Che ne dici di una tazza di tè?

L'ora del tè; chiacchiere da salotto con scrittori, poeti, lettori, artisti in genere.

Durante le vacanze estive tutte le attività si rilassano. Vanno di pari passo con il nostro corpo, martoriato e stressato dalle fatiche invernali, che urla ed esige riposo e tranquillità.

Il tuo non so, ma il mio sì.

Quest’estate ho spento tutto, mi sono fatta cullare dai tormentoni musicali datati 2017 e  sono scivolata fra le braccia di Morfeo tutte le volte che ho potuto. Complice anche il gran caldo e la dieta pazza a cui mi sono sottoposta quest’anno.  Con grandi risultati!

Ho dormito, cucinato (il minimo indispensabile per il buon funzionamento fisico e per gli affamati di casa), pulito e lavato q.b., spento qualsiasi disturbo psico-tecno-social (tranne qualche piccola incursione su Facebook per capire cosa succedesse nel mondo).

Di social ho mantenuto vivi solo i rapporti fisici umani, di quelli con le gambe sotto il tavolo e un bel calice di roba alcolica da bere (per gli altri perché io sono sempre a dieta) e i rapporti whatsapp con gli amici stretti, la mamma e i figli.

Ho letto. Tanto. O almeno tanto per me, che durante l’anno, causa lavoro e mille altri impegni, sono costretta a relegare i miei spazi lettura nei momenti più impensabili.
E non ho scritto neanche una parola. Deprivazione totale da scrittura. Riposo totale dei circuiti creativi.

Anche L’ora del tè è andata in vacanza, ma sta per tornare con tante bellissime novità: nuovi e interessanti autori, un rinnovato look grafico, link utili e anche una piccola curiosità in ogni puntata.

Sei pronto?
Vieni a bere una tazza di tè con me?

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Clara Piacentini

La mia ospite di oggi è una cara amica. La nostra amicizia è nata dopo la mia recensione a Bianca come l’Africa, il libro che Clara ha pubblicato nel 2016 per Antonio Tombolini Editore nella collana Officina Marziani.
Clara Piacentini è stata docente di Lettere in Italia e all’estero ed ha vissuto sette anni in Bulgaria e altrettanti in Etiopia. I sette anni trascorsi in Etiopia hanno profondamente segnato il suo modo di pensare, il suo sguardo sulla vita.
Al rientro in Italia ha scelto come sua dimora un piccolo paese dell’entroterra romagnolo perché dalla sua casa si vede il mare.
Si è diplomata alla Scuola Triennale della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari conseguendo il titolo di Consulente in scrittura biografica ed autobiografica e conduce Seminari e Laboratori di scrittura di sé, coniugando la forza creativa della parola con il linguaggio poetico.
Nel 2015 e nel 2016 è stata selezionata con i racconti “Corale” e “L’anima si è fatta re” nell’ambito del Concorso Nazionale Lingua Madre. I racconti sono pubblicati nelle antologie “Lingua Madre Duemilaquindici/Duemilasedici. Racconti di donne straniere in Italia”, a cura di Daniela Finocchi – Edizioni SEB27.
Sempre nell’ambito del Concorso Lingua Madre, è stata selezionata, negli stessi anni, per il Premio speciale Fondazione Sandretto Re Rebaudengo con le foto ABABA-FIORE e ATTESA.

A questo punto non ci resta che incontrarla!

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Clara, è un vero piacere averti qui nel mio salotto. Vista l’ora, ai miei ospiti offro tè e dolci, ma lascio piena libertà di scelta. Tu cosa gradisci?

Gradirei, se puoi, un caffè freddo. Puoi aggiungere acqua e ghiaccio a un caffè appena fatto. Poiché lo bevo amaro, lo accompagno volentieri con un dolcetto. Grazie.

Ottimo! A questo punto possiamo iniziare la nostra chiacchierata. Sei pronta?

Prontissima!

A che età hai iniziato a scrivere?

Se si esclude la cospicua scrittura epistolare, cartacea e telematica che parte dall’adolescenza, la scrittura voluta e consapevole è cominciata nell’età matura durante gli anni trascorsi in Etiopia e da lì è continuata.

 

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?

Penna V5 HI-TECPOINT- 0,5 di qualsiasi colore, quaderni e quadernetti “preziosi”, tavolo completamente sgombro per computer e quaderno se sono in casa.

 

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?

Il luogo ha poca importanza. Non parto da un luogo, ma da una persona che diventa personaggio e che nel luogo o nei luoghi agisce.

 

Il libro più bello che hai letto?

Domanda “difficile”. Il primo che mi viene in mente: Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar.

 

Il luogo più strano in cui scrivi?

Le sale d’attesa di qualsiasi genere, così mi estraneo, a meno che… l’immaginazione non si posi su persone particolari che mi offrano un nuovo spunto.

Bene, Clara! Sono felice di averti con me oggi. Noi ci conosciamo da un anno; sei la prima autrice targata Antonio Tombolini Editore con cui sono diventata amica dopo aver recensito la tua bellissima antologia di racconti. Partiamo da qui, dall’Africa. Del libro parleremo alla fine. Hai fatto riferimento all’Etiopia. Ad un luogo che tu ami molto e che è parte importante della tua vita. Corretto?

Eccoci, Roberta! È un grande piacere anche per me essere in tua compagnia.
Sì Roberta, è corretto ciò che dici. L’Etiopia è il mio paese d’adozione, ha avuto un ruolo fondamentale nella mia esistenza. Ha segnato profondamente il mio modo di pensare, il mio sguardo sulla vita.

 

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Foto ATTESA di Clara Piacentini

Tu hai un legame particolare con le persone, con la mentalità e con gli usi di un popolo così lontano da noi ma così vicino nel tuo cuore. Ci racconti come è nata l’occasione di questo viaggio in Africa, cosa è successo durante il tuo soggiorno in Etiopia e come vivi e hai vissuto tutto ciò?

Vedi, Roberta, questo viaggio è durato sette anni.
In Etiopia sono andata per lavoro in seguito a un concorso fatto al Ministero degli Affari Esteri. Sono stata docente di Lettere presso la Scuola Italiana di Addis Abeba.
Non è facile rispondere alla tua domanda. Mi viene in mente una frase, letta, credo, nella rivista dei Padri Bianchi, Africa, che esprimeva più o meno questo concetto, chiaramente un po’ provocatorio: Chi va in Africa per un mese, torna e scrive un libro, chi vi passa un anno scrive una guida o un articolo, chi vi passa una parte di vita o una vita intera, preferisce star zitto davanti alla sua complessità. Quanto a me, poiché ti ho detto del motivo della mia vita in Etiopia, posso dirti che laggiù ho vissuto con pienezza, lavorando, viaggiando, cercando di capire, a contatto con la popolazione. Non è stato il mio un viaggio turistico, ma un viaggio dell’anima nel suo significato più ampio. Questo è ciò che è successo.
Come ho vissuto ha il nome di gratitudine, riconoscenza, un senso affettivo del ringraziamento.
Come vivo ha il nome di nostalgia, che secondo l’etimologia, dal greco, significa “dolore del ritorno”, nostalgia come sentimento di tristezza, di rimpianto per la lontananza da persone o luoghi cari, per un passato che si vorrebbe rivivere.
Dopo il cosiddetto rimpatrio, sono tornata due volte in Etiopia, ma… Nei puntini di sospensione il significato di un passato che non si può rivivere.
Vorrei aggiungere una cosa, ma forse emergerà quando mi farai domande sul mio libro: il mio amore per l’Etiopia non ha niente a che vedere con un che di romantico, sdolcinato o, quel che è peggio, colonialista.
Ho visitato altri Paesi africani, ma da turista…

