non lo puoi recuperare, e il futuro non te lo lasceranno prendere, perché hai sbagliato.
– Sì. Hai sbagliato. Hai rimediato, ti sei perdonato, l’hanno fatto anche gli altri, oppure non se ne sono accorti. Quante volte hai rimediato in tempo, ti sei vinto e sei come un santo, dentro la tua vita, e nessuno lo sa, Davide, nessuno lo sa.
– Io lo so.
– Un santo pieno di schifo, di mostruosità, e devi darti battaglia, ferocemente. Per quello sei santo.
Stringo la bottiglia, l’alzo contro la luce del camino. Mancano due dita. Prendo un chiodo dal cassetto: – Ora Davide faccio una cosa. Una cosa irregolare. Tu non mi hai visto.
Con il chiodo faccio un segno più in basso di quello precedente, e questo è inciso e luccica, muovendo la bottiglia; non è un granché, non ho diamanti a disposizione: lo ripasso col pennarello frassino.
Fin qui, e non oltre.

(Estratto da Il giro del miele)
Copyright Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

 

In onore di Sandro Campani e del suo romanzo, e per il semplice fatto che è settembre e ogni cosa ricomincia, ho scelto per L’ora del tè una nuova immagine di copertina, che contiene tè, zenzero, miele e limone: il mio infuso preferito!

E ora una piccola anticipazione.
Dopo Sandro Campani pubblicherò forse altre due interviste prima di fermarmi per qualche mese e dedicarmi a un progetto personale a cui tengo molto e di cui parlerò a tempo debito. Durante questo periodo mi allontanerò da tutto il mondo social, dal blog e limiterò ogni attività letteraria (recensioni, interviste, presentazioni, divulgazione, condivisioni…) al minimo indispensabile e assolutamente necessario.

Alla prossima puntata!
E buona lettura de Il giro del miele!

 

 

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Michela Belotti

L'ora del tè; chiacchiere da salotto con scrittori, poeti, lettori, artisti in genere.

Michela Belotti si presenta, sul suo sito, come aspirante scrittrice con un sogno nel cassetto: pubblicare il suo primo romanzo.
Prima di accoglierla devo raccontarti come ci siamo conosciute, Michela e io, come le nostre strade si siano incrociate.
Prima che Michela mi contattasse non eravamo neanche amiche virtuali. Due perfette sconosciute. Lei mi scrive in chat, chiedendomi, molto gentilmente, se sono interessata a recensirla. Io le rispondo dicendole che sono molto impegnata, che il lavoro più il resto non mi lasciano spazio per altro e bla bla bla… le solite cose che si dicono per non offendere e prendere tempo. Mentre le sciorinavo la lista dei miei impegni, però, curiosavo nelle sue pagine, cliccando sul link che mi aveva inviato, dove si parlava di lei e del suo romanzo. In quei giorni ero impegnata con un’altra recensione e altre interviste ed ero davvero piena di mille cose, ma…
Quella piccola donna bruna mi catturò. Attirò la mia attenzione su di sé e fece in modo che io leggessi il suo giallo incredibile. Una storia fresca, matura, scritta con un linguaggio giovane che spero Michela non perda mai. Come tutti i giovani scrittori la strada sarà decisamente lunga ma Michela ha una mente aperta, tanta curiosità e la voglia di raccontare la vita come pochi sanno fare: con la semplicità di chi ci crede.

Ovviamente mi sono appassionata al suo libro e a lei, ho trovato nelle nostre vite tante piccole e insignificanti coincidenze che tanto insignificanti non sono.

Sono molto felice che oggi, a pochi giorni dall’uscita del suo romanzo d’esordio, Michela sia ospite nel mio salotto.

Eccola che arriva! Lasciamo che sia lei a raccontarsi.

Benvenuta Michela nel mio salotto, il tempio dei libri e della buona scrittura. Sono felicissima di averti mia ospite oggi e sono certa che sarà una bellissima chiacchierata. Prima di iniziare ti chiedo cosa posso offrirti: tè, caffè, torta di mele, crostata oppure, se vuoi, andiamo con qualcosa di alcolico. Qui tutto è ammesso.
Grazie Roberta, è un piacere essere qui con te. Prendo volentieri del caffè e anche una fetta di torta. Caffeina e zuccheri sono un’accoppiata vincente!

Direi che siamo pronte per iniziare. Vado con le domande?
Forza! Cominciamo pure…

A che età hai iniziato a scrivere?
Credo 15-16 anni, articoli sportivi soprattutto riguardanti le partite del Milan.

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Non voglio assolutamente nessuno attorno, mi vergogno da morire quando scrivo.

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
Nella vita quotidiana, nella mia città e provincia di Bergamo.

Il libro più bello che hai letto?
Novecento di Alessandro Baricco.

Il luogo più strano in cui scrivi?
Mi è capitato di scrivere in pullman nel tragitto casa lavoro.

Michela, perché la scrittura? Quale momento o situazione hanno fatto nascere in te il desiderio di scrivere e quando hai capito che volevi farlo diventare qualcosa di più di un hobby?
Non pensavo che avrei mai scritto seriamente. Ho iniziato così per caso, con articoli sportivi, adoravo il Milan e non potevo fare a meno di recensire le partite della domenica. Poi ho continuato con la politica, mi sono appassionata agli scritti di Montanelli e della Fallaci. Lì ho iniziato a pensare che la mia strada fosse il giornalismo, cosa che alla fine non si è realizzata. Ho continuato comunque a scrivere piccoli articoli per giornali locali e anche cose mie, soprattutto racconti. Poi quando finalmente sono riuscita a mettere su carta qualcosa di più, ho capito che forse una briciola di talento c’era e lavorando sodo avrei potuto trarne soddisfazione. Riga dopo riga eccomi qua.

Se dovessi fermarti a pensare a tutte le situazioni legate alla tua esperienza di scrittrice, vissute fino a oggi, quali sono state quelle che hanno fatto vacillare la tua determinazione e quelle che invece ti hanno fatto galleggiare per l’immensa felicità?
Sono la persona più pessimista al mondo. Dico sempre che Leopardi mi fa un baffo. Con il nulla mi abbatto, mi basta una critica anche leggera. La mia peggior nemica sono io. Eppure sono riuscita a resistere, ho terminato il mio primo romanzo, impresa che non pensavo di riuscire a compiere, e ora a farlo pubblicare. Ricevere recensioni positive, sapere che qualcuno ha apprezzato il mio lavoro è la soddisfazione più grande. Partecipare alla raccolta crowdfunding per la pubblicazione e vedere quante persone hanno creduto nel mio progetto è stata una felicità enorme.

 

«Ti prego, non farmi del male!» urlo correndo lun­go il viale alberato.
Vengo risvegliata dall’ennesimo incubo da una voce che cerca di tranquillizzarmi, poi vedo di nuovo quegli occhi cobalto. Questa volta riesco a metterli a fuoco in un volto maschile. È un uomo sulla quaranti­na, forse meno, di bell’aspetto, anche se un po’ trascu­rato. Dà l’idea di averne passate tante.
Non faccio quasi in tempo a realizzare la sua pre­senza che inizia a parlare: «Buongiorno, signorina Rota. Sono il tenente Castelli dei carabinieri di Ber­gamo. Sono il responsabile delle indagini relative alla sua aggressione. Sono felice che ora stia meglio e spe­ro abbia voglia di fare due chiacchiere».
Proferisce tutto come un poliziotto di qualche se­rie TV americana piuttosto scadente. Soprattutto, mi chiedo se sia questa la veste solita di un carabiniere, ovvero felpa e jeans.
Sembra mi legga nel pensiero e subito aggiunge: «Mi scuso per l’abbigliamento, ma quando sono fuori servizio preferisco essere comodo».
Effettivamente fuori è buio e l’orologio appeso al muro dice che sono le ventitré e quattordici. Quindi si è trattenuto oltre l’orario di lavoro per potermi in­terrogare. Sicuramente non gli si può dare dello scan­safatiche, ma inizio a domandarmi se abbia una vita privata, una compagna ad attenderlo o un hobby.
«Si figuri, tenente, va benissimo» dichiaro con qualche attimo di troppo.
«Le va di raccontarmi cosa si ricorda della sera in cui è stata soccorsa e portata in ospedale?»
Io veramente non mi ricordo proprio un bel niente, neppure le giornate precedenti, e mi sono resa conto solo oggi che sono passati già tre giorni dall’aggressione.
Castelli mi scruta con quegli occhioni che fino a poco prima credevo fossero parte dei miei incubi e mi dice risoluto: «Mi hanno raccontato che, con mol­ta probabilità, a causa dello stress potrebbe avere dei vuoti di memoria. Ma chi le ha fatto questo è ancora là fuori, e se le venisse in mente un qualsiasi elemen­to che potrebbe aiutarci, magari legato anche ai suoi spostamenti nei giorni precedenti, non esiti a comu­nicarcelo. Siamo già stati nel suo appartamento, ma è tutto in ordine e nessun vicino ha visto o sentito qual­cosa di sospetto. Mi spiace ammettere che siamo a un punto fermo».
È un uomo davvero destabilizzante. Non mi ha ancora dato la possibilità di poter avere un dialogo, ma ha la faccia triste, quasi come se davvero gli im­portasse del mio caso, come se quasi tutti i giorni non succedessero cose del genere, oppure ne succedesse­ro troppe.

