L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Michele Marziani

Lo presento, ma il suo nome parla da sé. Michele Marziani – giornalista, scrittore, maestro di scrittura, editor, direttore editoriale di Antonio Tombolini Editore per il quale dirige anche la rivista Il Colophon – è nato a Rimini ma è cittadino del mondo. Ha vissuto in Romagna, in Piemonte e in Lombardia. Oggi vive in tre luoghi: a Rimini, a Dublino e sulle alpi piemontesi. Però se pensa a “casa”, pensa al Monte Rosa. Questa ce la faremo spiegare da lui!
Michele ha al suo attivo sette romanzi più una serie di libri di viaggi enogastronomici.
La scrittura non è il suo lavoro, ma la sua vita.
È un’emozione averlo qui con me, oggi, nel mio salotto. Prepariamo il tè e iniziamo subito la nostra chiacchierata.

Michele, benvenuto nel mio salotto e grazie per aver accettato il mio invito. Sono le cinque di mercoledì otto febbraio e stiamo per iniziare la nostra chiacchierata. Prima però ti chiedo cosa gradisci? Tè, caffè, infuso? Biscotti, crostata?
So che sarebbe l’ora del tè, ma prendo volentieri un caffè lungo, americano, senza zucchero e una fetta di crostata. Buona la marmellata di lamponi.

Fantastico! Se sei comodo, iniziamo con le cinque domande introduttive.
Comodissimo. Davvero onorato di essere qui.

A che età hai iniziato a scrivere?
A sei anni, più o meno. Quando ho imparato. All’inizio preferivo i fumetti. Poi la poesia. La narrativa è venuta dopo.

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Tazza di caffè sempre piena.

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
Dove vivono i miei personaggi.

Il libro più bello che hai letto?
Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline.

Il luogo più strano in cui scrivi?
L’angolo delle macchinette del caffè al piano interrato del Trinity College a Dublino.

10858434_795450307171516_6764053761804055060_nPer me non esiste altro. Una frase bellissima di Bernard Malamud (che prenderò in prestito!) a cui fai riferimento nella tua biografia. I libri, prima come lettura e poi come scrittura, permeano la tua vita da sempre. Ci racconti com’è iniziata questa passione così grande?
Chi ti conosce (ed io sono fortunata ad avere questo onore) percepisce in te l’amore smisurato per la parola scritta. Un amore che supera ogni altra passione. So che la domanda può sembrare sciocca ma vorrei che tu ci raccontassi perché hai deciso che da grande avresti fatto lo scrittore e se hai mai preso in considerazione un altro mestiere. Io personalmente ti vedo bene nei panni che indossi, ma per curiosità, ti sarebbe piaciuto fare, che ne so, l’astronauta, il giardiniere, il cuoco? In fondo hai scritto anche libri di ricette…
Guarda, io sono sempre stato affascinato dalla parola scritta perché mi indica qualcosa di nuovo, mi insegna qualcosa che non so. Se non so leggere e vedo un cartello blu con dentro una scritta bianca non so nulla, ma quando imparo a leggere ci leggo dentro “Milano” e allora imparo dove sono.
Ho sempre letto di tutto, da quando sono nato, compresi i bugiardini delle medicine e le istruzioni degli elettrodomestici, mi piacciono le parole scritte dentro la vita vera, come i cartelli stradali. Per questo sin da bambino sono stato un divoratore di fumetti. Nei fumetti c’è la parola scritta dentro alla vita disegnata. Li amavo. E amavo il disegno, non facevo altro che disegnare, ovunque, comprese le pareti della mia stanza (mio papà era un seguace convinto del pediatra Benjamin Spock). Questo avrei voluto fare: il fumettista. Però non mi riusciva, non riuscivo a far combaciare quello che avevo in testa con quello che disegnavo. Il segno grafico mi tradiva. E tutto questo è stato per me molto frustrante, per parecchi anni. Leggevo tantissimo, ho sempre letto tantissimo, oltre ai fumetti, libri di ogni tipo. Lo facevo perché ero spesso malato e la televisione non c’era e andavo sovente dai medici, finivo in ospedale e i libri, assieme, appunto, ai fumetti, mi facevano compagnia, mi permettevano di vivere vite più interessanti di quella di un ragazzino nella sala d’attesa di un ambulatorio.
Non ho capito subito che oltre a leggere potevo scrivere. Ho avuto la ventura di comporre delle poesie, come tutti gli adolescenti. Erano brutte. Poi una sera ho attaccato i versi tra loro e ho visto qualcosa che non avevo compreso prima: un racconto scritto sì da me, ma nato da solo. La mia scrittura è questo: lasciare spazio a cose che nascono per conto proprio. Certo, dopo un lungo lavoro di ricerca e di immedesimazione, anche, ma le parole prendono posto autonomamente e come le ritrovo mi piace. A differenza dei disegni: anche loro vengono da soli, ma non sono come li vorrei. Racconti e romanzi non li immagino in qualche modo, li lascio liberi. Per questo, probabilmente, mi vengono abbastanza bene.
Appartengo a una generazione che ha creduto fortemente nella fine del lavoro: io, semplicemente, non vorrei lavorare. Se qualche volta ho immaginato un mestiere diverso dal mio è quello di non fare nulla, di andarmene in giro per il mondo, guardare che cosa accade. Mi piace moltissimo guardare la vita degli altri. Scrivere e leggere non sono un mestiere, sono la vita. La mia almeno.

Tazza di caffè sempre piena. Io di solito la riempio di tè o infusi. Il rito della scrittura in cui ogni scrittore si riconosce. Parlando di manie ed abitudini vorrei curiosare un po’ in casa Marziani, trasformarmi in farfalla ed osservarti nella tua giornata tipo dedicata alla scrittura: come ti organizzi, quale luogo scegli o preferisci, come gestisci i disturbatori, quando decidi che è il momento di iniziare a scrivere c’è qualcosa che deve succedere oppure inizia e basta? In sostanza, raccontaci quali sono le tue abitudini, se ne hai, quando scrivi.
Il punto è capire dove comincia la scrittura. Se inizia quando cominci a stendere le parole sul foglio allora ho poco da raccontare. Per me la scrittura parte molto prima, a volte anni prima, quando vengo avvolto da una sorta di frenesia e improvvisamente mi interessano cose di cui prima non mi importava niente e comincio a viaggiare dentro a idee che a volte diventano romanzi.
Provo a farti un esempio, sono un paio di mesi che penso a Garibaldi, all’Uruguay, alle fisarmoniche, ai migranti italiani, ai pellerossa americani, alla Beat Generation e a un viaggio coast to coast negli Stati Uniti che vorrei fare ma senza dimenticare Montevideo, il Rio della Plata, Buenos Aires… C’è nulla di sensato in questo? Ancora no, ma io avverto un prurito da qualche parte nell’anima che mi dice che anche solo un particolare di tutte queste cose diventerà una storia. Siccome però non so quale sarà mi guardo in giro, progetto viaggi, leggo libri, vado in luoghi che mi sembrano adatti. Adatti a cosa? Boh, lo scoprirò. Intanto obbedisco ad una sorta di istinto narrativo e ci vado. Poi mi faccio mandare vecchie riviste dai posti più strani. Cerco di incontrare esperti delle varie suggestioni che mi riempiono la testa. Questo accade piano piano. All’inizio sono pensieri che stanno di lato, mentre tu fai altro, ti occupi delle cose della vita. Poi diventano idee fisse. Infine un giorno, per caso, all’improvviso, come le illuminazioni Zen, intravedi una storia che spesso non c’entra nulla col casino che hai messo in moto. Però la riconosci e dici: quella è la storia. Così cominci a cercare con maggiore precisione e a costruirne il percorso nella testa. In tutto questo tempo io non scrivo una sola riga, disegno piuttosto, perché disegnare mi dipana i pensieri. Lo faccio su piccoli taccuini che riguardo raramente.
Poi un giorno qualcosa nella mia testa dice che è il tempo di scrivere. Allora mi apparto, mi metto in un angolo, metaforico e reale, chiudo la porta, non concedo accesso a nessuno e comincio a scrivere. A volte senza neppure fermarmi per giorni. Senza togliere il pigiama. Mangiando quello che avanza nel frigo e non rispondendo a nessuna sollecitazione dall’esterno. Nasce quasi sempre così la prima stesura.
Poi un giorno metto il punto e chiudo tutto in un cassetto. Mi guardo allo specchio. Mi faccio una doccia. Metto a posto la casa, mi vesto bene e esco a cena con la persona più cara che ho intorno. Rientro comunque nel mondo.
Dopo un mese, ritiro fuori il manoscritto e comincio a lavorare. Qui allora posso parlare di giornata tipo. Se riesco lavoro sul libro la mattina presto. Diciamo dopo colazione, dalle 7 alle 10. Poi se sono al mare vado in giro in bicicletta, pranzo e mi dedico alle altre cose della vita e del mio lavoro fino a sera quando vado a dormire prestissimo. Se invece sono in montagna vado a pesca oppure a funghi o semplicemente in giro fino all’ora di pranzo. Credo che sia in questo tempo liberato che la mente cominci a raccogliere stravaganze pronte per il libro successivo.
Il lavoro di limatura, riscrittura, messa a punto è il più lungo. Dura molti mesi. Con pause necessarie anche di un mese tra una lettura e l’altra, perché a quello che hai scritto con tanta ferocia verso te stesso e verso il mondo, adesso occorrono la cura del riposo e della riconciliazione. L’editing è spesso una carezza.