 

Ho percepito quel “dolore del ritorno” sia durante la lettura di Bianca come l’Africa che dei due racconti Corale e L’anima si è fatta re pubblicati nelle antologie Lingua Madre Duemilaquindici/Duemilasedici. Racconti di donne straniere in Italia.
La tua è la scrittura dell’anima. Rispecchia quello che tu sei. Rispecchia quello che trasmetti in chi ti sta accanto. Di quella tua anima che un po’ doni agli altri.
C’è tanto nella tua scrittura di ciò che hai visto e vissuto. C’è anche tanta nostalgia.
Qual è il tuo desiderio di scrittrice? Il tuo obiettivo? Ogni scrittore ha il suo. Chi desidera diventare famoso, chi ricco, chi noto, chi semplicemente vuole essere letto.
Clara cosa desidera dal suo futuro di scrittrice?

Ho cominciato a scrivere da adulta, come dicevo rispondendo alla prima domanda. Ho sentito la scrittura come un bisogno, ho desiderato scrivere della mia vita, per me sola. Mi sono diplomata alla Scuola Triennale della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari e ho scritto la mia autobiografia che è riposta nel mio cassetto segreto, in attesa non so bene di cosa.
Intanto scrivo.
È stato pubblicando Bianca come l’Africa che mi sono accorta del mio ruolo di scrittrice. Non mi pongo un obiettivo particolare, non sicuramente quello di diventare famosa o ricca. Forse è il desiderio di essere letta, la gratificazione di un “riconoscimento” dei temi che affronto, unitamente alla capacità di una buona scrittura, ciò che mi aspetto dal mio futuro di scrittrice, se un futuro ci sarà.

  

clara2Vorrei tornare per un attimo ancora all’Etiopia e chiederti di raccontarci dell’Africa dal tuo punto di vista femminile per mostrarci ciò che hai visto: come vive la popolazione etiope, qual è il ruolo delle donne e quali sono le difficoltà che le persone devono superare ogni giorno. Non quello che ci raccontano i media, ma ciò che veramente è!

 Cercherò di essere breve e puntualizzare ciò che mi hai chiesto, perché l’argomento è molto vasto e complesso. Sono rientrata nel 2006 dall’Etiopia dove ho trascorso sette anni come docente alla Scuola Italiana di Addis Abeba. Ci sono ritornata per più di un mese nel 2010 e nel 2015. Ti parlerò un poco dell’Etiopia che ho amato. I viaggi in altri Paesi africani fatti per turismo per me non fanno testo. L’Etiopia, quando sono arrivata era, nelle statistiche, il penultimo paese fra i più poveri del mondo. La capitale era un insieme di villaggi separati da rigagnoli d’acqua putrida, un paio di quartieri con edifici in stile fascista, retaggio della nostra colonizzazione (Piassa, deformazione di Piazza perché manca in amarico la esse, Casancis, deformazione di Case Incis, gli edifici destinati agli italiani), poi la grande zona di Mercato dove potevi perderti e non era molto sicuro inoltrarti da solo, poi le nostre ville, intendo quelle dei bianchi. Nonostante la povertà estrema l’Etiopia era ed è ancora il più grande mercato dell’Africa orientale e ospita tuttora almeno duecento rappresentanze di Paesi stranieri, fra Ambasciate, Consolati e Organizzazioni Internazionali. La vita dei bianchi era a stretto contatto con la popolazione. Accanto alle nostre confortevoli abitazioni, le abitazioni o le capanne fatiscenti. La mucca dei vicini veniva a mangiarsi le mie calle che il guardiano si ostinava a piantare fuori del muro di cinta. A me stava bene così! Ero contenta. Altri bianche erano perennemente scontenti e nervosi. Ritengo che l’emarginazione sia un terreno in cui può attecchire il germe della violenza. La vicinanza crea rapporti di rispetto per l’altro, nonostante le differenze.
Oggi Addis Abeba è un grande cantiere. Palazzi sorgono come funghi senza regole e soprattutto senza alcuna misura di sicurezza per i lavoratori.
Si parla di grande ripresa economica.
Nessuno sa che dall’ottobre 2016 il governo ha dichiarato lo stato di emergenza, ancora in atto, in seguito alle proteste della popolazione Oromo che si vedeva sottrarre le terre da coltivare, date alle multinazionali straniere. Cina e Arabia Saudita in primis. Ci sono state centinaia di morti. Coprifuoco e isolamento dei social e delle linee telefoniche.
Ti allego un brano di un articolo del Corriere della Sera del 24 agosto 2016 che fa capire come siano scoppiate le rivolte dopo il gesto del maratoneta etiope che ha vinto la medaglia d’argento.
Non è tornato da eroe. E neanche da nemico della patria. Mentre i suoi compagni atterravano in Etiopia, Feysa Lilesa è rimasto in Brasile. Non girerà per Addis Abeba mostrando la sua medaglia di argento. Perché la maratona più difficile, e non poteva non saperlo, Lilesa l’ha cominciata domenica arrivando sul traguardo di Rio, dopo due ore, nove minuti e rotti, con un gesto che nessuno a questi Giochi aveva osato compiere prima di lui. Un gesto di protesta politica. Alzando le braccia incrociate sopra la fronte, i pugni chiusi, gli occhi bassi. Il segno delle manette, che nelle strade di casa sua sono diventate il simbolo di una rivolta che negli ultimi mesi sta infiammando (nel silenzio internazionale) il Paese del miracolo economico africano (la cui stabilità è cara all’Occidente), la seconda nazione più popolosa del Continente con 95 milioni di abitanti e forti squilibri sociali che prendono la forma di tensioni etniche. «Il governo etiope sta uccidendo il mio popolo — ha detto il ventiseienne Lilesa dopo la gara —. Io sostengo la loro protesta, perché gli Oromo sono la mia gente. I miei familiari sono in prigione, se osano parlare di diritti e democrazia vengono uccisi. Se torno, rischio anch’io di essere ucciso. O di finire in carcere»”. 

Quando sono stata in Etiopia ho visto Addis Abeba così mutata da non riconoscere interi quartieri.
Nelle campagne nulla era mutato.
Come vive la popolazione? Vive per la sopravvivenza. Per procurarsi il cibo quotidiano con una agricoltura ancestrale.
Le donne? Forse un po’ di emancipazione è arrivata, sicuramente nella capitale. L’emancipazione delle donne passa solo e necessariamente attraverso l’istruzione.
Le donne sono di una bellezza incantevole. Fanno i lavori più umili e pesanti. Dipendono direttamente dal marito. Partoriscono numerosissimi figli. Non hanno alcun diritto. Mancano di istruzione, soprattutto nelle campagne. Ti si avvicinano con grazia se tu sorridi loro. È un popolo mite quello etiope. Un popolo di sorrisi e silenzi.
Nei racconti di Bianca come l’Africa faccio spesso riferimento a figure di donne, alla loro vita.
Ti allego un post del Concorso Lingua Madre che affronta un tema difficile e lo fa con rispetto verso le bambine.