(Estratto da La corsa)

 

 

Il tuo romanzo La corsa uscirà domani, 29 marzo, e sarà pubblicato da Bookabook, un’associazione che si occupa di mettere in contatto libri e lettori, per un nuovo modo di fare editoria. Raccontaci come ne sei venuta a conoscenza, come è stata l’esperienza che hai vissuto fino a ora e se la consiglieresti.
Bookabook è stata la prima casa editrice italiana ad occuparsi di editoria attraverso il crowdfunding, ovvero con il contributo del pubblico che sceglie se aiutare l’autore ad arrivare alla pubblicazione preordinando una copia del romanzo, ancora prima che esso esista. Quando un anno fa cercavo una casa editrice a cui mandare il manoscritto del mio libro mi è capitato di leggere questa novità, e scoprendo le potenzialità ho voluto sperimentarla in prima persona. Mi piacciono le sfide e la possibilità di realizzare i sogni anche con l’aiuto degli altri. Inoltre Bookabook mi dava la possibilità di scoprire se il mio romanzo potesse piacere ancora prima di averlo pubblicato, attraverso la prima selezione della casa editrice e poi con i primi commenti e recensioni di pubblico e blogger! La consiglierei a chi ha tanta pazienza, coraggio e faccia tosta! Di sicuro non è adatta ai timidi…

La corsa è un giallo. Come lettrice amo particolarmente questo genere, come autrice non saprei da che parte iniziare. I due lati della mia medaglia, autrice e lettrice, sono in completa antitesi: leggo generi diversi da quelli che tratto come scrittrice. Nel tuo caso vale lo stesso, oppure sei una mangiatrice di thriller in entrambi i ruoli? Se sì, ti chiedo quali sono i tuoi giallisti preferiti e quale, dei libri che hai letto, ha ispirato l’autrice che è in te.
Fin da piccola non mi sono mai limitata a un genere in particolare, ho sempre letto, anzi direi fagocitato, qualsiasi cosa e per qualsiasi cosa intendo anche biografie, manuali e diari di viaggio. Il thriller, insieme all’horror, è però il mio genere preferito, nato dall’amore per l’autore Stephen King. Ho letto quasi tutti i suoi libri e ho una collezione da fare invidia a una biblioteca. Non ci posso fare nulla quando esce un suo nuovo libro devo averlo assolutamente. Tra gli altri autori che mi hanno ispirato in primis sicuramente Oscar Wilde ma anche Baricco. Novecento lo annovero tra i migliori libri che io abbia mai letto, il regalo che non mi stancherò mai di regalare e il film che non smetterò mai di vedere.

 

Alcune volte fa piacere che ci sia qualcuno accan­to a noi capace di sorprenderci. Lisa, la mia Louise, guida a gran velocità sulla A4. È tutta un ciacolare, allegra e bellissima cerca di mettermi di buon umore. Pronta a tutto per un’amicizia nata da poco, mi spro­na e mi fa strada in un’avventura nell’avventura; a co­lori, contrapposta a quella nera che in questi giorni mi sta portando a picco, forse l’ultima che potrò an­cora vivere se verrò condannata. Io, la sua Thelma, in questo momento sono in stato di agitazione, non riesco quasi a star seduta sul sedile dell’auto.
Sono sempre stata affascinata dalla favola mo­derna di Ridley Scott. Quando la guardavo in TV e vedevo le due amiche lanciarsi nel baratro piuttosto che vivere infelici, sognavo a occhi aperti di provare un giorno quel tipo di sentimento così puro e buo­no. Fino a oggi potevo dire con certezza che la vera amicizia non esiste, frutto sempre di un tornaconto o della noia. Bene, sono stata smentita. In fondo capire di essersi sbagliati e cambiare idea dicono sia sinto­mo di intelligenza. Lo racconto a Lisa, ringraziandola per l’appoggio.
Lei ride sorniona dicendo: «Col cacchio che mi butto nel burrone con te, soffro di vertigini! Io scappo con Michael Madsen. Toh! Finalmente ti ho strappato un sorriso».
Ho staccato il telefono, ma ora mi sento in colpa; così a metà strada ascolto i messaggi in segreteria.
«Cosa dice il tuo bello? Wow! Che voce da tene­broso…»
«Dai, Lisa! Non è il mio bello! Dice che Giorgio ha mentito, ma non aggiunge altro, vuole che lo richia­mi. Ma anche no, per dirci cosa ancora? Guarda, me lo sentivo che c’entrava in questa storia! Arriviamo a Vicenza e cerchiamo di capire dove possiamo trovare Giorgio, prima che i carabinieri si mettano a cercarlo. Così non dovremo pure spiegare cosa ci facciamo lì.»
«E l’altro messaggio di chi è?» domanda Lisa in­curiosita.
«È mia sorella! Indovina perché la mia famiglia non si faceva viva da giorni?» e premo play: “Sara! Ma cosa hai combinato?! Stiamo via tre giorni in gita con la parrocchia e tu cosa ci combini ancora? Omicidio?! Ti abbiamo pure acceso una candela! Ma ti rendi con­to? La mamma è sconvolta, non parla più con nessu­no, non sappiamo come farla riprendere! Lo diceva lei che non era normale che vedevi tutti i film di quel Ta­rantino! Papà, arrivo, arrivo! Vieni a casa quando rie­sci, ché la mamma ti vuol vedere, prima che sia tardi!”.

(Estratto da La corsa)

 

 

Anche io amo moltissimo Novecento, sia libro che film, e devo dire che entrambi hanno tanto da insegnare a chi scrive. E nonostante io non ami il genere horror, sono una grande fan di Stephen King di cui ho apprezzato tantissimo On Writing (il manuale di scrittura per eccellenza) e il suo bellissimo Miglio Verde (sia libro che film). Senti, visto che abbiamo fatto una digressione, che ne pensi di parlare di cinema?
Quali sono i film che ami di più e che non smetteresti mai di guardare (oltre a Novecento)? Ci sono dei film o dei personaggi che hanno ispirato le tue storie e i tuoi protagonisti?
Certo! Sono una super appassionata di film, tanto da avere una pagina su Facebook dedicata al tema cinefilo. Sicuramente tra i miei film preferiti ci sono tutti quelli firmati dal genio di Quentin Tarantino, mio regista e sceneggiatore preferito. Poi avrei una lista infinita, ma non mi limito a vedere solo cose che mi piacciono, cerco di tenere la mente aperta. Specialmente in inverno mi dedico a tutte le pellicole che partecipano alla Award Season, soprattutto ai premi Oscar. Mi piace vederli in anteprima, in lingua originale coi sottotitoli e recensirli. Insomma, una vera fissazione.

 E ora veniamo al tuo romanzo. Io l’ho letto e recensito (leggi qui LA MIA RECENSIONE) e sono rimasta davvero colpita. Hai intuito, freschezza, immediatezza, velocità con uno stile giovane e coinvolgente. Davvero brava!
Cosa ti ha ispirato la storia e i personaggi? Hai lavorato molto per costruire la trama e gli intrecci o è venuto tutto naturale? Quanto ti sei sentita attrarre da quello che stavi costruendo durante la stesura? Sei riuscita a estraniarti o eri nella storia?
La corsa è nato da un’idea piombata dal nulla, che ho sviluppato quasi subito nella sua interezza, anche se per completare la bozza, un po’ per mancanza di tempo, un po’ per mia insicurezza ci ho impiegato un tempo faraonico. Gli intrecci narrativi sono quelli che hanno portato via più tempo, per far sì che tutto tornasse e non ci fossero incongruenze. Nonostante la mia negatività la storia mi ha sempre riportato da lei in qualche modo. Quando rileggevo, dopo un po’ di tempo quanto avevo scritto, mi dicevo “Ehi, però non è male”, e questo mi aiutava ad avere maggior autostima. E quando mi rimettevo a scrivere ero un tutt’uno con i personaggi e con la storia.

 

(clicca sulla miniatura qui a fianco per acquistare La corsa, il romanzo di Michela Belotti, edito da Bookabook)

 

 

Michela ti ringrazio infinitamente per la bella persona che sei e per la tua semplicità. Ti auguro che La corsa sia il primo di una lunga serie di libri e che la nostra intervista ti porti fortuna. In bocca al lupo per tutto!

Voglio ricordare a tutti che oggi è una delle giornate dedicate al tuo BLOG BOOK TOUR e il mio blog e la mia pagina partecipano a questa bellissima iniziativa. Le regole per partecipare sono semplici:

  • condividere i post del BLOG BOOK TOUR con l’hashtag #lacorsa
  • mettere mi piace alla pagina Michela Belotti

In palio, A TUTTI i partecipanti, l’EBOOK del romanzo!!!