309443_2390791007480_1182024689_2746144_523145277_n1Grazie Michele, hai espresso molto bene quello che per te è la tua vita dedicata alla scrittura e come nascono le storie che scrivi. Prima di parlare nello specifico di alcuni dei tuoi libri, riprendo una cosa che hai detto poco fa, per ragionarci un po’ assieme. Le tue storie sono ambientate dove vivono i tuoi personaggi. Che è, più o meno, quello che tutti gli scrittori rispondono. La domanda forse sembra banale, ma l’ho rivolta a tutti gli autori per svelare quelle abitudini che tutti noi abbiamo quando scriviamo e di cui forse non ci accorgiamo, come ad esempio fare vivere i personaggi in luoghi più o meno sempre simili e vicini a ciò che amiamo. Ti faccio un esempio. Tempo fa feci leggere ad un’amica alcune storie che avevo scritto e dopo la lettura lei mi disse che facevo abitare i miei personaggi sempre in un casolare. Io non me ne ero accorta ma dovetti convenire che aveva ragione e da allora ci feci caso: amo la campagna e i miei personaggi di solito vivono lì.
Ho letto tutti i tuoi romanzi e la maggior parte di essi hanno un elemento in comune: l’acqua. Credo tu abbia capito cosa intendo. Ce ne vuoi parlare?
Ho scritto un libro per spiegare il mio rapporto narrativo con l’acqua e neppure so se ne sono stato capace fino in fondo. Comunque si intitola Il pescatore di tempo e attraversa tutti i luoghi e le mitologie della mia narrativa. Lo fa con la canna da pesca in mano, ma perché io sono anche un pescatore.
I protagonisti dei miei romanzi vivono tutti nei luoghi de Il pescatore di tempo, ne respirano il senso, ne percepiscono la forza anche quando odiano quella zona salmastra tra il fiume e il mare (Franco Botteghi in Barafonda); anche quando l’acqua è solo un pretesto cittadino (penso alla ciclofficina di Arnaldo Scura sulla riva del Naviglio della Martesana a Milano in Umberto Dei). Ma i due romanzi dentro ai quali io sono nato, perché dentro alla scrittura accade anche questo, di nascere un’altra volta, sono La trota ai tempi di Zorro in cui Stefano Baldazzi Morra impara a crescere grazie alle trote che nuotano nel torrente del suo paese e Fotogrammi in 6×6 dove il protagonista, un altro Stefano, fa esperienza diretta della diseguaglianza pescando i tritoni col suo amico Igor, uno zingaro, occasionale compagno di scuola. Persino in Nel nome di Marco che è la storia di un sacerdote tifoso di Marco Pantani, uno degli episodi cardine del libro è nell’incontro tra il padre del protagonista e il parroco del paese: sono su un torrente a pescare. La signora del caviale, poi, è completamente ambientato sulla golena del Po, cioè in quello spazio che sta tra il fiume e l’argine. Uno spazio che le stagioni regalano spesso agli uomini e ogni tanto al fiume in piena. Possibilità di vita e devastazione. Un rapporto che un tempo la gente accettava forzatamente e del quale oggi restano solo storie da raccontare: lungo il fiume Po ci sono 35000 (sì, hai capito bene, trentacinquemila) case abbandonate nelle golene. Nessuno oggi, giustamente, vuole più vivere lì, ma questo non vuol dire che chi ci è vissuto non abbia originato un’epica del fiume. Cito i primi autori che mi vengono in mente: Riccardo Baccelli e Beniamino Guareschi.
Per me l’acqua, narrativamente, è tutto. Ho scritto altri romanzi che arriveranno prima o poi in libreria: tutti seguono il filo di un fiume. Uno addirittura attraversa i mari, partendo da una piccola valle alpina italiana, passando per l’isola di Ventotene, poi la Spagna, per approdare nel Connemara, nell’ovest dell’Irlanda sulle sponde di un piccolo lago. In questo specchiarsi di acque si specchia la storia del Novecento. Sarà in libreria a luglio. Si intitola La figlia del partigiano O’Connor. Per la prima volta è una storia con una protagonista femminile. Di più ora non posso dirti.
L’acqua sulla quale si svolge la vita è il mio sogno infantile e lo ripeto all’infinito. Rubo le parole a Renzo Casali, indimenticato uomo di teatro e fondatore della Comuna Baires di Milano: «Tutto quello che faccio è cercare di realizzare quello che sognavo a otto anni». Anch’io.

libri micAllora, Michele, arrivata a questo punto della chiacchierata, di solito, cerco di catturare l’attenzione dei lettori sulla produzione letteraria del mio ospite. Come vedi, qui sul tavolino, ho una bella pila di tuoi libri: i romanzi, i racconti ed infine i libri dei viaggi enogastronomici. Ho l’imbarazzo della scelta, ma soprattutto sono condizionata da due cose: dal mio amore per i romanzi e soprattutto per i tuoi romanzi. Non vorrei togliere importanza alle altre tue opere, come ad esempio Un ombrello per le anguille, una bellissima serie di racconti scritti sull’acqua, oppure Fotogrammi in 6×6, un piccolo libretto che contiene tre storie intense e forti o Nel nome di Marco il tuo bellissimo romanzo dedicato al grande Pantani. Non vorrei togliere importanza alle altre tue opere, dicevo, ma mi piacerebbe che ci parlassi di due tuoi romanzi in particolare. Iniziamo con il primo, e cioè con Umberto Dei, biografica non autorizzata di una bicicletta. Prima di tutto vorrei che ci raccontassi com’è nata l’idea di questa storia e perché hai scelto proprio, come protagonista, una Umberto Dei; poi vorrei sapere perché è una biografia non autorizzata di una bicicletta e come è nato il titolo; ed infine, già che ci sei, raccontaci anche qualche curiosità, se ce ne sono, su questo libro.
L’idea è nata percorrendo in bicicletta il Naviglio della Martesana ogni giorno. All’epoca abitavo a Milano. Non mi piace la metropolitana, se posso preferisco andare a piedi o in bicicletta. E in bici, appunto, andavo a lavorare in viale Monza. Ogni volta che passavo davanti al portone dove poi ho ambientato il romanzo qualcosa mi attraeva, mi costringeva lì. Piano piano è nato il personaggio, è nata la storia, ma era una storia del cavolo perché raccontava di un ex rivoluzionario, di un cocciuto, estremista ed estremo, che andava in giro con la cosa meno estrema che c’è al mondo, una paciosissima bici da città. Poi ho scoperto le Umberto Dei, biciclette per maniaci, per feticisti direi. La bicicletta estrema. È nato tutto così, ad ogni passaggio sul Naviglio. È una biografia di una bicicletta perché è lei, il mezzo meccanico, che accompagna tutto il percorso narrativo. Non è autorizzata perché Umberto Dei, il costruttore, mica l’avrebbe mai scritta una biografia così delle sue biciclette. E suonava bene. Come suona bene Umberto Dei, prova a ripeterlo ad alta voce: dura il tempo di un giro di pedale. La sonorità è tutto nella scrittura. Curiosità? Tantissime, non saprei da dove cominciare. Anzi sì, mandai il manoscritto da leggere a due amici e loro, dopo averlo terminato, per tutta risposta mi regalarono una bicicletta Umberto Dei. Fu commovente. Anzi no, fu molto bello. Commovente fu invece una lettera che ricevetti da un professore universitario di Milano che mi disse che gli avevo raccontato la sua vita, o almeno la parte che lui sognava, compresa, purtroppo, la moglie amatissima che muore di un tumore. Proprio come nel libro. Umberto Dei è stato il mio tributo a Milano, l’unica città italiana per cui provo affetto.