Oggi, 6 febbraio, si celebra la Giornata Mondiale contro le Mutilazioni Genitali Femminili, istituita dalle Nazioni Unite quale giornata di riflessione internazionale per l’eliminazione in tutto il mondo di queste violente pratiche.

Anche il #Clinguamadre si unisce e lo ricorda con la fotografia “Ababa – fiore” di Clara Piacentini, selezionata per il Premio Fondazione Sandretto Re Rebaudengo del X CL.
Quello delle mutilazioni genitali femminili è un tema scottante che ho visto affrontato spesso con violenza verbale, pruderie e morbosa curiosità. E ciò mi indigna.
È una pratica, quella delle mutilazioni, che continua nonostante da anni sia vietata legalmente. È ovviamente una pratica tremenda che spero scompaia già con le piccole generazioni del presente.
Nel film “Mouladé” il regista Sembène Ousmane affronta il tema con forza e delicatezza nella sua aperta denuncia. Ribadisce che solo l’informazione può sollevare le donne dall’essere vittime indifese e offrire loro l’opportunità di essere in grado di spezzare una cruenta tradizione.
Ho postato su Facebook un filmato che finalmente circolerà nelle scuole, un filmato a difesa delle bambine, in cui si parla della consapevolezza e dei diritti delle donne.
Ci sono due bambine in Etiopia, ora ragazzine, figlie della fisioterapista mia e di una mia amica. Sono un po’ figlie nostre. Supportiamo i loro studi. La più grande è stata ammessa all’Università. Diventeranno, spero, donne indipendenti e consapevoli dei loro diritti. Non mi piace parlare di questo. Non è un grande merito. Non mi piace l’atteggiamento buonista di tanti occidentali. Si sentono buoni perché portano doni o aprono una scuolina e si mettono in mostra. Forse non se ne rendono conto “Loro”, intendo gli Africani, i bimbi soprattutto, non ci devono alcun “grazie”. Siamo noi che lo dobbiamo a loro, per il loro sorriso, la loro ingenuità, la loro povertà che dipende in gran parte dalla nostra ricchezza.

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FOTO ABABA-FIORE di Clara Piacentini

Molto commovente, Clara, a volte siamo sordi e ciechi davanti a certe realtà e credo faccia bene a tutti ricordarci quanto siamo fortunati rispetto ad altri popoli, ad altre donne, uomini e bambini.
Mi hai chiesto di accorciare, se ti fossi dilungata, ma credo fermamente che non si possa cancellare neanche una sola parola di ciò che ci hai trasmesso con così tanto calore.
Veniamo ora a Bianca come l’Africa, a cui hai già accennato. Sono racconti che contengono tanto di ciò che hai vissuto, sono storie di una intensità disarmante. Ricordo, quando li lessi, provai davvero le sensazioni che descrivevi e per me, che non ho mai visitato l’Africa, è stato come essere lì, viverla, amarla, sentire il dolore di quel distacco.
Sono storie tue, dove c’è la tua vita.
Bianca come l’Africa è una denuncia a ciò che molti di noi non hanno vissuto e non vivranno mai. È il manifesto pubblico di una società che tutti dovrebbero conoscere. È una libertà verso un mondo difficile, quello delle donne, delle bambine, che sopportano ancora condizioni per noi inaccettabili.
È questo Bianca come l’Africa? Cosa è per te?

Sì, Roberta, posso risponderti che Bianca come l’Africa è tutto questo. Ma non è una denuncia, potrei dire, in stile giornalistico o sociale. Solo a occhi attenti, come il tuo del resto, appare ciò che si legge tra le righe, mentre le storie dei singoli si dipanano tenuti insieme da un filo quasi invisibile che la protagonista, in questo caso addirittura la scrittrice che racconta, tiene fra le mani. C’è un racconto intitolato Requiem, dove a un certo punto nel narrare di un fatto tragico, interviene con forza un pensiero che è quasi un grido, una riflessione che esce d’impeto: “… quest’Africa forte di contrasti, di dolcezza e violenza, di sorrisi e pianti, in questi cieli esagerati di bellezza, in questo sole che magnifica e uccide la vita, in questi fiori rabbiosi di colore a coprire il capire, a confondere le menti. Africa piegata che nulla nega al potente e in sé soffoca la sofferenza antica e la vendetta acerba”.
Ci sono quadri descrittivi che, usando un’espressione forte, un ossimoro, potrei definire “apocalisse di bellezza”, altri che danno l’idea della distruzione di un Paese tanto amato.
Per finire, ma forse te l’ho già detto, l’Africa, o meglio l’Etiopia, ha il nome di nostalgia che dal greco significa “dolore del ritorno” e questa nostalgia è quasi impossibile da spiegare, è quella che ti fa muovere per un ritorno reale, come ho fatto più di una volta -ma la mia vita nel frattempo è cambiata-, è quella che ti attanaglia l’anima quando meno te lo aspetti, così in qualsiasi momento della giornata, mentre svolgi azioni apparentemente futili…

Devo ringraziarti, Clara, per le tue parole, per quelle di Bianca come l’Africa che invito tutti a leggere. Il tuo libro è un cuore aperto. È emozione pura. È amore per l’Etiopia e la sua gente. Sono racconti che, legati uno all’altro, formano un filo unico. Di parole cariche di tutto il peso che l’Africa porta con sé.
Altre due domande prima di salutarti.
La prima: qual è il racconto che ami di più e perché?
La seconda: tu sei diplomata alla Scuola Triennale della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, hai conseguito il titolo di Consulente in scrittura biografica ed autobiografica e conduci Seminari e Laboratori di scrittura. Ci racconti, in breve, cos’è la scrittura autobiografica e perché, secondo te, le persone hanno un così forte bisogno di parlare di sé?

Il racconto che amo di più è senza dubbio “La collina degli eucalipti” (viene subito dopo il prologo – che ho scritto per ultimo, stanca di sentirmi chiedere del Mal d’Africa). L’ho scritto senza il presentimento che avrei continuato con altri racconti fino a farne un libro. L’ho scritto in Etiopia. Perché lo amo? Perché esprime tutto: dice chi io sono, dice della terra e degli orizzonti infiniti che ti si aprono davanti agli occhi e che in Europa è impossibile vedere, dice di bambini e donne. Dice di un presagio. Sono tornata in Etiopia due anni fa. Tutto è cambiato. La collina degli eucalipti no. È la stessa, troppo in alto e lontana dalla città non è ancora stata soffocata da una speculazione edilizia scriteriata e ladra.