 

Per concludere questa bellissima intervista e rimanere in tema di cinema, c’è un film che io amo sopra tutti gli altri. Lo amo particolarmente per due motivi fondamentali. Innanzi tutto l’attore che interpreta il personaggio principale è il mio preferito in assoluto e solo questo vale la visione. Inoltre parla di scrittura; è la storia di uno scrittore famoso che vive da molti anni lontano dalla società, chiuso nel suo appartamento, e viene a contatto con il mondo esterno attraverso un ragazzo che per una scommessa entra di nascosto in casa sua. Un bellissimo film con alcuni passaggi davvero intensi.

È la mia medicina quando sono in crisi di scrittura!

Vi lascio con la visione dell’estratto di youtube che trovate qui sotto e, se non lo conoscete, vi invito a guardare il film completo. Merita!

Scoprendo Forrester

Buona visione e arrivederci alla prossima puntata del L’ora del tè! E partecipate al BLOG BOOK TOUR di Michela!

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Marco Mancinelli

L'ora del tè; chiacchiere da salotto con scrittori, poeti, lettori, artisti in genere.

Marco Mancinelli e io siamo amici esattamente da un anno. Amici come lo intendiamo oggi, grazie ai social e alla realtà virtuale, che non vuol dire meno amici, per me; è un’amicizia a distanza come ai miei tempi esistevano gli amici di penna (a quattordici anni corrispondevo con una coetanea tedesca). Oggi, con l’aiuto della tecnologia, la comunicazione è più veloce e immediata e consente la nascita di amicizie fra persone che altrimenti non si sarebbero incontrate mai.
E sarebbe stata una grande perdita.
Non vorrei dilungarmi in preamboli, il mio ospite è una splendida persona e saprà presentarsi con la classe che le contraddistingue.
Prima di accoglierlo vorrei lasciarti alcune informazioni biografiche.
Marco pubblica in self publishing quattro romanzi: Cyberblood (2013), In equilibrio sul silenzio (2014), Nero Uomo (2016) e 2068 – L’uomo che distrusse il futuro (2017) e quattro racconti: Sussurri dal profondo, La stagione della temperanza, Il sorriso di Elena e Il risveglio del male. Con BakemonoLab editrice ha pubblicato il racconto Il giardino dei bambini storti nell’antologia Yokai (2017) e il romanzo Di là dall’oscurità e nel tempo (2018).
Ama il surf, l’astronomia e l’hacking.
Se lo cercate e non è al computer, vuol dire che quel giorno ci sono le onde.

Pronti per incontrarlo? Io sono molto emozionata!

Benvenuto nel mio salotto, Marco. Spero ti senta a tuo agio in questo luogo per me molto speciale, dove i libri sono i protagonisti e gli autori miei graditi ospiti. Sono le cinque e solitamente offro tè e crostata, ma devo dire che i tuoi predecessori si sono sbizzarriti a più non posso e so che tu ami molto il whisky. Potrei stupirti con effetti speciali. Marco, cosa ti offro?

Ciao Roberta e grazie per avermi ospitato nel tuo salotto. In effetti chi mi conosce sa che ho una certa passione per il whisky. A quest’ora vedrei bene un Oban Little Bay invecchiato 14 anni, rigorosamente liscio, e una generosa fetta di torta di mele. Si può fare?

 

 

Certo che si può fare, in questo salotto è tutto concesso.
A questo punto siamo pronti per iniziare le nostre chiacchiere. I lettori attendono a bocca aperta di ascoltare la tua storia. Sei pronto?

Cercherò di soddisfare ogni curiosità allora, non vorrei che a restare a bocca spalancata qualcuno dei tuoi lettori si slogasse la mascella. Non me lo potrei perdonare. Non sarebbe neanche simpatico, in effetti.

 

A che età hai iniziato a scrivere?

Subito dopo aver letto il mio primo romanzo, Le avventure di Tom Sawyer. Avevo nove anni e scrissi un racconto breve ispirato proprio al protagonista del libro di Twain.

 

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?

Ho una sola mania: ascolto musica a tutto volume, di solito con le cuffie. La playlist, che non conosce neanche mia moglie, è sempre la stessa, da anni. Ed è composta soltanto da 5 brani, che mando in loop per ore.

 

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?

La mia città, Roma. Mi piace però descriverla nella sua parte meno conosciuta e più underground.

 

Il libro più bello che hai letto?

Ne ho letti molti, di libri belli. Così al volo mi viene in mente Nero, di Olivier Pauvert.

 

Il luogo più strano in cui scrivi?

Scrivo soltanto seduto dietro la mia scrivania, che in effetti non ha nulla di strano. Però spesso siedo in maniera scomposta, con i piedi sul tavolo e la tastiera poggiata sulle gambe. Questa vale come stranezza?

 

Vale tutto come stranezza, qui a L’ora del tè, soprattutto in fatto di scrittura. Comincio subito con una curiosità.
Anche io ascolto musica in cuffia quando scrivo e la mia playlist è formata da brani che io non possa cantare altrimenti sarebbe un disastro.
Ci vuoi svelare quali canzoni contiene la tua?

Potrei svelarvi qual è la mia playlist segreta, ma poi dovrei uccidervi tutti. In quanti lo leggono, il tuo blog, Roberta? Tanto per sapere se devo fare una strage.

Posso dirvi che i brani musicali appartengono per la quasi totalità a generi musicali che di solito non ascolto. Molti sono strumentali e durano diversi minuti. In ogni caso, c’è sempre una canzone che fa un po’ da colonna sonora ai miei libri. La ascolto in fase di lettura e correzione, in loop. Se vuoi, posso associare un brano ad ogni romanzo che ho scritto. E considera che sto facendo un grosso strappo alla mia regola. Procedo in ordine cronologico di pubblicazione.

Cyberblood: March of the pigs – Nine Inch Nails
In equilibrio sul silenzio: Script for a Jester’s tear – Marillion
Nero Uomo: Something to remind you – Staind
2068: Carnival Rust – Poets of the fall
Di là dall’oscurità e nel tempo: Mary Ann’s Place – Volbeat

A nove anni scopri l’amore per la scrittura. Raccontaci il tuo percorso da 9 a “n” anni (non sveliamo la tua età).

A 9 anni iniziai a scrivere e la scrittura è stata la mia passione fin da subito. Croce e delizia, come si dice. A scuola facevo impazzire gli insegnanti. Un anno promosso con voti altissimi e quello dopo bocciato senza appello. Spesso il pomeriggio invece di studiare mi sedevo davanti alla Olivetti di mia madre e scrivevo, per ore, dimenticandomi completamente della versione di latino o degli esercizi di chimica.
Fino verso i venti anni coltivai la mia passione praticamente tutti i giorni.
Mi cimentai con diversi concorsi letterari, ricevendo premi e riconoscimenti. Poi, dopo l’anno di servizio militare, iniziai a lavorare come programmatore. I computer erano la mia seconda passione. Non smisi completamente di scrivere, ma rallentai la produzione.
Con l’avvento di internet spostai la mia bussola lavorativa verso lo sviluppo di siti web e riuscii a vendermi, tra le altre cose, la mia capacità di scrittura proprio nel mercato del web marketing. Molte aziende mi contattavano anche per scrivere le loro storie aziendali o per sistemare i testi da inserire nelle pagine web.
Poi verso il 2010 decisi di mollare tutto e di riprendere in mano la penna “quasi” a tempo pieno. Iniziai a lavorare part time e a dedicarmi alla mia passione con maggiore impegno. Nel 2012 pubblicai in maniera indipendente il mio primo romanzo: Cyberblood. Riuscii a vendere un migliaio di copie in meno di un anno, senza sapere niente di promozione e marketing. In realtà fui soddisfatto dell’accoglienza dei lettori, non tanto delle vendite. Sapevo che era un romanzo imperfetto, ma conteneva anche delle buone cose, che in tanti apprezzarono. Così, sulla scia dell’entusiasmo, mi rimboccai le maniche, aggiustai il tiro, provai a capire dove dovevo migliorare e sfornai, un anno dopo, In equilibrio sul silenzio. Soddisfatto delle critiche, proseguii per la mia strada. Oggi mi ritrovo con cinque romanzi pubblicati e due in uscita nei prossimi mesi del 2018, uno indipendente e l’altro con una casa editrice. Mi reputo soddisfatto, ma so che la strada è ancora lunga e tutta da percorrere. E io ho sempre avuto un gran fiato e gambe buone.

Marco, con te vorrei parlare non solo di scrittura perché so che sei impegnato un po’ su tutti i fronti, non solo come autore: sei editor, collabori con Extravergine d’Autore, un portale che dà visibilità al self di qualità, e sei esperto di editoria e marketing editoriale.
Quali consigli daresti a chi desidera pubblicare un libro oggi? Self? Editori? E quali sono i passi che un autore dovrebbe fare, post-pubblicazione, per raggiungere il maggior numero di lettori?