Giuro, ho provato a ripetere a voce alta Umberto Dei e suona davvero bene. Se dura il tempo di un giro di pedale non lo so perché qui non ho una Umberto Dei ma mi fido di te. Sono stupita nello scoprire che abbiamo a cuore la stessa città e non ti nascondo che ho passeggiato più volte lungo il Naviglio della Martesana curiosando nei portoni e cercando qualche indizio per capire quale fosse il luogo in cui avevi ambientato la bottega di Arnaldo Scura. È davvero emozionante andare a caccia dei luoghi e dei personaggi dei nostri libri preferiti.
Ed ora veniamo ad un altro tuo capolavoro; l’ho scelto perché mi ha incuriosito il titolo e quando l’ho letto mi sono ritrovata immersa in un sogno.
Nella mia recensione a questo tuo libro ho riportato un estratto particolarmente significativo: Per pescare sul serio serve imparare il silenzio e il passo felpato. Occorre lo stupore di trovare pesci incredibilmente grandi in corsi d’acqua spaventosamente piccoli, stretti, gallerie di frasche con sponde di rovi. Quasi rigagnoli. Luoghi intricati, dove l’accesso costa fatica, punture d’insetto, braccia segnate, sudore… I pesci vivono spesso in luoghi che non immagineresti mai. Saperli invece immaginare è l’arma vincente. Credere l’incredibile.”
Avrai già capito che mi riferisco a Il pescatore di tempo, a mio avviso, forse, il tuo libro più profondo. Profondo perché parla di acqua e di pesci da pescare? Profondo perché parla di vita? Di viaggi? Di tempo? E silenzio?
Raccontaci tu di cosa parla e del significato che hanno per te il tempo e questo piccolo grande libretto.
Ha a che fare anche con la leggerezza del vivere?
Che dire? Grazie di spendere delle parole così importanti, così grandi, per un libro piccino che in fondo racconta solo che un pescatore può avere una chance in più per affrontare la vita: immaginarla. Giacomo Leopardi diceva che l’immaginazione è il primo fonte della felicità umana. Credo che nessuno sia costretto a immaginare più di un pescatore che si trova di fronte all’acqua e deve pensare che lì sotto ci siano pesci di ogni specie, grandezza, tipo, colore, tane, sassi, piante, ostacoli sommersi… E magari non c’è nulla, ma lui pesca convinto perché immagina un mondo sotto alla superficie dell’acqua. Un mondo migliore. Pescare è un’applicazione pratica dell’immaginazione.
Poi a me, come al protagonista del libro, la pesca ha insegnato la libertà della natura, l’uguaglianza dettata dal merito, la fraternità delle osterie. La contraddizione eterna tra amare e uccidere (ami il pesce, ma lo uccidi), l’affascinante antinomia della parola amo che è l’uncino per prendere i pesci e la prima persona singolare del verbo amare.
Credo che Il pescatore di tempo sia prima di tutto un libro sulla vita, che racconta di un ragazzo che diventa un uomo, nel caso specifico uno scrittore, portando l’immaginazione a spasso sui fiumi, mescolando libri e natura, passione e istinto. È una storia di grande fortuna e anche di piccole cose. È infine un percorso personale, quello di un bambino innamorato di una canna da pesca per la sua somiglianza con una lancia di un indiano Cheyenne e che per questo ha imparato a pescare sui libri, portando poi quei libri a sentire lo scorrere del fiume.
Il pescatore di tempo è uno scritto nato per caso. Anzi su richiesta dell’editore. Ho risposto a un invito, quello di raccontare cosa fosse la pesca. Per me, come per tantissimi scrittori che ne hanno narrato storie bellissime, penso a Ernest Hemingway di Grande fiume tra due cuori (più tutto il resto che non è poco), alla follia di Pesca alla trota in America di Richard Brautigan, alla religiosità della natura di In mezzo scorre il fiume di Norman Maclean, alla vita sull’acqua raccontata ne Il grande silenzio di Thomas McGuane, all’utopia di Pesca al salmone nello Yemen di Paul Torday, alla pace bucolica e ironica di certe acque di pianura del centro Europa raccontate da Ota Pavel ne La morte dei caprioli belli ma anche, se vogliamo citare autori vecchi e nuovi di casa nostra, alla pennellata di Novecento italiano de L’amo e la lenza di Mario Albertarelli, al mitico Colombre di Dino Buzzati che fa il paio con le splendide descrizioni dello storione del Po scritte da Gianni Brera ne La pacciada, fino ad arrivare a Fabio Genovesi con il suo romanzo Esche vive. Credo che pescare sia, prima di tutto, occuparsi di sé e del proprio tempo. E farlo con leggerezza perché, come diceva Mark Twain, comunque non ce la faremo ad uscirne vivi.
Per raccontare tutto questo, per scrivere Il pescatore di tempo, non sapendo da dove iniziare, ho cominciato come quando si giocava coi Lego: ho sparso davanti a me libri, oggetti, canne da pesca, esche artificiali, un vecchio cestino di vimini, tante foto sbiadite, qualche mappa di sperdute vallate montane… Ho riempito il tavolo, mi sono versato un bicchiere di vino e ho cominciato a osservare tutte quelle cose appoggiate lì alla rinfusa. Guardandole ho sentito l’odore del fiume – che per me è quello della vita – e ho cominciato a scrivere.

947236_10201133272632234_385289796_nSe sostituisco la parola pescatore con la parola scrittore in una frase che hai appena detto ottengo: “uno scrittore può avere una chance in più per affrontare la vita: immaginarla”. Credo che avere la possibilità di poter vivere altre vite, oltre alla propria, sia una opportunità unica, sia per lo scrittore che inventa la storia, sia per il lettore che in quella storia si immedesima. Quando ho letto Il pescatore di tempo ho trovato tante analogie fra la pesca e la scrittura e dove tu scrivevi pesca io leggevo scrittura. È un libro che parla di vita e tutti dovrebbero leggerlo.
Il tempo è volato, Michele e la nostra ora del tè è giunta al termine.
Ti chiedo solo altre due cose prima di salutarci.
La prima è una richiesta: promettimi che verrai di nuovo a trovarmi dopo la pubblicazione del tuo prossimo romanzo.
La seconda è una curiosità: nella tua biografia hai scritto che se pensi a casa, pensi al Monte Rosa. Ci spieghi perché proprio il Monte Rosa?
Con questo io ti lascio la parola, perché voglio finire questa bellissima intervista con la tua voce. Saluto i nostri lettori e do appuntamento a tutti alla prossima puntata de L’ora del tè. Grazie di cuore, Michele, per essere stato qui con me oggi!
Beh, è stata un’ora piacevolissima, almeno per me, e quindi tornerò sicuramente dopo l’uscita del nuovo romanzo.
La domanda sul Monte Rosa è difficile. Provo a risponde e parto da lontano: mio nonno paterno è cresciuto in un casello ferroviario dell’alto Molise, dove i bisnonni facevano i casellanti, non so bene da dove venissero, credo dall’Abruzzo ma potrei sbagliare.
Domenico Tommaso Marziani, questo il nome del nonno, entrò in ferrovia, divenne capostazione e girò mezza Italia. Mio padre è nato a Gorizia, mia madre viene dal basso Friuli. Quando sono nato io vivevano a San Leo che allora era nelle Marche, dopo pochi anni ci siamo trasferiti a Rimini ma a tutte le feste comandate andavamo a Padova a trovare i nonni materni che nel frattempo erano andati ad abitare lì.
Finite le scuole elementari ci spostiamo di nuovo, per motivi familiari, in Piemonte, nel Novarese, sul lago d’Orta. Credo che quegli anni siano stati i più belli della mia vita, a contatto con una natura che prima non avevo avuto occasione di conoscere.
Da Gozzano, dove abitavo, ma anche da Novara dove ho studiato e pure da Milano dove ho vissuto, nelle giornate terse si vede il Monte Rosa. Il vederlo mi rende sicuro dello stare al mondo. Mi fa sentire meno sradicato, meno perduto nei miei venticinque traslochi.
Mi sono innamorato della Valsesia, il versante più bello del Monte Rosa, quando da ragazzo in certe giornate di primavera invece di andare a scuola prendevo il trenino per Varallo. È un amore che è rimasto sempre lì. Ogni tanto torno e tutto mi sembra più bello. Ovviamente non lo è, anzi. Non c’è alcun motivo se non il respiro forte della montagna. Forse è solo un luogo dove immaginare delle radici che non ho. Magari perché è il posto di tante scorribande da ragazzo. Non è però l’unico luogo del cuore, ne ho altri, anche in montagna, la vicina val d’Ossola ad esempio.
L’ho fatta lunga inutilmente, la verità è che il Monte Rosa è semplicemente il pezzetto di mondo dove senza nessun motivo mi sento a casa. Grazie per la pazienza di tanto ascolto.