Per rispondere alla seconda domanda e dirti in breve cos’è la scrittura autobiografica ti rimando a una citazione, tratta da un libro del filosofo Duccio Demetrio, mio maestro dell’età matura: “Arriva un momento nell’età adulta in cui si avverte il desiderio di raccontare la propria storia di vita. Per fare un po’ d’ordine dentro di sé e capire il presente, per ritrovare emozioni perdute e sapere come si è diventati, chi dobbiamo ringraziare o dimenticare. Quando questo bisogno ci sorprende, il racconto di quel che abbiamo fatto, amato, sofferto, inizia a prendere forma. Diventa scrittura di sé e alimenta l’esaltante passione di voler lasciare traccia di noi a chi verrà dopo o ci sarà accanto.” (da: Duccio Demetrio “Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé”, Raffaello Cortina Editore).

Se si ripercorre la storia della letteratura possiamo vedere che la scrittura autobiografica è stata praticata dall’antichità, attraverso i secoli, sono tantissimi gli scrittori e le scrittrici che hanno detto della propria vita. Ti cito solo Marco Aurelio, Sant’Agostino, Rousseau, per arrivare con un salto temporale di secoli a Simone De Beauvoir, Marguerite Yourcenar, Daniel Pennac e alla scrittrice ultima di questo periodo che è Annie Ernaux.
Le persone hanno bisogno di parlare di sé e credo sia per un desiderio di riconoscimento. Ma il parlare, scusa la pedanteria, resta vano. È la scrittura che ci porta alla riflessione sulla propria vita, al recupero delle memorie, al prendersi cura. La scrittura di sé costituisce inoltre una modalità di cura alla quale donne e uomini ricorrono per oltrepassare momenti difficili, di fragilità della propria esistenza. Non vi è età della vita che non si avvalga della scrittura per raccontare un po’ di sé e per imparare a guardare nelle proprie pagine le occasioni di sollevarsi dal disagio.
Quante volte abbiamo scritto di noi! Nelle pagine di un diario, in una lettera, oggi in una mail, in un appunto, persino nella nota della spesa!
Non credo a coloro che scrivono negando che nella scrittura, seppure di finzione, ci sia qualcosa di sé, del proprio vissuto. Non possiamo scrivere del mare se non l’abbiamo conosciuto, anche indirettamente, così come non possiamo scrivere d’amore, per esempio, di un amore vissuto o solo desiderato, sognato o immaginato.
E con questo, cara Roberta, mi fermo, altrimenti correrei il rischio di tenere una lezione di un paio d’ore almeno!

 

Grazie Clara, dal più profondo del cuore; ascoltare i tuoi racconti di vita costringe chi ti ascolta a fermare il mondo in cui vive per immaginare ciò che scaturisce dalle tue parole.
Io ti conosco anche personalmente e quello che traspare da questa intervista è la bellezza di ciò che tu sei.
Vi invito a leggere Bianca come l’Africa, gustandolo a piccole dosi, nel silenzio di un salotto e in compagnia di una tazza di tè o caffè, come abbiamo fatto noi oggi, perché la lettura dei suoi spaccati di vita vi trasporterà altrove, in un mondo diverso, dove palpitano altri cuori come i nostri e la vita è meno facile. Vi resterà dentro e forse proverete anche voi il “dolore del ritorno”.

Ringrazio i nostri lettori e li invito al prossimo appuntamento con L’ora del tè.

L’ora del tè, quando i ruoli si invertono: Ilaria Vitali intervista Roberta Marcaccio

Mancano dieci minuti alle cinque, Roberta è qui di fronte a me, tamburella nervosa con le dita sul bracciolo della poltrona, facendo tintinnare braccialetti e pendagli, fissandomi silenziosa da dietro gli occhiali, a metà tra il divertito e il preoccupato.
Sono Ilaria Vitali, mi sono impossessata del salotto di Roberta Marcaccio e ho uno scopo preciso: intervistarla.
«Ma sei sicura?» mi chiede in un soffio.
«Zitta, le domande le faccio io!»
Ride Roberta, non mi prende sul serio e la sua risata per un attimo mi travolge piacevolmente.

Roberta, prima o poi sapevi che sarebbe successo. Adesso tocca a te, siediti comoda, smetti per favore di tintinnare quel braccialetto e rilassati. Ho già preparato il tuo tè preferito e una fetta di crostata di ciliegie. Qui c’è gente che aspetta, vogliamo cominciare?
Sono comoda, ma guardare le cose da questa diversa angolatura mi crea un po’ d’ansia. Di solito le domande le faccio io. E poi vorrei sapere chi ti ha suggerito qual è il mio tè preferito e che amo la crostata di ciliegie. Vabbè, pazienza, visto che i lettori sono interessati ad altro iniziamo pure. Sono pronta!

cropped-Roberta-2.jpgRoberta Marcaccio, lavoratrice indefessa, moglie e mamma, figlia e nipote, scrittrice prolifica, lettrice affamata, la domanda sorge spontanea: come fai a conciliare una vita così frenetica? Ho come la sensazione che la scrittura e la lettura rappresentino questa stanza, dove tu riesci a isolarti mentre fuori il mondo cammina a velocità sostenuta. L’ora del tè non è casuale, è il luogo che tu hai creato, un rifugio morbido dove Roberta trova serenità. Vuoi parlarcene?
Guardandola da fuori, la mia vita, è davvero come la descrivi tu, ma fino ad ora non l’avevo mai analizzata. In effetti me lo sento ripetere spessissimo: “Ma dove trovi il tempo per scrivere?” Negli occhi di chi mi fa questa domanda leggo il rispetto del mio interlocutore nei confronti di un amore che è ormai molto più grande di quanto io riesca a gestirlo. È diventato anche il “tormentone” del mio BLOG – Il mio amore per la scrittura – è il mio mantra, è una urgenza che mi costringe a scrivere, perché quando ami una cosa o una persona con tutto te stesso vuoi stare o solo con quella cosa o con quella persona. Devo dire la verità, a volte vado in overflow, succede quando ho “in lavorazione” più attività di quelle che riesco a gestire; in questo ultimo periodo ho superato il limite di guardia, tanto che ho dovuto rallentare: mi sono ritrovata con un romanzo in scrittura, la rubrica de L’ora del tè a pieno ritmo, i libri da leggere (perché gli scrittori prima di scrivere leggono) più i manoscritti da selezionare per la collana di cui sono lettrice, le presentazioni di Tranne il colore degli occhi (quattro in due mesi), i racconti che ogni tanto ho l’orgoglio di vedere pubblicati su Il Colophon, la rivista letteraria di Antonio Tombolini Editore… Però, anche quando rallento, il mio cuore è sempre là, la testa macina storie, il bisogno di scrivere si fa urgenza e, in un modo o nell’altro, devo immergere le mani nelle pagine dei libri, miei o di altri.
L’ora del tè, che come dicevo ha subìto un rallentamento forzato ma ripartirà presto con nuovi e interessanti scrittori, è la rubrica nata per dare voce agli altri autori, farli conoscere in un modo semplice e simpatico, simulando una chiacchierata in salotto all’ora del tè. Mi piace il rapporto vivo, quello vero, a faccia a faccia, mentre si parla di libri, scrittura e arte in genere. E volevo che il mondo caotico venisse confinato fuori da questo piccolo angolo silenzioso in cui regna sovrana la parola scritta e la voce dell’autore. Spero di essere riuscita nel mio intento e mi auguro che la rubrica sia apprezzata.
Devo dire che grazie ai tanti impegni e soprattutto a L’ora del tè, ho imparato ad organizzarmi. A dedicare il tempo giusto alle cose. A fare la scaletta delle priorità e a riempire fogli e fogli di TO DO che si alleggeriscono mano a mano che tiro una riga sopra alle cose fatte. Non sono una super-woman. Sono semplicemente una che sacrifica tutti i momenti liberi per amore di una cosa importante in cui crede: le pause pranzo, la mattina presto e la sera tardi e qualche mezza giornata nei week end. In mezzo a tutto il resto, ovviamente.