Provo a rispondere alle tue domande con un’unica risposta articolata. L’argomento è vasto, quindi non sarò breve. Iniziamo col dire che non vedo molta differenza tra pubblicare self o con un editore, almeno in termini di probabilità di riscontro. È ovvio che un conto è affidarsi ad Amazon per distribuire il proprio romanzo d’esordio e un altro è avere dietro una delle Big dell’editoria che decide di investire grosse cifre su di te. Ma con questo esempio siamo nella fantascienza, quindi restiamo coi piedi per terra e muoviamoci in un campo più realistico.
Immagina di dover raggiungere l’aeroporto per imbarcarti su un volo. Sono molteplici i modi in cui puoi arrivarci: auto privata, treno, pullman, taxi, scooter, uno strappo da un amico, bicicletta, a piedi se è vicino, metropolitana, car sharing. Ecco, ora portiamo l’esempio nell’editoria: l’aeroporto è la pubblicazione e il selfpublishing e le case editrici sono i modi per raggiungerla. L’importante è che non perdi il volo, poi come arrivi al check-in poco importa. Self e case editrici sono due percorsi di pubblicazione validi allo stesso modo, ognuno con i propri limiti, i propri pregi e punti di forza, e ognuno con il medesimo grado di fallibilità. Io stesso pubblico affidando una parte dei miei scritti al selfpublishing e l’altra a una casa editrice, e la mia esperienza è stata ed è positiva in entrambi i casi. E in entrambi i casi devo sudare per ottenere risultati.
Non amo molto la diatriba che spesso si accende tra autori self e case editrici, come se uno dei due dovesse necessariamente rappresentare il male dell’editoria. In questo senso il mio consiglio è di scegliere il percorso che più si sente di voler affrontare, con serenità e obiettività. Nel self l’autore ha la grande responsabilità di essere editore di se stesso. Per questo io suggerisco in ogni caso di non esordire col selfpublishing, se non si conoscono a fondo le dinamiche dell’editoria. Si rischia di fare un bel botto e di perdere l’entusiasmo. Oggi pubblicare con un editore è diventato molto più semplice rispetto a qualche decina di anni fa, perché è aumentato il numero delle piccole case editrici e perché la follia che muove il mercato dei libri ha costretto gli editori a pubblicare molti più titoli rispetto a prima. Con un po’ di pazienza e caparbietà qualcuno disposto a pubblicare un buon manoscritto si trova. Non è impossibile.
La mia idea è che il selfpublishing sia più adatto ad un autore già svezzato a livello editoriale. Ad esempio, un grosso ostacolo verso la strada del successo è rappresentato proprio dal marketing e dalle strategie per raggiungere i lettori. Farsi conoscere dal grande pubblico è difficile tanto per il selfpublisher quanto per l’autore pubblicato da casa editrice. La bacchetta magica non ce l’ha nessuno, e questa è la parte in cui tutti devono rimboccarsi le maniche, gli autori per primi. Che tu abbia fatto tutto da solo (non scendo nello specifico, ma ci tengo a precisare che selfpublishing non significa letteralmente fare tutto da soli, ma solo avere la responsabilità della filiera editoriale) o che un editore ti abbia aiutato a pubblicare, quando si tratta di vendere non esistono scuse: l’autore deve rimboccarsi le maniche e muovere il culo. L’autore, lo ripeto per chiarezza. La bacchetta magica, non la posseggo neanche io, ma se dovessi dare consigli ad un amico che ha appena pubblicato, gli suggerirei di iniziare creando un pubblico nella sua cerchia di conoscenze. È inutile bearsi di avere il proprio libro venduto nell’unica libreria della più sperduta cittadina della Valle d’Aosta, se a casa tua, a Catania, il salumiere dove fai la spesa tutti i giorni non sa che sei un autore e che hai scritto dei libri. Il successo raramente si muove a salti. Se devi arrivare da A a Z, prima devi passare per tutte le altre lettere dell’alfabeto. Quindi, il mio primo consiglio è di procedere per gradi. Il secondo è scrivere. Mai fossilizzarsi sul primo romanzo, che nella maggior parte dei casi sarà un lavoro imperfetto e acerbo. Il miglior biglietto da visita di un autore è rappresentato dai suoi libri, quindi bisogna mettersi sotto e scrivere. Il terzo consiglio è di non isolarsi e, dove possibile, cercare di inserirsi in un contesto editoriale (casa editrice, associazione, fondazione, gruppi, ecc.) e di rimanere agganciati alle dinamiche che smuovono il mercato, conoscendo altri autori, operatori e divulgatori. Più si amplia il giro di conoscenze e maggiori opportunità si hanno di essere riconosciuti e letti. L’Italia organizza ogni anno decine di fiere dedicate all’editoria, in quasi tutte le città. Partecipare a questi eventi, anche solo come semplici spettatori, può essere già un buon modo per conoscere persone e addetti ai lavori, e per rimanere sintonizzati su quanto accade nell’editoria (fondamentale per un selfpublisher).

Questi sono i miei consigli. Se poi qualcuno inciampa nella bacchetta magica, vi pregherei di spedirmela per posta, ché due colpi di polvere di stelle farebbero comodo anche a me.

 

Il professore mi punta il dito, quasi con fare minaccioso. «Ricorda le mie parole, perché tanto tempo fa le disse a me tuo nonno: alcune persone ti entrano nel cuore, altre nella testa, altre ancora fanno breccia in entrambe. La vita e la felicità si rincorrono lì, in quello spazio, tra sentimento e follia. Non perdere mai la tua possibilità di vivere accanto a chi riesce a lasciarti cicatrici nel cuore e nella mente, perché persone simili non sono facili da trovare. E quando sarai vecchio, come me, quelle cicatrici le amerai più di te stesso, perché ti ricorderanno che sei stato vivo e che hai vissuto, e che c’era un motivo per vivere. Certe cicatrici, col tempo, prendono il sapore del miele, e saranno il tuo nutrimento prima della morte, ti accompagneranno fino all’ultimo respiro e allora morire avrà il sapore che tu avrai saputo dare alla tua vita. E forse non ti farà così paura».
Io sono rigido sulla poltrona e osservo questo vecchio saggio, mezzo guercio, che mi ha inchiodato alla realtà con le sue parole. Vorrei abbracciarlo, ma temo che mi beccherei uno dei sui montanti famosi. «Sicuro che mio nonno abbia detto proprio così?», mi limito a dire.
Lui fa una smorfia e inizia a tirarsi i peli candidi dei baffi. «Giurerei di sì, però mi sa che eravamo ubriachi tutti e due. Oddio, magari me lo sono immaginato, sai l’alcol…».
E ci viene da ridere, con la spontaneità e la naturalezza di due amici di vecchia data. E per un attimo mi dimentico delle mie ansie, delle paranoie e tutto il resto. E quasi mi sembra di essere felice, come quando ero bambino.

(Estratto da Di là dall’oscurità e nel tempo)

 

Grazie Marco, credo che tu abbia delineato esattamente tutte le sfumature del mondo dell’editoria, indispensabili soprattutto per coloro che si avvicinano a questo mondo e desiderano scrivere per pubblicare. Scrittori ed editori non ci si inventa, dietro c’è un lavoro immenso da fare ed è bene iniziare con il giusto passo.
Prima di parlare dei tuoi libri, vorrei sapere da te quali sono gli strumenti che riempiono la tua cassetta degli attrezzi. Quali manuali, vocabolari, libri, metodi consigli agli aspiranti scrittori.

Quando scrivo sono molto disordinato. La mia cassetta degli attrezzi ha sicuramente qualche buco, perché tendo a perdere quasi tutto. Di solito prendo tonnellate di appunti sul mio taccuino e registro appunti vocali sul mio cellulare. Alla fine organizzare il materiale diventa più complicato che scrivere la storia. Così improvviso e attingo di tanto in tanto a quello che ho raccolto, lasciando fuori, troppo spesso, buone intuizioni e spunti interessanti. Per il resto mi affido al mio word processor open source e ai miei dizionari online e cartacei dei sinonimi e dei contrari (lo ammetto, sono ossessionato dalle parole e a volte passo anche due ore su un’unica frase per renderla perfetta come voglio che sia). Accanto alla tastiera tengo, a proposito di cassette degli attrezzi, una copia di On Writing di Stephen King. Materialmente non mi serve a niente, ma mi piace averla lì.
Date le premesse, capirai che non sono proprio la persona adatta a dare consigli agli aspiranti scrittori. Quello che posso suggerire è di utilizzare un software come Bibisco che può aiutare in maniera efficace ad organizzare il lavoro. Per le trame più complesse lo utilizzo anche io, sebbene la mia scarsa propensione alla precisione non mi permetta mai di usarlo fino alla fine. Di solito lo mollo a metà del lavoro. Ma devo dire che è davvero un ottimo programma, che ogni scrittore dovrebbe custodire nella propria cassetta degli attrezzi. Per quanto riguarda il metodo, il mio suggerimento è di scrivere quando si ha voglia di farlo. A meno di avere scadenze troppo ravvicinate, mai forzare la mano. Il mio ultimo romanzo, 500 pagine, l’ho scritto in quattro mesi, ma sono stato anche più di una settimana senza buttare giù una singola parola. Hemingway suggeriva di smettere di scrivere quando si hanno ancora buone idee, in modo da riprende in un secondo tempo senza problemi da pagina bianca. Credo sia davvero un gran buon consiglio. Forse il più prezioso da custodire nella propria cassetta. E occhio ai buchi, non fate come me.