Il sito di Michele Marziani è michelemarziani.org.
Per info sui suoi libri navigate questa pagina.

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Lea Rivalta

Ed eccomi con voi, oggi, per l’ottava puntata de L’ora del tè, in compagnia di Lea Rivalta, l’autrice di Un solo sangue (Antonio Tombolini Editore), un romanzo intenso, imprevedibile e sorprendente. Scopriremo oggi la personalità molto particolare di questa scrittrice ed entreremo con lei nei meandri oscuri dell’anima.
Apro la porta alla nostra ospite e ve la presento.

Ciao Lea e benvenuta nel mio salotto. Gradisci un tè, un caffè, una tisana?
Ciao Roberta. Grazie, un earl grey con un dito di scotch whisky sarebbe perfetto. Anche del bourbon va bene.

Ottimo! Allora iniziamo con le prime cinque domande, se sei d’accordo.
Vai.

Intanto grazie per la tua disponibilità e per avermi dedicato un po’ del tuo tempo. In questo spazio desidero fare conoscere gli autori, non solo per quello che scrivono ma anche per quello che pensano, sentono, ascoltano, leggono. Leggendo un po’ di te e ascoltando le tue parole, la sensazione che ho è quella di avere di fronte una persona molto precisa, organizzata, programmata. Con abitudini consolidate e un approccio pragmatico alla vita e a tutto ciò che essa contiene. Però non è tutto qui. C’è un lato particolare di te che galleggia oltre le parole, oltre ciò che scrivi. C’è una Lea più razionale e una emozionale. Una che controlla e programma ed una che cerca invece di uscire dalle righe e tirare fuori dalla pancia una storia come quella contenuta in Un solo sangue di cui parleremo fra poco. Vorrei che ci raccontassi un po’ chi è Lea Rivalta e che smentissi quanto ho affermato poco fa oppure no…
Credo di essere come tutti gli esseri umani di questo mondo. In ognuno di noi esistono aspetti divergenti della personalità, ciò che ci differenzia è il modo di gestire questa complessità. La vita, spesso, impone di nascondere i lati meno ortodossi, che finiscono per diventare oscuri. Quando vengono alla luce, queste identità nascoste assumono sembianze che agli occhi del senso comune possono sembrare sovversive, minacciose… talvolta criminali.
lea

Lo pseudonimo Lea Rivalta è la mia voce libera di parlare della sostanza profonda delle cose, nella forma ruvida e dura che preferisco, senza che ciò possa interferire con la mia vita ordinaria in cui tiro avanti con un altro nome e cognome. Anche Lea è precisa, analitica, acuminata ma esplora le pieghe nascoste dell’anima, va dove si annida il dolore e lo affronta guardandolo in faccia.

Visto che hai tirato fuori l’argomento (l’avrei fatto senz’altro anch’io) parliamo di Lea Rivalta.
Come hai appena detto, Lea è la parte interiore di te, quella che, nonostante la modalità pragmatica di affrontare la quotidianità, sa guardare in faccia alle difficoltà della vita. È un po’ la tua parte più vera o, forse, quella che non puoi mostrare? Quando scriviamo qualcosa di noi emerge sempre fra le pagine dei nostri libri. Un dettaglio, un sentimento, un ricordo. Che a volte fatichiamo a tirare fuori. Ci può aiutare lo pseudonimo in questo? Credo che molti di noi abbiamo vissuto, almeno una volta nella loro vita di scrittori, l’esperienza di pubblicare sotto mentite spoglie.
La scelta di usare uno pseudonimo è conseguente all’esigenza di tenere separata la mia vita “ordinaria” da quella creativa. Una questione di praticità, innanzi tutto, e poi personale: volevo che la mia esperienza nello scrivere non fosse in alcun modo inquinata da infiltrazioni narcisistiche. Negli atteggiamenti di tanti presunti scrittori trovo una crescente tendenza a magnificare la propria immagine di autori a scapito del contenuto e della qualità dell’opera. Lea Rivalta è solo ciò che scrive: se questo è interessante, bene. Altrimenti Lea non esiste.

L’uso dello pseudonimo ha condizionato il tuo modo di scrivere?
No, anzi: penso abbia fatto emergere la mia vera natura creativa. Il non dover rendere conto a nessun profilo preesistente ha fatto sì che le idee fluissero libere e la forma si adattasse alla sostanza di ciò che volevo dire, senza vincoli e condizionamenti. Il risultato è una narrazione istintivamente molto asciutta che non concede nulla all’auto-compiacimento, e punta sempre al cuore delle cose anche quando entra nella carne viva dell’anima.
Penso che solo Lea potesse addentrarsi nella personalità devastata di Gio e mostrarne le macerie più intime senza vergogna, senza pudore, senza paura.

35520873_un-solo-sangue-di-lea-rivalta-1Parliamo ora del tuo bellissimo romanzo, Un solo sangue, senza entrare troppo nel racconto per non fare spoiler. Un solo sangue ha una trama molto forte, ci sono passaggi di una intensità estrema e cose che succedono e che non ti aspetti. È scritto con uno stile asciutto e coinvolgente; quello che colpisce è la veridicità della storia e dei personaggi. Hai tratto spunto da qualcosa che hai letto o da qualcosa che ti è successo? Come hai lavorato per costruire i personaggi?
Un solo sangue intende parlare di un tema vero, che riguarda quote crescenti del mondo occidentale, e che produce danni sempre più grandi sia a livello sociale che individuale: l’abbandono della propria identità e la fuga verso un’io-immagine artificiale. Si tratta di una patologia grave, che ha sviluppato radici ormai profonde e che nasce con l’incapacità di gestire la difficoltà di vivere. Tendiamo, inconsapevolmente, a rinnegare la nostra identità che ci fa sentire impotenti di fronte a modelli di vita inarrivabili e a costruire ectoplasmi belli, sorridenti e performanti in apparenza ma che non contengono più l’essere vero delle persone. Ciò produce tragedie enormi, che spesso si consumano in silenzio ma che talvolta deflagrano spargendo il carico di dolore accumulato nel tempo. Di questo argomento tratta uno dei libri più interessanti che abbia mai letto, un saggio che tiene incollati alle pagine più di un thriller. È Il Narcisimo, di Alexander Lowen… andrebbe studiato al liceo.

lea2Ovviamente Un solo sangue non è un saggio: l’idea alla base del romanzo è pura fiction. Volevo una trama che andasse dritta al cuore del problema e affondasse senza remore e condizionamenti la lama narrativa. Per questo l’ho maturata per quasi un anno, prima di passare alla scrittura. La storia è comunque costruita su mattoncini di assoluta verità: praticamente tutte le situazioni e i personaggi nascono dalla mia esperienza personale, che ho assemblato in un’architettura di fantasia al servizio del tema di cui intendevo parlare.
Parlando di tecnica narrativa, ho preso un paio di decisioni molto ponderate che hanno fortemente caratterizzato il risultato finale: la scrittura in prima persona e la limitazione del set dei personaggi.