La scrittura, potente mezzo di comunicazione prima con sé stessi che con gli altri. Perché questa urgenza di scrivere? Io da scrittrice me lo sono chiesto mille volte senza darmi una risposta soddisfacente. Quando scrivi, cosa succede?
L’urgenza di scrivere nasce da un bisogno interiore: raccontare storie è come vivere altre vite. Da piccola me le raccontavo da sola, erano il mio passatempo nei momenti di solitudine, mi facevano compagnia. Raccontare storie è ossigeno, cibo, vino, è vita. Ora che sono grande (così dice l’anagrafe!) quelle storie che mi racconto da sola, premono affinché io le scriva per gli altri.
Scrivere (e leggere) è come vivere centinaia, migliaia di altre vite, quelle che non potremo vivere mai.

10423644_990163001033578_6127305744714367041_nIo ho conosciuto Anna. Ancora una donna, coinvolta da eventi profondi, di quelli che lasciano il segno. Anna è la protagonista del tuo prossimo libro in uscita, Ti raggiungo in Pakistan, che ha già solleticato la curiosità di chi, come me, segue le tue avventure letterarie. Chi è Anna?

Innanzi tutto devo spiegare una cosa che riguarda Anna. Devo chiarire la confusione che ho involontariamente creato sui social. Chi mi segue su Facebook, Twitter, trova citazioni, estratti, brani, monologhi firmati Anna. Con gli amici ho parlato tanto del romanzo che stavo scrivendo facendo riferimento ad Anna. E per tutti, è Anna.
Quando accenno a Ti raggiungo in Pakistan noto il disorientamento negli occhi dei miei interlocutori e più volte mi sono sentita chiedere: “E Anna? Quando lo pubblichi?”
La risposta è facile: Ti raggiungo in Pakistan è Anna.
E così spero di avere chiarito il fraintendimento che ho provocato.
Ed ora veniamo a lei.
Anna è uno specchio, la proiezione della mia anima ribelle e in subbuglio. A lei ho trasferito tre cose che mi appartengono e che sono parte predominante della mia vita: l’amore per la scrittura, per il mare e l’amicizia.
Anna è parte della mia essenza primaria.
Contiene le cose che amo, le mie passioni, i sogni, tutto ciò che fa parte di me e del mio mondo.
Ovviamente non contiene i dettagli della mia vita privata. Non è un’autobiografia.

Possiamo quindi ritornare a quello che affermavi poc’anzi sull’urgenza di scrivere come esperienza di viaggio e di vivere altre vite. Anna è una Roberta in un ipotetico mondo parallelo? Se sì, il fatto che sia privo di elementi autobiografici, Ti raggiungo in Pakistan si presenta più come un sogno a occhi aperti? E qui tocchiamo il tuo modo particolare di accompagnare i personaggi delle storie che scrivi, un modo che definirei al confine tra il materno e il fraterno, dove a tratti si percepisce la forte empatia con alcuni di essi. Con Anna è stato così? In parte hai già risposto, ma vorrei che parlassi del tuo legame con lei.
L’urgenza di scrivere nasce dalla mia incapacità di vivere una sola vita. È un bisogno che è nato con me, si è sviluppato fin da piccola, durante la lettura dei primi libri o la visione dei miei film preferiti (non ho perso neanche una puntata di Ellery Queen oltre ad aver letto i libri ovviamente). Dall’adolescenza in poi le storie ho iniziato a raccontarmele da sola. Erano il mio passatempo. Un vero sogno ad occhi aperti. Da qui l’esigenza di trasportarmi in un altro mondo in cui vivere una vita diversa, irreale e reale allo stesso tempo.
La scrittura ha amplificato un processo nato con la lettura, che continua ancora oggi.
L’amore per i libri va oltre ogni altra passione. Il bisogno di fantasticare, sognare è irrefrenabile. Potrei smettere di leggere e scrivere ma la mia anima continuerebbe a produrre storie.
Per nutrirsi.
Non c’è nulla di autobiografico nelle storie che invento.
Che bisogno avrei di scrivere la mia vita; la sto già vivendo ed è più che sufficiente.
Certo, nei racconti ci finiscono situazioni, persone ed emozioni che mi ruotano attorno. Questo è normale.
Se qualcuno pensa che ciò che scrive un autore sia completamente inventato si sbaglia di grosso. Anzi, vorrei mettere in guardia gli amici degli scrittori: prima o poi potreste essere rinchiusi in un capitolo.
E il sogno a occhi aperti di cui parli, oggi è un sogno reale. È quello stato di trance che caratterizza gli scrittori e che a volte li fa apparire assenti e un po’ folli. Quando lo scrittore è con lo sguardo perso nel vuoto o assorto, non sta riposando, non è depresso e nemmeno triste: sta semplicemente lavorando.
Ti rispondo alla seconda parte della domanda. Parlare di Anna per me non è facile. È un personaggio che io amo profondamente, sono cinque anni che vive con me, al mio fianco, la osservo mentre lavora, vive, soffre. Mentre ama.
Come ho già detto, a lei ho trasferito alcune mie manie o passioni ma anche alcuni moti della mia anima. In effetti forse le ho trasferito un po’ troppe cose.
Devo dire che mi sono divertita a cucirle addosso la vita che desiderava vivere. A farle incontrare gli uomini sbagliati e poi quelli giusti o viceversa. A farle fare il lavoro che amava. Ad affiancarle l’amica giusta.
È stata Anna a parlarmi e a raccontarmi di sé. Io ho solo trascritto sulla carta.
Io sono stata il suo specchio… e lei il mio.