 Beh, Marco, visti i risultati che hai raggiunto e i libri che hai scritto penso proprio che i tuoi consigli siano assolutamente da seguire o, per lo meno, da tenere in considerazione, poi come dico io, quando “ricevi un consiglio prendi quello che ti serve e piace, il resto buttalo”. Parliamo dei tuoi romanzi? Credo sia giunta l’ora.
A quale dei tuoi libri sei più legato e quale invece butteresti nella spazzatura? (Domanda insolente che non si fa, ma stamattina mi sono svegliata così!)

Mi piacciono le domande insolenti, vediamo se riesco ad essere tale anche nella risposta.
Il romanzo al quale mi sento più legato è In equilibrio sul silenzio, perché per un lungo periodo della mia vita ho avuto molto in comune col protagonista principale della vicenda, Modesto. In realtà sono affezionato a questa libro anche perché è stato il secondo che ho scritto e, come canta Caparezza: il secondo album è sempre il più difficile!
Cyberblood, il mio romanzo d’esordio, ha ottenuto fin da subito un discreto successo, grazie ai suoi personaggi spregiudicati e cattivi, che hanno conquistato fin da subito i lettori. Col secondo romanzo mi sentivo un po’ sotto pressione, perché temevo che non sarei riuscito a replicare in maniera decente quella mia prima performance letteraria. Poi tutto è andato per il verso giusto e In equilibrio sul silenzio si è ritagliato un posto speciale accanto al mio cuore. Per certi versi è stato un ottimo compagno di viaggio in un momento critico, che ho vissuto non senza ansia.
Vuoi sapere qual è il libro che butterei nella spazzatura? 2068 – L’uomo che distrusse il futuro. Il motivo? Mi è venuto talmente bene che adesso mi tocca scriverne altri della stessa saga… e io detesto le saghe.

Il corridoio è immerso nella penombra. Sul fondo, la porta chiusa mi ricorda che devo occuparmi dei mostri. Non l’ho ancora fatto, per via del trasloco, e adesso forse sto cercando una scusa per non entrare in quella stanza.
Raggiungo la cucina e poggio la busta del supermercato sul tavolo. Alzo la serranda, ma lascio chiusa la finestra. Il terrazzino è allagato. Fuori c’è una specie di tempesta. Alla televisione hanno detto che pioverà per tutta la settimana, e le premesse ci sono tutte. Mi sciacquo le mani nel lavandino, usando il sapone per i piatti come detergente. È quasi ora di pranzo e devo mangiare, anche se non ho fame. Se prendo le pillole a stomaco vuoto, potrebbe venirmi un’ulcera, o qualcosa di simile. L’idea mi terrorizza e basta quella a togliermi l’appetito; in pratica mangio per non avere paura di non mangiare. La mia vita funziona tutta più o meno in questo modo.

(Estratto da Di là dall’oscurità e nel tempo)

 

 

Ed ora è il momento di svelarci qualche segreto sul tuo ultimo romanzo Di là dall’oscurità e nel tempo (la mia recensione al romanzo di Marco può essere letta cliccando QUI): dal come è nata l’idea a come hai disegnato i personaggi e poi vorrei conoscere, se ce ne sono, alcuni aneddoti legati a questo libro, più tutto quello che ti viene in mente.
Aggiungo, perché sono insaziabile, che vorrei anche sapere come ti senti mentre scrivi, cosa provi e qual è la sensazione che ti assale dopo l’ultima parola scritta.

Di là dall’oscurità e nel tempo è un romanzo complesso, che si offre a diverse chiavi di lettura. Vuoi un’aneddoto interessante? Te lo servo subito. Ero a Torino, a maggio scorso, con Valentina Cestra, l’editor in chief della BakemonoLab, casa editrice per la quale avevo appena pubblicato un racconto nell’antologia Yokai, Spiriti Inquieti. Parlavamo di progetti letterari e lei mi ha chiesto se non avessi una buona storia di fantasmi e mostri da proporle. Così ho iniziato a pensarci su. Nel viaggio di ritorno verso Roma, che ho affrontato in pullman di notte, nel dormiveglia ho avuto una specie di visione: un uomo e una donna che si scambiano libri, e ogni libro è una promessa d’amore. Questa immagine l’ho portata fino a casa, anche se non sapevo bene cosa ci avrei fatto. Un paio di giorni dopo ero davanti al pc che vedevo un film di Jarmusch, Only Lovers Left Alive, e sulla scena che apre il film, dove si vede una affascinante Tilda Swinton stesa ai piedi di un letto circondata da decine di libri, ho pensato: “Sarebbe divertente ficcare una donna in una casa ai confini di un luogo oscuro, e darle i libri come unica compagnia. Anzi tutti i libri scritti dagli uomini”.
Così ho messo insieme le due idee e ho iniziato a lavorare alla trama di Di là dall’oscurità e nel tempo. Ho lavorato alla prima stesura del romanzo da maggio a ottobre, scrivendo oltre 130 mila parole. Il risultato è una storia completamente diversa da quella che avevo in mente all’inizio. Ma devo ammettere che il risultato mi ha soddisfatto fin da subito. E oggi sono molto orgoglioso e geloso della mia piccola creatura.
Per quanto riguarda i personaggi, sono tutti frutto della mia fantasia, tranne quello di Giovanni Corvi che ho ricalcato fedelmente sulla vita di mio nonno, grande pittore, amante delle donne, del vino e delle scienze occulte. Da bambino trascorrevo ore ad ascoltare i suoi racconti sulla guerra e sulla vita, tra una partita a dama e una passeggiata al parco. Alla fine di lui mi sono rimaste soltanto le sue storie, e alcune erano troppo belle per non provare a metterle sulla carta. Se oggi fosse vivo, credo sarebbe orgoglioso anche lui del lavoro che ho fatto. Almeno mi piace pensare così.

Per rispondere alla tua ultima domanda, ti dico che mentre scrivo mi sento come se in me ci fosse un fiume in piena. Molti autori scrivono per sentirsi liberi, io invece scrivo per liberare qualcosa che è dentro di me e che non riesco più a trattenere. La scrittura per me è come un parto, tra dolori e disagi. Da questo puoi intuire che quando metto il punto ad una storia è come una specie di liberazione. Mi sento sicuramente più leggero, ma poi inizio ad avere l’ansia per la mia piccola creatura che dovrà affrontare il mondo dopo essersi staccata da me. Io scrivo per liberare qualcosa che è dentro di me. Se non lo facessi, credo che finirei per esplodere ad un certo punto.

Di’ la verità: ti ho fatto venire l’ansia con questa risposta? È che volevo restituirti un po’ di insolenza.

 

Nessuna ansia e accetto l’insolenza! Due parole sul tuo ultimo romanzo che ho apprezzato davvero tanto. È un libro esigente ed egoista e ti costringe a restare lì, in sua compagnia, fino all’ultima pagina. L’ho letto chiusa in una bolla dove non esistevano spazio e tempo, e dove ogni minuto era rotto dal respiro di quello precedente e così via, fino alla fine. In un unico, lungo, apnoico respiro. Non si legge d’un fiato perché è un bel tomo, ma è davvero ben scritto e molto coinvolgente. Voglio regalare un altro brano estratto dal tuo romanzo ai nostri lettori.

 

Il caffè gorgoglia nella moka e il suo aroma avvolge la cucina. A volte penso che dovrei cominciare a berlo anche io. Poi mi vengono in mente le emicranie e l’insonnia che mi procura anche una piccola tazzina e lascio stare questi propositi, godendomi solo il profumo intenso della miscela che sta per trasformarsi in bevanda. «Credo che prima o poi mi lascerà, appena si accorgerà che con me perde solo tempo», commento a bassa voce. «Prima o poi ci lasciano tutte… è destino», sentenzia il professore versando il caffè nella tazzina. Il tintinnio del cucchiaino che scioglie lo zucchero accompagna il resto del discorso, mentre lui si siede al tavolo. «In ogni caso, noi uomini facciamo cose inutili per gran parte della nostra vita. Amare e capire, ecco le uniche cose che davvero valgono il tempo che gli si dedica. Quindi il tempo speso ad amare non è mai realmente perduto. Quando ami qualcuno, ci credi sul serio. L’amore vive nel presente, nel momento attuale. E allora non è mai tempo perso, perché in quel momento si sta dando un senso alla propria vita, anche se poi ci accorgiamo che non amiamo più, o che abbiamo amato la persona sbagliata. Io la vedo così». Lo squadro con espressione incerta. «Va bene per quanto riguarda l’amore. Ma da capire cosa ci sarebbe?», chiedo serio. «Capire è il secondo compito più importante della nostra vita. Esistere senza cercare di capire il mondo che ci circonda equivale ad attraversare la sala di un museo bendati e sordi. Passeremmo davanti alle opere d’arte più meravigliose e alte della creatività umana senza rendercene conto. Non sarebbe uno spreco di tempo? Cosa c’è di più coinvolgente e gratificante a livello umano del comprendere la propria vita e il mondo intorno ad essa? Amare e capire, è tutto quello che devi fare per dare un senso alle tue giornate, dammi retta», chiosa il professore prima di sorseggiare il caffè bollente. «Lei ha amato, professore?», gli chiedo di getto, senza pesare prima le parole. Lui poggia la tazzina sul tavolo e abbassa lo sguardo. «Un tempo ho amato tanto…». «Beh, oggi ha la sua bella postina a cui pensare, o sbaglio?», dico notando lo scoramento sul suo volto. «Amare è come andare in bicicletta: non lo dimentichi mai una volta che hai imparato», commenta un po’ meno tetro.