Ti va di dirci di più su queste due scelte?
La prima persona si è rivelata fondamentale per garantire la profondità e l’impatto del racconto dell’esperienza della protagonista, che vede la propria vita decomporsi e intraprende il viaggio nella sofferenza, verso la riscoperta di sé. Questo ha comportato l’ovvia difficoltà nel costruire un romanzo corale e multi-situazione: ogni scena, accadimento, dialogo avviene attraverso il punto di vista di Gio e questo impone scelte stilistiche e narrative forti e, a volte, limitanti. Ma volevo dare assoluta priorità all’esplorazione del dolore e l’unico modo di farlo era portare il lettore nell’anima di questa donna.
Da ciò deriva anche la scelta di limitare il numero e la profondità dei personaggi: “gli altri” esistono nella misura in cui partecipano alla tragedia di Gio, che è l’unica cosa che conta in questo romanzo. Ho quindi abbandonato ogni velleità accademica riguardante la costruzione quali-quantitativa dei personaggi.
Il risultato che volevo raggiungere era un libro da leggere tutto d’un fiato, e che non si perdesse in derive inutili. Con un ritmo interiore scandito da una trama serrata, che si mette in moto sin dalla prima pagina e non si ferma più, fino all’ultima.

Hai intenzione di continuare a farti leggere come Lea Rivalta? Ci sono nuovi progetti in cantiere o Un solo sangue – parte II?
Lea ha altre cose da dire e lo farà. Ho idee che andranno ancora più a fondo nella materia oscura di cui è fatta l’anima, e comporranno una trilogia di cui Un solo sangue costituirà il primo atto. Ritengo si tratti di soggetti potenti e sorprendenti, che si baseranno su uno storytelling non convenzionale e una scrittura spericolata. I tempi per la venuta al mondo di queste creature sono ancora in via di definizione anche perché, nel frattempo, Un solo sangue potrebbe diventare qualcosa di diverso da un libro. Ne parleremo più in là, Roberta.

Con molto piacere, Lea. Ti aspetto nel mio salotto quando sarai pronta a parlarcene.
Ed ora l’ultima domanda. Hai affermato che scrivi “di tutto da sempre”. “Di tutto” intendi qualsiasi genere letterario? Ci racconti quali generi hai approcciato e per quale provi maggiore affinità?
E “da sempre” significa che hai scritto storie fin da piccola? E che storie amavi raccontare?
Nella prima parte della mia vita ho scritto tanto per ragioni professionali, ma il contenuto non poteva certo permettersi di volare sulle ali della fantasia.  La fiction è arrivata tardi, con incursioni nel mondo ragazzi e young adults, in cui ho scoperto il valore della fuga nei mondi fantastici. Ma è con la creazione di Un solo sangue, il mio primo romanzo per un lettore adulto, che credo di aver trovato il vero valore della scrittura nel mio bilancio personale. Un’autrice molto in gamba ha detto che “la vita creativa è il risarcimento della vita ordinaria”. Per me la scrittura è una grande amica, che sa aiutarmi nei momenti di dolore e sa aspettare quando non ho tempo per lei. Perché mi vuole bene senza condizioni.

Lea è stato un piacere averti mia ospite a L’ora del tè. Ti ringrazio per la tua disponibilità e ricordo ai nostri lettori il tuo romanzo: Un solo sangue di Lea Rivalta, edito da Antonio Tombolini Editore.
Arrivederci alla prossima puntata!

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Manuela Bonfanti

Per presentarla uso le sue parole. Una frase che spiega tutto di lei, soprattutto la profondità del suo lavoro di scrittrice e il rapporto fra lei e la parola scritta: “La scrittura mi accompagna fin dal giorno in cui andai alla lavagna in prima elementare e scrissi l’unica parola che sapevo scrivere: il mio nome. Mica una parola da nulla: è la prima porta di entrata verso l’identità. E, da allora, ne ho esplorato le stanze”.
Sono felice di averla con me oggi, il suo nome è Manuela Bonfanti Bozzini. Manuela è nata nella Svizzera italiana, vive in Francia ed ha pubblicato, da poco, Punti e Interrogativi per Antonio Tombolini Editore, all’interno della collana Oceania. Conosciamola assieme!

Benvenuta Manuela! È un piacere incontrarti di nuovo. Sono le cinque, posso offrirti un tè bianco? È uno dei miei preferiti…
Perfetto, adoro il tè bianco. In foglie, senza latte né zucchero per favore.

Se sei pronta possiamo partire con la nostra chiacchierata. Che ne pensi?
Sono pronta!

A che età hai iniziato a scrivere?
Se intendi per un pubblico: dopo gli anni di università, tra i 25 e i 30.

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Non ho manie.

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
In luoghi immaginari che assomigliano a quelli che conosco. Per ancorarle a una realtà plausibile ma universale.

Il libro più bello che hai letto?
Tanti. Ma se dovessi salvarne solo uno, opterei per La buona terra di Pearl Buck.

Il luogo più strano in cui scrivi?
In giardino, d’estate. I riflessi sullo schermo mi fanno impazzire, ma impazzirei di più senza sole e luce.

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Eccoci Manuela! È un piacere ospitare nel mio salotto un’autrice internazionale. Ti ringrazio in anticipo del tempo che mi dedicherai e vorrei partire subito con la prima domanda.
Ho sbirciato sul tuo sito e, da vera donna curiosa, ho letto la tua biografia. Ti confesso che sono rimasta a bocca aperta. Il tuo curriculum è ammirevole. Complimenti davvero!
Partiamo dalla tua passione per lo studio che da quel che ho potuto leggere non si è ancora esaurita. Hai approfondito tanto ed a fondo alcune tematiche come le lingue (italiano, francese, inglese, tedesco, russo, spagnolo, portoghese, cinese, conseguendo anche risultati prestigiosi); hai effettuato studi di psicologia, sociologia, marketing e comunicazione. Ed hai frequentato il corso di formazione biennale in metodologie di scrittura (auto)biografica presso la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Mi interessa iniziare con l’approfondire quest’ultimo tassello del tuo mosaico formativo. Ci vuoi parlare della scrittura autobiografica? Cos’è, come funziona, qual è il suo ruolo…
Descriverla in poche parole è una sfida: intuisci che si scrive di sé, ma in modo riflessivo e ragionato. È un viaggio formativo che permette di capirsi più profondamente, di fare su di sé un esercizio filosofico che conduce a un “luogo interiore di benessere e di cura”(*). È stato un percorso estremamente arricchente, che mi ha consentito di esplorare i temi radicati nella mia scrittura. Ma la ragione per la quale ho imboccato questa via è molto più semplice e concreta: mi appassionano le storie. Ho ruotato attorno ad esse dagli studi di Lettere, quando ancora le storie le leggevo soltanto, allo scrivere storie “mie”. Una formazione che studia e valorizza storie autobiografiche mi è parsa la svolta naturale sul mio percorso perché nel mio primo romanzo, La lettera G, ho narrato una possibile biografia della donna comune, dimenticata dalle storie e dalla Storia. Grazie a questo libro, l’intuizione si è mutata in consapevolezza: volevo conoscere l’arte di scrivere storie di vita, espressione che preferisco ad autobiografia – parola che, essendo unicamente autoreferenziale, si presta a interpretazioni anche fallaci, soprattutto quando emana da una scrittrice. Ma qui entriamo in un discorso complesso, credo che tu mi capisca. Comprendere le storie degli altri (e in particolare delle altre) mi offre spunti diversi per poterle narrare – sia in forma di fiction come ho fatto finora, che attraverso raccolte di storie di vita reali, sia per intero, che sviscerandone uno o più aspetti. Il finale del racconto “Le urla dei muti” di Punti e Interrogativi tradisce il desiderio di dar voce a storie che, altrimenti, non verrebbero raccontate. Ecco, spero di aver risposto alla tua domanda. Ora permettimi di ringraziarti di cuore per avermi invitato per il tè, e dell’opportunità che mi offri di parlare di ciò che scrivo e sono…