IMG-20160718-WA0017Tranne il colore degli occhi è uscito nel 2016 nella collana Amaranta di Antonio Tombolini Editore, per Ti raggiungo in Pakistan hai scelto una nuova avventura che è quella dell’auto pubblicazione. Da fuori emerge una volontà quasi viscerale di fare in modo che Anna abbia voce, quasi che fosse un elemento materico che hai deciso di plasmare dall’inizio alla fine senza percorrere strade più convenzionali. Ce ne vuoi parlare?
Ho riflettuto tanto sul futuro di Anna, per molti mesi, ho pensato e ripensato a quale dovesse essere il suo ruolo e soprattutto chi dovesse occuparsi di lei. Anna ha incontrato diversi editori, ha ricevuto critiche positive e suscitato interesse.
È nata nel 2012 e da allora ha subito diverse fasi di lavorazione; l’ho scritta, riscritta, corretta, riletta, anche quando era già a posto è ripassata di nuovo sotto la macchina dell’editing. In un attimo di follia avevo addirittura pensato di riscrivere il finale. Anna è nata di getto, è giunta a me con la forza di uno tsunami, mi ha travolta con la sua potenza e con la stessa urgenza mi ha costretta a scrivere di lei.
È dentro di me in modo inscindibile.
Chi mi conosce bene sa cosa intendo. L’energia che mi trasmette è vita piena, vera. Ha una forza che non può non essere comunicata.
Anna merita voce. Merita di essere conosciuta, letta, amata o odiata, apprezzata o disprezzata. Merita di essere accompagnata, presentata, annunciata.Mi aspetto commenti positivi ma anche negativi. Questo non toglie che Anna lascerà qualcosa di sé in tutti.
Con questa consapevolezza mi sono fatta le mille domande che un autore si fa prima di consegnare la sua opera a una casa editrice.
Non sarà sicuramente il libro della vita o il bestseller dell’anno ma merita le attenzioni che vale.
Dopo queste riflessioni mi sono risposta.
L’unica persona che può presentarla al mondo è colei che l’ha creata, plasmata, educata, cresciuta.
Non c’è nessun altro che possa offrirle la vetrina che merita. E da qui la decisione, difficile e ragionata mille volte, di produrla da sola. La paura è di non farcela, non avere tempo sufficiente, non essere capace. Confido nella passione che mi muove e nell’amore che ho per lei.
Anna è una storia di passione, amore, amicizia, vita, sogni. Ha la profondità del mare, lo stesso che lei ama, e spero non venga trattata per una banale storia d’amore.
Aggiungo che il prodotto finito è il risultato di un lavoro a più mani. Ho voluto curare Anna in tutto e per tutto: l’editing, la copertina, tutta la grafica e la produzione del libro sono stati realizzati da Carla Casazza e Carlo Alberto Civolani, miei carissimi amici oltre che grandi professionisti.

 

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Roberta, a questo punto non ci rimane che attendere l’uscita di Ti raggiungo in Pakistan, ma vorrei chiudere questa intensa chiacchierata con un’ultima domanda.
Al di là di quello che hai detto prima riguardo al fatto che Anna rappresenti la proiezione della tua anima, i personaggi delle tue storie sono sempre donne. Perché l’universo femminile?
Ad essere sincera un motivo preciso non c’è, è una cosa avvenuta per caso. La risposta facile sarebbe: “perché l’universo femminile mi appartiene”, ma non è così.
Ti racconto una cosa successa durante una presentazione del mio romanzo Tranne il colore degli occhi, che forse può aiutarci a spiegare questo fenomeno. Una ragazza in sala mi ha fatto una domanda che nessuno mi aveva mai posto e quella sua riflessione è stata come uno “squarcio di luce in mezzo a tante nubi” (cit). Tutto quello che ho scritto fino a ora, è il risultato di un percorso preciso di cui non ero cosciente. La scrittura parte sempre da un’idea che poi la fantasia sviluppa. Ed è stata proprio la mia fantasia a portarmi nel luogo giusto, quello dell’anima delle donne.
La ragazza che ha provocato quella riflessione è parte di questo percorso. È l’anello di congiunzione di tanti tasselli di cui, fino a quel momento, non comprendevo il significato.
Nei giorni successivi a quella presentazione ho messo assieme le tessere del puzzle e ho capito quale scrittrice voglio essere da grande. È la strada avviata con Tranne il colore degli occhi, che proseguirà con Ti raggiungo in Pakistan e che definirà il mio genere: letteratura femminile. Non romance, non eros, ma femminile.
Storie dal contenuto scomodo. Storie di donne che parlano alle donne, ma anche storie di uomini con a fianco grandi donne.
Spero di non essere travolta dalle critiche maschili, il mio intento non è sminuire il mondo degli uomini, ma trovare nell’anima delle donne la ricetta per crescere, riflettere, fare propri certi sentimenti ed emozioni che possano rendere meno difficile vivere. Indipendentemente dal sesso.

Direi che abbiamo finito e che puoi riprendere le redini de L’ora del tè. Non senza prima avermi versato un Martini Rosso! Suerte!

Ma potrò brindare con una che beve Martini Rosso? Mi verso una Saison! Prosit!

Ringrazio Ilaria Vitali per la splendida e ironica intervista. Oltre a essere una bravissima scrittrice Ilaria è anche mia grande amica, una delle poche persone al mondo che appartengono per motivi inspiegabili e stregoneschi alla mia anima. Vi aspetto alla prossima puntata de L’ora del tè.

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Caterina Ferraresi

Quando scrissi a Caterina per invitarla a L’ora del tè non sapevo che avrei incontrato una splendida protagonista dell’universo femminile. Ironica, profonda e dolce sono, a mio avviso, i tre aggettivi che la rappresentano meglio.
Ce la siamo presa comoda, io e Caterina, abbiamo chiacchierato a lungo e quella che vi proponiamo è la sintesi di un pomeriggio trascorso assieme. L’incontro con Caterina ha in sé qualcosa di magico, contiene quel pizzico di meraviglia che ti fa dire: “Nulla accade per caso”.
Caterina s’innamora dei libri quando aveva cinque anni. “Avevo cinque anni e mio nonno ci leggeva la storia – a me e alla nonna- seduto a gambe incrociate su un gradino della scaletta che portava all’orto. C’era sempre qualche gatto che girava lì attorno e a volte si sedevano ad ascoltare, incantati.”
A quindici anni, grazie a un libro di Freud, viene a contatto con quello che poi diventerà il suo mestiere: la psichiatria.
Lasciamo che fra poco sia lei a raccontarsi. Intanto cito alcune delle sue pubblicazioni: Il lupo sotto il mantello, scritto con Marco Mazzoli ed edito da Ponte vecchio, vincitore del Premio Tobino 1997; Lo gnomo della biblioteca scritto con Danilo Di Diodoro edito da Moby Dyck; nel 2013 vince il premio ‘miglior incipit’ al torneo letterario Ioscrittore, con il romanzo Domani è un altro giorno edito in ebook; nel 2014 pubblica il libro per bambini Naso di cane edizioni Einaudi e, infine, nel gennaio 2017 il saggio L’elogio del barista Corbaccio Editore.

Io direi di cominciare la nostra intervista. Noi siamo pronte, voi?

 

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Caterina, benvenuta nel mio salotto. Cosa posso offrirti? Tè, caffè, biscotti, crostata?
Caffè, grazie, con un po’ di zucchero e niente biscotti: non mi piacciono i dolci! Invidia, eh?!

 

Invidiosissima ovviamente! Iniziamo la nostra chiacchierata?
Molto volentieri!

 

A che età hai iniziato a scrivere?
Ho sempre scritto, credo. Quando ero piccola inventavo delle storie e le raccontavo ai miei gatti.  Ho avuto lì le mie prime stroncature perché i gatti, o se ne andavano dopo pochi minuti, o mi sbadigliavano in faccia e si addormentavano. Ero un’artista, come tutti i bambini che sono scrittori pittori e musicisti, prima che i grandi li “educhino”.