(Estratto da Di là dall’oscurità e nel tempo)

 

 

Marco, l’ora sta per finire ma, se sei d’accordo, andiamo avanti un altro po’.
Tu sei una persona impegnata in attività diverse, la tua giornata è scandita da lavoro, famiglia, scrittura e in più collabori con Radio Impegno e con l’associazione Extravergine d’Autore. Io ti conosco già da un po’ e durante le nostre chiacchierate private è emersa la tua bella personalità. Per questo motivo vorrei che raccontassi ai nostri lettori di cosa ti occupi in radio e in Extravergine d’Autore e, come ultima cosa, ti chiedo una chicca: tre consigli per diventare autore di successo che scriverò su tre post-it, li appenderò alle ante dell’armadio e li leggerò tutte le mattine durante il make-up. E inviterò chiunque voglia diventare autore a fare lo stesso (compreso il make-up).

Radio Impegno è una bella realtà romana, nata a Corviale, uno dei quartieri simbolo della lotta alla criminalità e del recupero del territorio. Circa due anni fa un incendio doloso rischiò di distruggere uno dei luoghi simbolo di questa rinascita sociale, Il Campo dei Miracoli. Da quella notte un manipolo di volontari ha creato una rete che è un presidio attivo, rivolto proprio a custodire il Campo da ulteriori azioni intimidatorie. Decine di cittadini, che non hanno paura di sfidare la mano infame e armata della criminalità, persone volenterose che ogni notte animano il palinsesto dell’unica radio che va in onda 365 giorni l’anno, dalle 24 alle 8.30 del mattino, rigorosamente in diretta. Durante la notte, col favore delle tenebre, qualcuno ha voluto colpire uomini, donne e bambini di Corviale, e allora di notte noi rispondiamo, con le nostre voci impegnate e appassionate. Io sono entrato a far parte della grande famiglia di Radio Impegno, che qualche giorno fa ha ricevuto una onorificenza dal Presidente Mattarella, perché ho seguito la mia amica Lucilla, che aveva bisogno di un folle che la aiutasse nell’impresa di tirare su una trasmissione notturna. Abbiamo creato un gruppo, gli Emozionati, e una volta al mese parliamo in radio di emozioni, affrontando l’argomento dal punto di vista sociale, psicologico, artistico e umano. La prossima puntata, se volete ascoltarci e vederci (abbiamo le telecamere in studio), andrà in onda la notte tra il 18 e il 19 marzo, e sarà incentrata sulla gelosia. Potete collegarvi in diretta streaming all’indirizzo www.radioimpegno.it oppure ascoltarci sulle frequenze F.M. 97.7 di Radio Città Futura.
Extravergine d’Autore è invece l’associazione culturale della quale faccio parte da oltre un anno e con la quale cerchiamo di far conoscere il self-publishing e, dove possibile, dargli lustro. Il progetto, nato da un’idea di Michel Franzoso circa tre anni fa, è cresciuto tantissimo negli ultimi tempi. Oggi, oltre ad offrire una vetrina di qualità per i libri self più meritevoli, siamo in grado di seguire molti autori nel loro percorso di pubblicazione, fornendo loro un aiuto concreto in termini di assistenza editoriale e di promozione. Siamo anche impegnati nella divulgazione del self-publishing, collaborando con molte delle voci che animano il sottobosco editoriale del nostro paese. Ad esempio, proprio pochi giorni fa, abbiamo lanciato un nuovo servizio in collaborazione con Michele Amitrani e il suo canale Youtube Credi Nella Tua Storia. Il servizio si chiama Fare Self e ogni settimana Michele risponderà alle domande poste direttamente dagli autori. All’interno dell’associazione io mi occupo del comitato di lettura e valutazione delle opere per la selezione nella nostra Vetrina di Qualità e svolgo il compito di consulente editoriale, che vuol dire essere a contatto con gli autori, ascoltare le loro richieste e cercare di aiutarli nel loro percorso di pubblicazione e promozione.

Per quanto riguarda i tre consigli che mi chiedi, non so se io sia la persona più adatta per darne. Di solito mi piace seguirli, i consigli, e dispensarne mi mette in difficoltà. Io credo che ogni percorso autoriale sia estremamente personale e che ognuno di noi debba trovare la propria strada seguendo strategie personali. In ogni caso, ci provo, alle brutte ti rovino il make-up mattutino. Il primo consiglio è quello più scontato, ma che per molte persone non sembra esserlo: scrivere. Non so se sia colpa dei social network che tendono a distrarre, ma a volte ho l’impressione che troppi scrittori, anche alle prime armi, dimentichino che devono scrivere. La promozione, il marketing, il personal branding sono tutte cose che aiutano a vendere, ma non bisogna dimenticare che prima di ogni cosa siamo scrittori, quindi scriviamo, possibilmente tutti i giorni, avendo sempre ben definiti i nostri progetti.
Il secondo consiglio, altrettanto banale, è leggere. Non conosco nessun scrittore di successo che non sia anche un lettore da competizione. Io ad esempio riservo alla lettura almeno un’ora al giorno, di solito prima di cena, o al limite dopo, se non ho avuto tempo di dedicarmici. Scrivere e leggere sono due attività che ormai fanno parte della mia quotidianità, da molto tempo. Sinceramente fatico a ricordare un solo giorno degli ultimi anni in cui non abbia letto almeno una decina di pagine. È più facile che non scriva per un po’, ma la lettura è un’attività imprescindibile.
Il terzo consiglio è di non prendersi troppo sul serio. Questo di solito me lo rivendo come consiglio generale di vita, ma può e deve essere applicato anche alla nostra attività di autori. Nel momento in cui saliamo su un piedistallo, perdiamo aderenza con la realtà. Ho conosciuto persone che dopo aver pubblicato un paio di romanzi self hanno iniziato ad atteggiarsi a grandi intellettuali o fini pensatori ormai arrivati al capolinea del successo. Io credo che la chiave per riuscire nel mestiere di scrittore sia tutta nella nostra capacità di rimanere curiosi e di pensare al successo come un orizzonte sempre lontano, che ci spinge ad andare avanti, costantemente. Quando ti fermi a lodarti e sbrodarti, ecco, in quel preciso momento, inizi a fallire.

Quindi, ricapitolo i tre suggerimenti: scrivere, leggere, non prendersi sul serio. Ci metto la mano sul fuoco che per diventare bravi scrittori non serva altro. Anzi, guarda, sono pronto a mettercele tutte e due.

 

Clicca sulla copertina per acquistare il romanzo di Marco Mancinelli

 

 

 

Non credo che mi rovinerai il make-up. Sono pronta, io per prima, a seguire i tuoi consigli e a divulgarli. Soprattutto il terzo!
Marco, ci fermiamo qui. Io ti ringrazio di cuore di essere stato mio ospite e invito i nostri lettori ad acquistare e leggere i tuoi libri, soprattutto l’ultimo romanzo che ricordiamo si intitola Di là dall’oscurità e nel tempo, edito dalla casa editrice BakemonoLab.
In bocca al lupo per la tua carriera di scrittore e per il tuo impegno con Radio Impegno e Extravergine d’Autore.

Arrivederci alla prossima puntata!

 

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Max O’Rover

L'ora del tè; chiacchiere da salotto con scrittori, poeti, lettori, artisti in genere.

Chiacchierare con Massimiliano Roveri ha il sapore dell’Irlanda, in tutte le sue sfumature. L’ora del tè è diventata ormai il nostro modo (il mio e il tuo) di girare il mondo. Non siamo andati lontanissimi ma, durante le chiacchierate con gli autori, qualche viaggio per il continente l’abbiamo fatto.
Massimiliano Roveri, in arte Max O’Rover, dopo essersi innamorato dell’Isola di Smeraldo ha cominciato a scrivere e a sognare una vita nella sua nuova terra. Oggi vive a Dublino, in un luogo molto simile alla Barrytown di Roddy Doyle, lavora sul web ed è social media manager di Catherine Dunne, grande autrice irlandese, e di Antonio Tombolini Editore.
A Roddy Doyle, o meglio, a un libro del famoso Roddy Doyle, è ispirato il suo romanzo #igcird (Il giorno in cui incontrammo Roddy Doyle); ne parleremo fra poco
Ero curiosa di conoscerlo e devo dire che la mia aspettativa non è stata delusa. Max ha una personalità multicolore, ricca, sorprendente. È un autore insolito, non ripetitivo, la sua grafia traccia linee che nessuno ha mai disegnato. Inutile imitarlo. Max ha uno stile semplice e complesso, duro e leggero, bianco e nero.
E magari con un pizzico di Verde.
Bene! Non ho raccontato granché di lui, volutamente, perché vorrei conoscerlo assieme a te. A questo punto sono impaziente di iniziare. E tu? Accogliamo Max assieme.