(*)espressione di Duccio Demetrio, co-fondatore della LUA

Interessante, Manuela. Confesso che io stessa ero stata tratta in inganno e forse non solo io. Autobiografia intesa come narrazione di una storia di vita (reale o inventata) ma non per forza biografia dell’artista. Ora è tutto molto più chiaro e interessante, e si sposa perfettamente con i racconti contenuti in Punti e Interrogativi, il tuo secondo libro pubblicato da Antonio Tombolini Editore. Ne parleremo fra poco.
Ho fatto riferimento, nella precedente domanda, alla tua immensa passione per lo studio. Quando ci siamo incontrate, l’ho percepita intensamente dalle tue parole e dall’inconfondibile luce negli occhi. Ti chiedo. Quanto peso hanno avuto, gli studi che hai fatto, su Manuela scrittrice? Sono stati fondamentali per la sua maturità artistica? In che cosa senti che l’abbiano aiutata o eventualmente migliorata?
Ho sempre considerato lo studio come parte di un percorso di crescita personale, slegato dalla scrittura. Questo perché nessuno studio trasforma in scrittrice, la scintilla sta dentro. Ma indubbiamente, studiare è stato fondamentale per alimentarla: mi ha fornito strumenti di analisi e di comunicazione ed è stato motore di apertura e ricerca. È pure possibile che, senza l’uno, non sarebbe potuta emergere l’altra. O viceversa. Non posso dirti con precisione come si è creata la sinergia. E poi, non ti nascondo che, con il tempo, ho ampliato la mia definizione personale della parola studio, includendo l’istruzione informale, ovvero quella che si può ricavare da metodi meno codificati come l’osservazione, l’ascolto, le esperienze costruttive. In questo senso, i miei tre grandi alleati sono stati le letture, i viaggi e i figli. Tutto contribuisce a creare spazi di scoperta e comprensione che, nel mio caso, confluiscono nella scrittura.

Parliamo ora della tua scrittura. Le tue storie sono storie di vita. Quanto è vera quella vita che racconti? In Punti e Interrogativi dai la sensazione che lo sia. Ci racconti come nasce l’idea di una tua storia? Che cosa ha ispirato i racconti di Punti e Interrogativi?
Per risponderti, permettimi di citare un grande della letteratura, Orhan Pamuk: “Le opere di un romanziere sono come costellazioni di stelle in cui lui, o lei, propone decine di migliaia di piccole osservazioni sulla vita – in altre parole, esperienze di vita basate su sensazioni personali”. Ecco, le “piccole osservazioni sulla vita” sono gli spunti dai quali nascono le mie storie: riflessioni mie, che hanno trovato il loro spunto in una metafora o in una parola; frasi o frammenti di vita regalatimi, consciamente o meno, da qualcuno; problematiche vissute o osservate, che mi rincorrono per essere interrogate. Su questi spunti ho costruito trame di fantasia, popolate di personaggi emblematici, “veri” solo in quanto sintesi o caricature di caratteristiche osservabili. I miei Punti e Interrogativi sono nati così. Ora però è tempo di offrirli perché, oltre al piacere della lettura, possano andare a suscitare spazi di senso e movimenti interni unici in ciascuna lettrice o lettore.

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Nelle “piccole osservazioni sulla vita” mi ci riconosco anch’io e come me e te credo anche tanti altri autori. È un po’ come vivere tante vite e poi tentare di raccontarle. Su dettagli, immagini, sensazioni vere costruiamo storie di pura fantasia, ma che non sempre sono pura fantasia. C’è qualcosa di reale nelle storie che inventiamo, non credi? Per quanto io mi sforzi di creare storie che non esistono, qualcosa di me, della mia vita, dei miei sentimenti ritorna continuamente fra le righe ed emerge, all’improvviso, come catturato dalla mia stessa anima e nascosto fra le parole. Confrontando la tua esperienza di scrittura con la mia, quanto ti ritrovi in ciò che ho appena descritto? Quanto riesci a separare la tua vita da quella dei tuoi personaggi? Oltre ad attingere dalle tue giornate e dalla quotidianità, le tue storie nascono anche dal tuo vissuto? Ci sono temi pesanti nei tuoi racconti come la violenza, la solitudine… ci racconti come sono arrivati alla tua penna?
Sottolinei un aspetto fondamentale, Roberta: nel genere romanzo, dell’autore c’è tutto e niente. Al di là dell’invenzione, qualcosa di noi filtra sempre nella scrittura, che sia un ambiente, una caratteristica di un personaggio, un pensiero. È questo, che rende ciò che scriviamo “reale”. Ma ci interroghiamo tanto, forse troppo, sulla relazione tra scrittura e vita vera. In fondo, che importanza ha? L’essenziale è come il testo viene letto, quali sensazioni e riflessioni scatena. Quel che mi prefiggo, scrivendo, è entrare dentro. E ad aprire la porta è chi legge. Quindi, perché non parlare di lettrici e lettori? Sono loro, i veri protagonisti di ogni libro.
Mi chiedi come sono arrivati questi temi alla mia penna. Io credo che ciascuno porti in sé, radicati già dalla nascita, alcuni temi sui quali riflette. E ogni esperienza, ogni parola, sguardo o gesto, vanno a interrogarli. È come se, fin da piccoli, il nostro inconscio li selezionasse perché quello, proprio quello ci parla. Per questo non è necessario che io abbia sperimentato qualcosa, perché mi sorga la necessità di scriverne. Ne hai citata una: la violenza sulle donne. Non l’ho mai subita, né osservata da vicino, ma mi turba profondamente. Certo, qualcosa che mi lega a questo tema universale c’è: sono una donna. Ecco l’elemento reale, quel qualcosa di me che, come dici bene tu, torna tra le righe e accomuna questa tematica alle altre. Ma la cosa parte da lì, e lì si ferma.
La maggior parte di noi, però, non scrive. Preferisce riflettere silenziosamente. E spesso legge. Ed eccoci di nuovo ai lettori. Tu prendi Punti e Interrogativi: quale racconto ti è piaciuto di più? Se lo chiedo a cento persone, otterrò risposte diverse. Risposte che mi parleranno di loro, non di me. Perché noi amiamo soprattutto i libri che toccano le nostre corde interiori. Tu li chiami temi pesanti: io li chiamo temi importanti, realtà della vita che amo scandagliare. Temi che toccano quelle corde. Non scrivo per intrattenimento, ma vorrei rassicurare chi ci legge: tra le mie pagine troverete anche il piacere della lettura.