 

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Scrivo solo di mattina perché- dopo mezzogiorno- il mio cervello si scollega. Scrivo a casa, alla mia scrivania, con un caffè e la radio accesa. Ascolto notizie di economia perché mi rilassano, sono come un rumore di fondo.  Ѐ stato durante la correzione del mio ultimo libro che ho imparato tutto sul bail-in.

 

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
Le mie storie sono ambientate in interni. Dentro le case e dentro i cervelli. Non ho tanta attenzione al fuori: questo è un mio limite. E per questo motivo inciampo continuamente e ho sempre qualche livido sui gomiti o sulle ginocchia.

 

Il libro più bello che hai letto?
Che domanda difficilllissssima. Con la pistola alla tempia “Cent’anni di solitudine”. La Colombia è un posto che voglio visitare: voglio vedere Macondo e non mi importa che sia un luogo immaginario, andrò a cercarlo e lo troverò.

 

Il luogo più strano in cui scrivi?
Non scrivo in posti strani, se mi viene in mente una frase o una parola che non voglio perdere, mi fermo e la scrivo su un pezzo di carta, quello che trovo. So che dovrei portarmi dietro un blocchetto e me lo sono ripromessa un sacco di volte ma mi sono arresa ai miei limiti. Ho biglietti del treno e scontrini della coop con su scarabocchiate frasi dal significato misterioso.

 

Allora, Caterincate3a, con te vorrei cominciare dalla fine, non so perché ma sento di dover partire dal disordine. Mi viene così. È come un istinto primordiale che mi costringe a partire da dentro, dal tuo “interno”, per vedere cosa c’è “fuori”.
Come prima cosa ti chiedo cosa ti ha spinto a scegliere il mestiere che fai (dicci tu di cosa si tratta, in parte l’ho già anticipato nella mia introduzione) e cosa ti costringe, oggi, ad alternare la tua professionalità quotidiana con la passione per la scrittura. Parlo di costrizione, perché scrivere, molto spesso, è un atto che facciamo non di nostra volontà, una sorta di forza che nasce da dentro, alla quale è difficile ribellarsi.
A volte mi chiedo se sia giusto o meno assecondarla e quanto deve esserci di noi, nel momento in cui scriviamo, oppure sia il nostro Personaggio Interiore a guidarci, indicando quale sia il percorso migliore da seguire.
Non so se ho scelto il mio lavoro di psichiatra e psicoterapeuta. Allora ero giovane, un po’ bizzarra, la psichiatria era rivoluzionaria. La psichiatria è un osservatorio privilegiato per i voyeur dell’anima e io sono sempre stata un’impicciona delle storie altrui. Quello che ho sempre fatto, in ogni momento, è stato tradurre in racconto le cose che vedo o che ascolto. Anche adesso non so se sono un bravo medico: ascolto storie, modifico la punteggiatura, aggiungo ipotesi, tolgo qualcosa e qualcosa aggiungo finché la storia clinica del mio paziente diventa un racconto condiviso a due voci. Scrivere non è molto diverso da questo, scrivo perché, da poco tempo, ho trovato il coraggio di raccontare le mie storie e non solo quelle degli altri. E poi scrivo perché, sennò, divento nervosa, strapazzo gli idraulici e i giardinieri: quando mi rendo conto che la mia inquietudine sta diventando eccessiva mi metto davanti al PC e scrivo. Ѐ il momento in cui tutte le cose trovano il loro posto giusto nel mondo.

 

È anche il momento in cui le cose trovano il giusto posto nella nostra anima, non è vero? È molto interessante il tuo parallelismo fra le storie reali, di coloro che tu accogli e ascolti, e quelle di fantasia che inventi togliendole da dentro di te e condividendole con coloro che poi le leggeranno.
Come definiresti le storie che scrivi? Di che colore sono (e perché)?
E poi ho paura di chiederti da dove attingi i tuoi personaggi…
Vale per me come per tutti quelli che scrivono: io sono i miei personaggi, anche quando il protagonista – come nel libro per bambini ”Naso di cane”- è un cane. Io sono le paure di un cane, la sua lotta tra l’istinto di uccidere e l’istinto- ugualmente forte- di salvare cinque gattini in difficoltà. Se scrivessi gialli sarei la vittima e l’assassino, se scrivessi un triangolo amoroso sarei l’amato, l’amante, il tradito e il traditore. Certo la realtà mi dà spunti, il mio lavoro mi dà spunti…i libri sono lì, fuori e dentro, già tutti scritti: basta ascoltare, annusare e soprattutto rubare. Ecco, credo che uno scrittore sia questo, più di tutto: un bravo ladro. Però io non sono una scrittrice, non ancora, sono una che scrive. Ma spero di diventarlo prima o poi, è da sempre che voglio questo.
Di che colore sono le mie storie? Be’, guarda, c’è un colore che detesto tra tutti: il fucsia. Lo trovo sfacciato, arrogante, eccessivo e volgare eppure, a mia insaputa! bada bene, mi ritrovo a possedere un’enorme borsa fucsia, una sciarpa dello stesso colore e anche un orribile paio di sandali. Allora, forse, le storie che scrivo sono di quel colore. Anche un po’ giallo scuro, un colore che associo a una blanda cattiveria. In passato il giallo era considerato sconveniente per una donna, segno di poca serietà. E, perciò, viva il giallo!

 

La tua bella risposta mi  costringe a fare alcune riflessioni!
Intanto mi piace tantissimo il tuo altalenare tra i personaggi. Per chi scrive è fondamentale poter raccogliere e vivere le emozioni e le sensazioni dei soggetti che si muovono all’interno della storia. Altrimenti la narrazione sarebbe piatta e spenta. Senza cuore. E rubare è lecito in questo caso, l’importante è non rivelare al malcapitato ciò che abbiamo sottratto: una caratteristica fisica, un tratto caratteriale, il dettaglio di un abito oppure un pezzo di storia (a me è capitato anche questo).
Sono d’accordo sulla tua definizione “…non sono una scrittrice, non ancora, sono una che scrive. Ma spero di diventarlo prima o poi, è da sempre che voglio questo”. Mi hanno rivolto proprio ieri questa domanda: “Ti consideri una scrittrice?” Mi piace quando me lo chiedono perché ho l’occasione per dire quello che penso. Mi sento in sintonia con la tua affermazione. Scrivere è un amore e penso che scriverei in ogni caso, anche se nessuno mi leggesse.
Ma proprio qui nasce la mia curiosità. Io che scrivo un libro sono sicuramente l’autrice di quel libro ma non per forza sono una scrittrice o per lo meno ancora non mi considero tale. Credo che sia così anche per te.
Cosa serve allora ad un “autore” per diventare anche “scrittore”? Maggiore visibilità e fama? Un certo numero di libri pubblicati? Almeno 5000 copie vendute? Recensioni positive? Un piazzamento nei primi posti della classifica Amazon?
Secondo te, quando un autore può definirsi scrittore?
C’è un altro lato della medaglia. È più importante per un autore essere pubblicato o essere letto? Io una risposta ce l’ho, ma vorrei sentire cosa ne pensi tu.
A proposito! Il giallo è il mio colore preferito.
Allora essere uno scrittore o scrittrice (difficile liberarsi dall’uso del genere maschile, fa sembrare tutto più serio!) o essere qualcuno che scrive. Ci ho pensato e ho concluso questo, scrittore o scrittrice è un riconoscimento esterno. Non dipende da quanto vendi o quanti soldi guadagni, dipende dal fatto che, quando dici a qualcuno “Adesso non rispondo al telefono perché devo scrivere” la risposta non sia “Sì, però prima puoi passare in banca o alla posta o a far tosare il cane? ecc…” ma “Certo, naturalmente”. Perché, se fai caso, nessuno chiederebbe a un chirurgo di passare alle poste prima di un intervento, e nemmeno a un idraulico (anzi, meno che mai!) Sarò una scrittrice quando alla frase “Devo staccare il telefono ecc…” amici e parenti diranno “Certo, naturalmente”. Alla fine è il riconoscimento della dignità di lavoro a qualcosa che è anche un piacere e si sa, nella nostra mistica, il lavoro deve essere sempre un po’ spiacevole.
Comunque ci ho ripensato: quando potrò scrivere in pace e dire di essere una scrittrice, allora vorrò tornare a essere una che scrive. Perché essere libera da qualunque definizione credo sia il principio basilare della trasformazione, cioè della vita.
Essere pubblicati o letti? Ti rispondo con un pezzetto iniziale di La luna e sei soldi di quel genio di Maugham. “Ѐ una salutare disciplina riflettere sul gran numero di libri che si scrivono… lo scrittore dovrebbe cercare la ricompensa nel piacere della sua opera e, indifferente a ogni altra cosa, non curarsi… né del successo né della sconfitta.”