Ben arrivato nel mio salotto, Max, è un immenso piacere averti mio ospite. Prima di iniziare offro sempre qualcosa e visto che è L’ora del tè, cosa preferisci?
Tè Lapsang Souchong, marca Taylors of Harrogate. Grazie.

Ottima scelta! Siamo pronti per iniziare a chiacchierare. Partiamo?
Certo!

 A che età hai iniziato a scrivere?
Il primo “lavoro” pubblicato è una poesia sulla pagina dei lettori di Topolino, avevo nove anni, direi.

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Potrei dire il tè, tanto tè (il Lapsang di cui sopra), ma lo bevo anche quando non scrivo.

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
La mia terra: l’Irlanda.

Il libro più bello che hai letto?
Domanda complessa, rispondo “di pancia”: Il Signore degli Anelli.

Il luogo più strano in cui scrivi?
Mi è capitato di iniziare a scrivere un romanzo con un lapis, su un blocco notes, al primo piano di un letto a castello in una camerata da sei, alle quattro di notte, al buio.

Dopo aver letto il tuo romanzo ho riflettuto molto sui personaggi, sulle loro storie, su quanto l’autore possa influire sulla loro “vita”, se così la possiamo chiamare. E sono sempre più convinta che lo scrittore sia incarnato in ogni suo personaggio.
Io mi sono fatta questa idea ma vorrei la tua opinione. Se ti va di aprire l’anima di Max O’Rover ai nostri lettori, raccontaci quanto c’è di te nei tratti e nella vita dei tuoi personaggi.

Hai visto giusto, Roberta.
Anche se almeno in teoria nel romanzo c’è un personaggio che è il mio alter ego, in realtà ci sono tratti, segnali, tracce, di me nascosti nei diversi personaggi.
Ho cominciato a capire che per me uno dei motivi importanti dietro allo scrivere è quello di vivere altre vite: quelle dei personaggi. Questo non significa che tali vite debbano essermi completamente aliene. Credo che il tema delle identità in discussione sia una delle cose che mi interessano davvero molto (usare uno pseudonimo, avere un personaggio alter ego, vivere, avere coscienza del fatto che sto diventando un’altra persona anche grazie allo scrivere), e diluirsi nei personaggi è un modo di essere empatici con loro e con l’umanità “vera”.
Riflettendoci bene, c’è, però, una eccezione, forse. Bob è molto caratterizzato e non credo che abbia niente di me. Chissà se questo è il motivo per cui forse è il mio personaggio preferito.
Altra cosa da dire è che, forse, comunque, immedesimarsi nei personaggi di #igcird, che sono dei “buoni”, è stato più semplice. Ho dovuto lavorare molto di più su Patrick, uno dei quattro personaggi de La Terza Vita, in uscita a marzo, proprio perché è una testa molto, molto diversa dalla mia.

Il tuo amore per l’Irlanda traspare in ogni parola. Ti confesso che sono sempre stata affascinata dalle persone che provano un amore così forte e incondizionato per una terra che non sia la propria, tanto da decidere di appartenere a quella terra. Quando è nato tutto? Quando hai capito che questo amore era così forte e intenso da costringerti a cambiare nazione? Fra l’altro, nel tuo romanzo, questo amore e questo desiderio così forti sono incarnati in uno dei personaggi. Vorrei che ci raccontassi la tua storia.

Era il 1999. Ho visto le isole Aran nuotare tra il cielo e l’oceano in una bellissima giornata di sole. È stata una folgorazione. Una sensazione praticamente fisica, come se mi avessero liberato i polmoni. Sapevo di essere rinato, sapevo che era accaduto qualcosa di importante.
Non so spiegare il perché di tutto questo. Se vuoi, il libro è un tentativo di rispondere a questa domanda fondamentale, al perché a un certo punto ho cominciato a trasformarmi, culturalmente e non solo, in un’altra persona. Questa persona è ancora in divenire, ma vivere a Dublino e cominciare anche a scribacchiare in inglese sono stati passi fondamentali per farla crescere questa persona, questo nuovo me.
Volevo che nel libro ci fosse altro, per questo ci sono anche personaggi disillusi, o cinici. Ma il personaggio – Massimo è decisamente il tentativo di comprendere il – mio – rapporto con l’Irlanda.
E, bada bene, con questo io non faccio proclami sul fatto che l’Irlanda sia un luogo perfetto. È casa, per me. È abhaile, Casa con la “C” maiuscola. Certo: non solo per me a quanto pare. Ci sono molti irlandofili in giro. Molti “irlandesi Dentro” come li definisco io. Con #igcird parlo a queste persone. Ma anche a chiunque non si trovi al suo posto e lo stia cercando ancora, il – suo proprio – posto. Di sicuro io l’ho trovato, il mio posto.

Ci sono momenti catartici, a mio avviso, nella vita e nelle giornate di uno scrittore, momenti che possono essere compresi solo da chi li vive. Questi momenti sono il completo distaccamento dal mondo reale, il sogno onirico e vivido di una vita parallela, la materializzazione di persone, ambienti, colori e profumi di una dimensione che appartiene a una storia raccontata. E, a mio avviso, sono il motore della scrittura.
Non è una domanda, Max, è una riflessione a cui ti chiedo di aggregarti.

Sono, parafrasando una vecchia gag calcistica… completamente d’accordo a metà 😉
Un mio caro amico, un ex collega, parlava di “retrocranio”. Il retrocranio è un posto dove stanno “altre” cose. Io credo che il mio retrocranio sia occupato con la creatività, con la scrittura. Non sento, però, un salto tra la vita di tutti i giorni e la scrittura. Sento, invece, molto spesso, che il retrocranio sia all’erta per cogliere cose della vita di tutti i giorni e cominciare a elaborarle. Da questo punto di vista, anche se per moltissimi altri aspetti sono di fatto nient’altro che un vecchio scrittore alle prime armi, mi sento molto sicuro di me: so che devo solo lasciar fare al retrocranio che, quando è il momento giusto, sa come aprire il flusso della creatività, e molto spesso facendolo, appunto, a partire dalla vita di tutti i giorni, da stimoli altrimenti ben poco rilevanti.

Irlanda, venerdì
Messaggi in bottiglia

La stessa mattina in cui Massimo aveva capito che non avrebbe avuto il posto, Bob Robertson era da sua madre.
Era il giorno del funerale di suo padre Colm e lui, in quanto figlio maggiore, doveva accollarsi gli onori e gli oneri della faccenda.
«Come va, ma’?» la salutò, baciandola sulla fronte.
«Oh, buongiorno Bob. Come vuoi che vada… Ci prepariamo un tè?»
«Sì, certo. Che stavi facendo? Che cosa leggevi?»
«La madre di tuo padre era originaria delle Aran, lo sapevi, no?» rispose sua madre, alzandosi e lasciando sul tavolo, a bella posta, dei fogli.
Bob pensò che fossero dei vecchi documenti provenienti dalle Aran che sua madre, in vena di commemorazioni, aveva tirato fuori.
Non rispose, non aveva voglia in quel momento di parlare del passato.
Nuala Dirrane, vedova di Colm Robertson da tre giorni, riempì il bollitore e preparò le tazze per sé e per suo figlio Robert, il padre di Aoife.
La cucina dava sul piccolo giardino sul retro. Dalla doppia porta
a vetri si vedevano l’erba e un paio di cespugli di rose bianche, tristi per il cielo grigio.
Sull’erba, il triciclo arancione, rovesciato, di uno dei nipoti più piccoli.
Orientare lo sguardo dal rubinetto del lavello della cucina alle rose, guardare l’ora sull’orologio da pub marchiato Guinness, sopra il frigorifero alla destra della porta, e far tornare gli occhi sul lavello, corrispondeva alla quantità di tempo necessaria per riempire il bollitore di tanta acqua quanta ne bastava per una tazza.
Ma Nuala non aveva mai fatto una tazza di tè solitaria in tutta la sua vita. Per cui concedeva sempre ai suoi occhi delle pause che consentissero di ottenere abbastanza acqua almeno per due tazze: sul muro perennemente scrostato che delimitava il giardino rispetto a quello speculare dei vicini, sui rametti di semi di miglio a disposizione degli uccellini, sui fili per stendere il bucato, così spesso inutili.
Tanti anni prima, quando vivevano in quindici, in quella casa, usavano semplicemente una grossa pentola…
La base del bollitore, attaccata alla presa di corrente a cui non era mai stato attaccato nient’altro se non un bollitore, era sul mobiletto a sinistra del lavello.
Un passo e il bollitore è sulla sua base. Nuala prende dal pensile sopra il mobiletto due tazze con impugnatura e lo zucchero. Tre contenitori di metallo nascondono Lapsang Souchong, Earl Grey e Irish Breakfast.
Oggi è una giornata particolare e non ha praticamente dormito per tutta la notte, quindi va bene il Lapsang Souchong anche a quest’ora. Non ha mai chiesto ai suoi figli quale tipo di tè volessero. Semplicemente bevono lo stesso che lei sceglie per sé. Semplicemente, è così che funziona.
Richiude l’opportuna dose di foglie in due sferette di fine rete metallica che depone ciascuna in una tazza.
In questo mentre, quasi distrattamente, accende il bollitore. Certe mattine d’inverno l’acqua esce così fredda dal rubinetto che sembra impossibile che possa arrivare mai ad ebollizione.
Versa l’acqua dal bollitore spento nelle due tazze, meravigliandosi, come ogni volta, delle volute di colore che le foglie trasmettono all’acqua.
Per un attimo c’è ancora solo acqua, poi il tè comincia a farsi strada con quelle volute di colore, come un animale che scappa e improvvisamente rallenta per un qualche motivo a noi ignoto.
Sedersi al tavolo dal lato del lavello è ovvio, per aspettare i cinque minuti sbirciando l’orologio.
Il tè è tempo.
Un qualsiasi irlandese saprà come utilizzare al meglio, come economizzare quei minuti.
Per capire se il marito è ancora sbronzo. Per capire se la figlia ha fatto l’amore la notte precedente.
Se sei al pub: – perché sì, è possibile bere del tè anche in un pub… – ti servono per vedere se il tizio accanto a te ha voglia di chiacchierare.
Quando sono passati i cinque minuti, il tè ti farà da sponda. Per mandare affanculo il marito, per chiedere alla figlia se è tutto a posto, per chiedere al tizio del pub da dove viene e perché è lì.
Nuala aveva una teoria: la Guinness era una birra come tutte le altre, non c’era veramente bisogno di aspettare per completare la pinta.
Ma Arthur Guinness aveva inventato una spillatura ad hoc per gli Irlandesi, per costringere chi beve e chi spilla a studiarsi, in quei momenti in cui la pinta non è ancora pronta. A gettare i ponti per passare la serata.
E questo, Nuala era sicura, Arthur Guinness lo aveva imparato dal tè.