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Scrittura e lettura camminano a braccetto e personalmente sono molti di più i libri che leggo perché devo di quelli che leggo perché desidero. Qual è il tuo rapporto con i libri e con gli autori che preferisci? Ce ne sono alcuni che pensi abbiano influenzato il tuo stile o in qualche modo condizionato?
Io leggo solo i libri che desidero, e sono tanti. Più di cinquanta l’anno, tra letteratura e saggistica. Se scopro un’autrice o un autore che mi piace, tendo a leggere tutti i suoi libri. Sono sempre stata una lettrice avida, fin da piccola, e i libri non mi bastavano mai. Ho letto tutto e di più, mi sono sforzata di terminare anche i libri che non mi piacevano e penso che, in quella fase, sia stata cosa giusta: mi ha aiutato a conoscere la diversità e soprattutto a capire cosa amo in un libro. Così, da qualche anno, mi permetto di non finire quelli che non mi piacciono. A livello di stile, mi scoraggiano i testi in cui l’essenziale annega in mille digressioni o descrizioni minuziose – però vedi, già devo citarti un’eccezione, perché tra gli autori che ho amato di più c’è Nagib Mahfuz, prolisso e pungente. Lo stile che preferisco apre universi di senso in modo corposo, morbido, evocatore e leggero, con pochi dialoghi e una sufficiente tensione narrativa. Ma più dello stile, mi interessano trame e tematiche, o la capacità di cogliere e spiegare un particolare universo. Infatti ho amato moltissimo quasi tutte le opere di scrittrici come Pearl Buck, Elisabeth Gaskell o la Allende, padrone della scrittura e della tensione narrativa e al contempo sociologhe o antropologhe eccezionali, ma che possiedono stili differenti. O, più vicino a noi per tempo e luogo, Elena Ferrante. Se avessi tempo ne citerei altri, magari solo per un libro straordinario come lo Stoner di John Williams o l’Homo Faber di Frisch. E naturalmente La buona terra, che ho scelto come libro-feticcio. Sono stati modelli letterari ai quali tendere.
Si è fatto tardi, Roberta, non ho visto il tempo passare. È stata una discussione interessante e le tue domande mi hanno offerto nuovi spunti di riflessione. Sono stata bene in tua compagnia, rivediamoci presto!

Grazie Manuela, un incontro piacevole e veramente costruttivo sotto tutti i punti di vista. Grazie per il tuo tempo, la tua bella personalità e la compagnia, qui, a L’ora del tè.
Arrivederci a presto!

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Federica Bartolozzi

Siamo arrivati alla quinta puntata de L’ora del tè. La prossima ospite è un’autrice toscana che esercita un mestiere molto particolare; quando penso a lei la immagino inginocchiata nella terra, curva, con i guanti e piena di polvere. No, non fa la contadina, ma l’archeologa medievalista. Ed è molto simpatica, carina e spiritosa. L’ho conosciuta un paio di mesi fa e ne ho subito apprezzato lo spirito gioviale e la solarità.
La accogliamo nel mio salotto e cominciamo a parlare con lei.

Federica Bartolozzi, questo è il suo nome, ha pubblicato un romanzo storico dal titolo Una scomoda memoria, per Antonio Tombolini Editore. Collana Klondike.

Benvenuta Federica, è un piacere averti nel mio salotto. Che ne dici se prima di iniziare la nostra chiacchierata prepariamo un po’ di tè? Ho anche dei biscotti fatti in casa; è una ricetta di mio papà!
Il piacere è tutto mio, è un onore poter sedere nel tuo salotto. Mi hai letto nel pensiero. Adoro tè verde e biscotti fatti in casa; ne ho sentito il gustoso profumino appena entrata e so già che te ne chiederò la ricetta.

A questo punto, se sei pronta, possiamo iniziare. Vado con le cinque domande brevi?
Prontissima, almeno credo…!

A che età hai iniziato a scrivere?
Da quando ho “imparato” a scrivere. Mi spiego: dal diario segreto in poi, la mia penna mi ha sempre seguita.

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Nella gestione del quotidiano ne ho quante vuoi; mi danno sicurezza e mi costringono ad essere più ordinata, più attenta. Quando scrivo però, a pensarci bene non ne ho; forse perché mi sento veramente libera e sicura di me.

 Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
Adoro le locations piene di storia stratificata che siano grandi città, piccoli borghi nella campagna o isolette in mezzo al mare. Una cosa è certa: devo conoscere palmo a palmo il luogo che fa da sfondo alla mia narrazione, anche se fisicamente non ci sono mai stata! Nel momento in cui ne scrivo, io mi trovo lì.

 Il libro più bello che hai letto?
Di libri belli ne ho letti tanti, ma uno di questi ha orientato le mie scelte di vita: “La scoperta di Troia” di Heinrich Schliemann, letto quando avevo dodici anni.

 Il luogo più strano in cui scrivi?
Migro continuamente con il mio PC sotto braccio e tutti i miei appunti. L’importante è che ci siano la giusta atmosfera, la giusta ispirazione e che io sia sola. Esigo un rapporto esclusivo con il mio libro… ovviamente finché è in fase di stesura!fede2

Bene, Federica! Direi che abbiamo iniziato alla grande.
Prima di cominciare la nostra chiacchierata ti svelerò un segreto. Quando frequentavo le scuole medie, alla domanda “cosa farai da grande” rispondevo “l’archeologa”. C’era un mistero particolare nei resti delle antiche città, nelle tombe dei faraoni, nella storia che leggevo sui libri e immaginavo di dover rivelare al mondo. Non so per quale motivo questo amore per l’archeologia che ancora oggi provo non abbia avuto sfogo e la vita mi abbia portato altrove, ma ti assicuro che è un’emozione per me oggi chiacchierare con un’archeologa in carne ed ossa. Quindi intanto grazie!
Veniamo a noi.
“La scoperta di Troia” di Heinrich Schliemann, importante archeologo tedesco, ha segnato la tua vita professionale. Ce ne vuoi parlare? Ci racconti un po’, se ti va, di cosa ti occupi?
Grazie a te Roberta per questa bella opportunità di condividere un po’ di storia personale. Tendo ad essere caratterialmente schiva e quando ho deciso di scrivere, l’ho fatto con il nome di FG Bart (l’altra me!).
È ovvio però che in ciò che scrivo vadano ad influire la mia formazione, il mio amore per le civiltà passate e per la storia in genere.
Nelle mie scelte professionali ho semplicemente assecondato lo stesso impulso, o inclinazione che dir si voglia, come hai ben descritto nella tua domanda. Sono laureata in Lettere e specializzata in Archeologia medievale, prediligendo quindi un’epoca diversa da quella dell’archeologia cosiddetta classica (latina, greca, orientale) che, fino agli anni novanta, era stata predominante. La mia attività è molto varia: prendo parte a campagne di scavo con gruppi italiani ed inglesi, sul territorio nazionale e non. Un lavoro di cui vado particolarmente fiera è la ricostruzione topografica della Verona altomedievale eseguita basandomi sul confronto delle fonti scritte, storiche, iconografiche e di scavo. Mi ha impegnata per lungo tempo al fianco di persone fantastiche delle quali leggevo sui miei libri di testo e che adesso sono colleghi ed amici. Pensa che una copia di questo studio viene conservata nella Biblioteca Capitolare di Verona, una delle biblioteche più antiche e affascinanti al mondo. Queste, per me, sono soddisfazioni.
Ma ora mi zittisco, sono già diventata noiosissima; FG Bart, te lo assicuro, è più divertente!

Mi hai dato il la per la seconda domanda. Poi, fra poco, parleremo anche di Una scomoda memoria. Visto che FG Bart come dici tu è più divertente, parliamo un po’ con lei.
Come mai hai deciso di pubblicare il tuo romanzo usando uno pseudonimo anziché il tuo vero nome? Di solito lo si fa per non essere riconosciuti oppure per incrementare le vendite ma nel tuo caso credo non siano questi i motivi della scelta. Ce ne vuoi parlare? Ti capita mai di pensare in un modo quando sei Federica e in un altro totalmente opposto quando indossi gli abiti di FG Bart? È una domanda un po’ forte e forse anche folle, vorrei portela perché a me capita e sono curiosa di sapere se di pazzi come me ce ne sono in giro altri! Senza offesa ovviamente, Fede, io considero la pazzia una fantastica normalità e credo sia un po’ la condizione di normalità degli stessi scrittori: senza un po’ di follia non esisterebbero la scrittura, l’arte… non credi?
Certo che lo credo; lo condivido nel modo più assoluto.
Ebbene, ti farò parlare con quella più spavalda e con più “self confidence” tra le due!
L’idea di utilizzare uno pseudonimo è venuta dalla volontà di abbreviare un nome lungo. FG Bart è corto, si ricorda facilmente, è internazionale e soprattutto è privo di genere. Sì, hai capito bene, né femminile né maschile, unisex insomma. Mi piace l’idea di una scrittura affrancata dal genere, sia dell’autore che del lettore.
Dopodiché, si può dire che ci ho preso gusto e mi sono accorta che “in incognito” scrivevo più liberamente, funzionava; la mia fantasia non aveva limiti. Intendiamoci, la base storica per me dev’essere ineccepibile, senza errori, ma la storia che andavo a creare, la “mia” storia, poteva essere finalmente inventata di sana pianta. Davo tutto lo spazio che volevo al connubio tra l’amore per le origini, la storia e la ricerca uniti alla mia sete di scoperta e al fascino per il mistero e l’intrigo. Incastravo così i personaggi del romanzo tra gli eventi realmente accaduti, facendoli relazionare con personaggi realmente esistiti.
Forse, come FG Bart, ho semplicemente assecondato quell’attrazione mista a magia che si prova nel riportare alla luce ciò che il tempo e gli eventi hanno sepolto per tanto tempo.
Se i miei romanzi uscissero con il mio nome mi sentirei in colpa, mi sembrerebbe di fare un torto all’altra me (quella noiosa, prudente e scrupolosa!).
Sicuramente quando scrivo mi rilasso e mi diverto. Non ho freni se non quelli della coerenza allo svolgimento del racconto, del rispetto della grammatica e del buon gusto.
Come puoi facilmente dedurre fin qui, FG Bart dice, ma soprattutto scrive, cose diverse e talvolta opposte, da Federica; e quant’è spassoso…
Per noi scrittori, come per gli artisti in genere, un po’ di follia è genetica; altrimenti cosa ci spingerebbe a metterci così in gioco e talvolta a nudo? O mi sbaglio?
Ti dirò di più: mi piace anche pensare che nella follia degli artisti ci sia spesso un po’ di genio incompreso, come tanti esempi illustri ci ha consegnato proprio la storia. Ma non è certo il mio caso!