 

domaniVorrei invitare tutti coloro che scrivono (me compresa) a riflettere sul significato delle tue parole e a domandarsi perché hanno deciso di scrivere. Un minuto di silenzio e di raccoglimento su questa riflessione, intanto noi ci prepariamo un altro caffè.

Veniamo ora al tuo romanzo Domani è un altro giorno. Un libro con un titolo potente, una storia profonda. Devo dire che quando l’ho letto mi ha colpito molto. Carolina vive in ogni donna, non trovi?
Io ho una mia particolare convinzione sulle scelte che una persona fa (non succedono per caso) e questa mia convinzione è anche il filo conduttore del tuo romanzo.
Ma perché quel giorno Carolina ha posto al marito quella domanda che le ha stravolto la vita? C’era un motivo bel preciso? Doveva andare così?
Parlaci di Domani è un altro giorno, fatti pubblicità e convincici a leggerlo (io l’ho letto e lo consiglio a tutti ma vorrei sentirlo da te).
Carolina ha un nome troppo simile al mio, se lo scrivessi adesso lo cambierei! Carolina è una persona che vive in modo sommesso. Non sottomesso, ma sommesso. Cerca di fare poco rumore, di non dare troppo nell’occhio. Vive protetta dentro la sua bolla di sicurezza. Questa è una cosa che facciamo in molti: l’idea che il mondo, là fuori, sia un posto pericoloso. Ma c’è un momento in cui la voglia di verità prevale, come un prurito che non si può fare a meno di grattare, come un cerotto che bisogna strappare. Lei sa che chiedendo al marito se ha un’altra lui dirà di sì. Forse non è pronta a saperlo davvero, ma la verità ha una sua forza alla quale non si può sfuggire, se non al prezzo di ammalarsi. Di tristezza, di solitudine – quella vera – di vivere “come se”. Nel momento in cui si decide di uscire dalla propria bolla di sicurezza si scopre che fuori c’è un mondo pieno di possibilità, di fatica, di tutto. C’è una bella poesia di Neruda che recita” muore lentamente chi…” (non ricordo il titolo, dopo lo cerco). Questo libro vuole dire questo, che bisogna essere coraggiosi per vivere e non sopravvivere. È questo il senso di essere al mondo, credo: non smettere mai di essere vivi. Carolina ci prova e lo fa. Sarà più felice o meno, lasciando il suo buon marito, la sua vita protetta, le sue minime certezze? Io non lo so, ma credo che non ci sia altra scelta che questa.

 

9788867002221_lelogio_del_baristaEd ora è giusto il momento di dare spazio al tuo ultimo lavoro. Un saggio psicologico. L’elogio del barista. Bello il titolo, molto bello il libro. Devo dire che l’ho letto sperando che davvero tu mi convincessi che è meglio chiacchierare con il barista che con la psicologa, risparmiando magari soldi ed uscendo comunque dal bar con molte risposte alle mie domande. Per il momento resto dell’idea che preferisco chiacchierare con la mia Caterina tutti i mesi.
Parliamo de L’elogio del barista. Vorrei che ci raccontassi come è nata l’idea, cosa ti ha ispirato e, soprattutto, perché proprio il barista…

Il titolo è scherzoso, ma non del tutto. Il mio barista Flamingo aveva una saggezza antica, che – nel tempo di un caffè – sapeva consolarti l’anima. Ci sono molti “terapeuti” inconsapevoli in giro, persone con una bella energia, persone buone che con poche parole, o a volte con un silenzio affettuoso, ti curano. Ecco, io tengo in gran conto questi terapeuti, come tengo in grande conto gli aiutanti che troviamo nella vita: i libri, la musica…La vita è un lungo racconto corale, il mio barista aveva una voce limpida che raccontava la semplicità.

Questo libro non è propriamente un saggio, più una raccolta di pensieri, di osservazioni, di momenti di grande soddisfazione per una terapia andata bene, di attimi di frustrazione per una terapia che invece non si muove…potrei dire che ho voluto far vedere il terapeuta mentre lavora, chi è, cosa succede in quell’ora in cui il paziente si affida a noi. Il terapeuta dal buco della serratura, con le sue debolezze, la sua forza, i suoi tic. Un terapeuta persona che, insieme a voi, cerca di aggiungere significato al racconto della vostra e della sua vita.

 

Bene, Caterina, siamo giunte alla fine e devo dire che è stato molto interessante chiacchierare con te. Io ti saluto, ti ringrazio e nel frattempo consiglio a tutti i lettori di questa rubrica di leggere i libri di Caterina Ferraresi perché è una donna ironica, leggera e coinvolgente. E perché i suoi libri lasciano qualcosa dentro.
Sono stata assente per un po’ da questo salotto perché la mia vita privata mi ha sottratta ad alcuni piaceri come chiacchierare con gli autori, bere tè in ottima compagnia e parlare di libri che vale la pena di leggere.

Il prossimo appuntamento è per lunedì 12, salvo complicazioni, con una L’ora del tè un po’ insolita che vi consiglio di non perdere.

Nel frattempo buon inizio di settimana a tutti e  per questo primo lunedì di giugno io e Caterina vi regaliamo la poesia “Lentamente muore” e vi auguriamo una  splendida felicità.

 

Lentamente muore
chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle “i”
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti all’errore e ai sentimenti.

Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l’incertezza per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita, di fuggire ai consigli sensati.

Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso.

Muore lentamente chi distrugge l’amor proprio,
chi non si lascia aiutare
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore
chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.

Soltanto l’ardente pazienza
porterà al raggiungimento
di una splendida felicità.

 

 

 

 

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