(Estratto da Il giorno che incontrammo Roddy Doyle)

Dammi i nomi di due autori i cui libri non dovrebbero mancare sul comodino di uno scrittore e dimmi perché li ritieni così fondamentali. L’altra domanda che poi ti rivolgo su questo tema è la seguente: mi è capitato di leggere un libro durante la prima stesura di un racconto e rendermi conto che quella lettura influenzava fortemente il mio stile; a te è capitato? Credi, inoltre, che sia fondamentale la lettura per costruire o migliorare il proprio stile?

Sarò banale. Joyce e Beckett. Joyce perché non puoi aggiungere nient’altro alla scrittura meglio di lui, Beckett perché non puoi togliere altro alla scrittura meglio di lui. Le mie letture influenzano sempre il mio stile. È una cosa di cui sono cosciente e cerco di usarla. Ho un modello per i dialoghi, ho un modello per le similitudini, ho due modelli di scrittura al femminile da cui cerco di trarre ispirazione quando affronto personaggi femminili. Quindi, da un certo punto di vista, la risposta è che mi accade continuamente. E, sì: leggere è fondamentale per lo scrivere. Dal leggere una storia archetipica per raccontarla in modo nuovo, al cercare di raccontare una storia completamente nuova ma usando uno stile che è risultante da tutto ciò che abbiamo letto.

Clicca sull’immagine qui a fianco per acquistare il romanzo di Max O’Rover #igcird
Antonio Tombolini Editore – Collana Oceania

(La mia recensione a #igcird puoi leggerla QUI)

Wow!! Temevo che mi rispondessi che “no, la lettura non contagia la scrittura” e sarei caduta nella più profonda disperazione! Vorrei fare una cosa insolita, senza precedenti qui a L’ora del tè. Chiedo una riflessione da parte tua, nostro caro lettore di oggi, per chiederti quale sia la tua esperienza in merito. Se anche tu, come me e Max, credi che la lettura di altri autori contamini lo stile dello scrittore. Attendiamo le tue considerazioni nei commenti di questo articolo.

Torniamo a noi, Max. Oltre a scrivere storie, scrivi anche per il Web e, come abbiamo anticipato, curi tutta la comunicazione marketing di due importanti realtà letterarie internazionali: sei social media manager di Catherine Dunne, grande scrittrice irlandese, e responsabile della comunicazione di Antonio Tombolini Editore. Come sono nate queste due collaborazioni? Di cosa ti occupi in questi due ambiti e quanto sono di ostacolo alla tua carriera di scrittore o, al contrario, la arricchiscono?

La prima, quella con Catherine, è nata dall’esistenza di italish.eu e dal rapporto di amicizia nato con Federica Sgaggio, scrittrice e giornalista italiana anche lei irlandofila che aveva già avviato una sua collaborazione, letteraria, con Catherine: l’Italo Irish Literature Exchange, che ha dato vita all’antologia italo – irlandese “lost between / una vita altrove”. Grazie a Federica, Catherine ha avuto modo di comprendere le finalità e la professionalità dietro a Italish Magazine, e ha ritenuto opportuno affidarsi a quella professionalità per promuovere il suo essere scrittrice sul web e sui social.
Nel frattempo, avevo conosciuto a Dublino Michele Marziani, che aveva scelto di pubblicare il mio #igcird e che mi ha proposto di lavorare come social media manager anche per ATE.
Credo che la mia doppia veste (non mi preoccupo della schizofrenia: schizofrenico lo sono sempre stato, non scriverei con uno pseudonimo, altrimenti) aiuti entrambe le mie professionalità. Da scrittore so che non posso fare a meno del web, a ora, per “esistere”: se una scrittrice del calibro di Catherine non ne fa a meno, come potrei io? Da social media manager e responsabile della comunicazione da un lato cerco di aggiungere una qualità testuale nella scrittura che non sempre è caratteristica di quanto troviamo sul web; dall’altro, so che cosa vorrebbero tutti gli scrittori di cui devo raccontare la “storia”. Si crea una bella sinergia, come per esempio nel caso del 6Nazioni letterario, che ho proposto ad Antonio e Michele e che è attivo proprio in questo periodo.

Fra poco racconteremo del 6Nazioni, abbiamo lanciato il sasso e non possiamo nascondere la mano.
Della tua vita e delle tue passioni, affetti a parte, ho catturato quattro elementi fondamentali: la scrittura, i libri, l’Irlanda, la Guinness!! Aggiungi pure se non ho colto qualcosa.
Domanda antipatica: se dovessi tornare indietro e scegliere una via diversa, quale sceglieresti? Hai un sogno nel cassetto non realizzato oppure li hai tirati fuori tutti?

Fammi aggiungere qualcosa sugli affetti: Donal Ryan, collega e conterraneo, ha detto che in realtà scrive per fare bella figura con sua moglie. Beh, mi sa che è abbastanza vero anche per me… E senza Maria Grazia che mi sopporta e supporta non so dove sarei, francamente. Sugli interessi dovresti aggiungere la lettura (anche se in effetti è un lato della scrittura, forse) e la fotografia.
Se potessi tornare all’agosto del 1999, strapperei il biglietto di ritorno per l’Italia da Dublino.
Il sogno del cassetto è quello di uno scrittore: vincere il Nobel per la letteratura. Se lo ha vinto uno che gli è servita la chitarra per vincerlo, c’è anche speranza…
Ah: non dimentichiamoci il tè. il Lapsang.


Un bellissimo sogno nel cassetto, Max, non c’è che dire. I sogni sono quella piccola fiammella sempre accesa che alimentiamo per evitare che si spenga. E non deve spegnersi!
È stato un piacere parlare con te e spero che mi verrai a trovare quando uscirà il tuo prossimo libro che è in cantiere.
Sono certa che gli ascoltatori de L’ora del tè abbiamo apprezzato le nostre chiacchiere e li lasciamo con qualcosa da interessante da leggere. Che ne pensi?

 

I racconti del TORNEO 6 NAZIONI LETTERARIO.

Ispirato al torneo 6 Nazioni di Rugby, il 6 NAZIONI LETTERARIO è una vera e propria sfida fra squadre, il cui oggetto del contendere non è una palla ma racconti. La sfida consiste nel scrivere racconti, pubblicarli e raccogliere i maggiori voti possibili. Le partite letterarie si svolgono negli stessi giorni delle partite di Rugby del 6 NAZIONI.

Sulla pagina FB di Antonio Tombolini Editore e sul sito ATE sono disponibili tutte le partite.

Puoi leggere i racconti, che sono bellissimi, e votare quello che ti piace di più. E nel frattempo conoscere ATE, una bella casa editrice che pubblica libri di qualità e dà spazio soprattutto a nuovi scrittori che merita di essere letti alla stessa stregua dei grandi nomi altisonanti.

Alla prossima puntata de L’ora del tè.
Buona lettura!

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