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Certo è tutto molto affascinante. A partire dalla ricerca delle fonti e delle informazioni fino a costruire un qualcosa che è vissuto, nel tuo immaginario, centinaia di anni fa. L’amore per la storia è qualcosa di totalizzante. O l’ami o la odi.
In Una scomoda memoria è evidente l’amore dell’autore (FG Bart) per la storia. Non c’è parola o frase che non sia stata studiata in maniera millimetrica e che renda il tutto molto credibile. Anche la fiction che ci hai imbastito sopra. Ecco la definirei così: una fiction giallo storica.
Mentre ti leggevo ho ammirato il notevole lavoro che hai fatto; oltre all’immenso impegno necessario quando si scrive un romanzo, tu hai dovuto gestire un surplus legato appunto all’analisi storica.
Ci racconti come svolgi le tue ricerche, a quali fonti ti riferisci per le tue indagini e quanto tempo hai impiegato per raccogliere le informazioni necessarie per scrivere Una scomoda memoria?
Ti ringrazio per le belle parole sul mio lavoro. Apprezzo molto il tuo parere e mi piace la definizione che hai dato di fiction giallo storica. Calza a pennello con ciò che ho inteso realizzare.
Terminato il mio gongolamento, ti confesso che a metà stesura di Una scomoda memoria mi era venuto un grande sconforto. Ho temuto davvero di non essere in grado di gestire, senza commettere errori madornali, l’intreccio di eventi e personaggi che spostavo da un posto all’altro e da un’epoca all’altra, facendo loro combinare le cose più incredibili.
Ho pensato di aver sbagliato a mettermi alla prova partendo da un romanzo e che, forse, avrei dovuto prendere in considerazione di scrivere prima dei racconti. Non penso affatto che il racconto sia più facile, beninteso, richiede sicuramente un ritmo rapido e incalzante che condensi la storia da raccontare ma, a mio parere, il romanzo è più complicato da gestire proprio per la sua lunghezza e distensione, soprattutto se si tratta di un romanzo storico.
Ormai però mi ero intestardita e volevo arrivare in fondo. Così, dopo un paio di mesi di blocco totale, durante i quali non rileggevo neppure ciò che avevo già scritto, sono ripartita, riordinando lavoro e idee con schede varie e la scrittura filava rapida; ti assicuro, pareva che improvvisamente sapessi dove andavano messe le tessere di un puzzle. Penso che leggendo il romanzo questa cosa si percepisca un po’, anche se nella stesura definitiva ho spostato all’inizio alcuni capitoli scritti nel secondo tempo.
Il lavoro di ricerca è avvenuto in contemporanea al romanzo. Per rispondere quindi alla tua domanda su quanto tempo abbia impiegato per raccogliere i dati necessari alla mia narrazione, ti rispondo che nella realtà non ho compiuto una ricerca prima di iniziare a scrivere, ma ho semplicemente cominciato utilizzando e rimettendo insieme nozioni che già possedevo, sopralluoghi fatti per lavoro, esperienze di viaggio personali, tanti libri (non dimenticare che sono un topo di biblioteca!), che andavo ad integrare, in contemporanea all’elaborazione del testo, con ricerche mirate ad arricchire la mia fiction. Ho posto molta attenzione a non gravare la narrazione con inutili e boriosi sfoggi di cultura (cosa che anche troppo spesso capita con i romanzi storici), ma limitando le citazioni e le descrizioni storiche solo per inquadrare e definire meglio il contesto.
È stato poi molto bello leggere, in svariate recensioni, che veniva apprezzata la coerenza e la precisione storica che fa da base al racconto ed è stata per me una splendida occasione per approfondire la conoscenza su più fronti.
Da quando è nata l’idea del libro all’autopubblicazione sulle principali piattaforme editoriali digitali sono passati circa dieci mesi di lavoro diciamo part-time.
Anche la collaborazione con la mia editor, che ne ha seguito la pubblicazione per la casa editrice, è stata una splendida esperienza, molto formativa.
Per quanto riguarda i luoghi dell’ambientazione ho optato, come si suol dire, per giocare in casa scegliendo per la maggior parte posti a me familiari (sottolineo ‘per la maggior parte’ dato che la compagnia, formata dai tre protagonisti, gira come una forsennata!).

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Grazie Federica, se me lo consenti, riprendo alcune tue frasi per ampliare un po’ con te l’argomento scrittura: “lavoro di ricerca in contemporanea al romanzo”, “non gravare la narrazione con inutili e boriosi sfoggi di cultura”, “sono un topo di biblioteca”.
Artigianato! La scrittura è un’attività di puro a
rtigianato, sei d’accordo?
Io credo che tu ci abbia regalato alcuni spunti di riflessione importanti. Chi pensa di approcciarsi alla scrittura con leggerezza non ha capito che la leggerezza va applicata alle parole, al testo, non al lavoro che la scrittura richiede. Non esiste genere che sia semplice e tu l’hai espresso benissimo quando dici: “Non penso affatto che il racconto sia più facile”.
Scrivere con meno parole non significa “facile”. Scrivere senza essersi preparato diligentemente è l’errore più grande che uno scrittore possa commettere. Scrivere senza leggere atrofizza la narrazione lasciandola sterile e povera.
Quello che hai rappresentato è il profilo esatto dello scrittore. E “un paio di mesi di blocco totale” non significano non scrivere, anzi. Uno scrittore scrive anche non scrivendo.
La mia prossima domanda non è una domanda, vorrei un tuo parere su questa mia riflessione che ti ringrazio di avere sollecitata.
Condivido appieno il fatto di considerare la scrittura un’attività artigianale e ti confesso di non averci mai pensato prima in questi termini.
Il lavoro che sta dietro alla stesura di uno scritto, che si tratti di un articolo di giornale condensato in un numero predefinito di parole, o di un racconto, o un romanzo, o un saggio divulgativo o altro è sempre, e sottolineo sempre, il risultato di una lunga ed accurata attività di studio, di approfondimento, di ricerca e analisi sia per i contenuti che si vanno a comunicare, sia per la forma e lo stile con i quali si presentano. Leggere è certamente una parte fondamentale della preparazione. Tiene aperta e allenata la mente e fornisce prospettive di valutazione diverse. L’attività dello scrittore è manuale, personale ed avviene con l’ausilio di pochi semplici strumenti (la definizione “attrezzi” calzerebbe meglio con l’artigianato!).
Prima di pubblicare i propri scritti è bene che vengano letti ed esaminati da esperti, un occhio critico ed obbiettivo che permetta di avere un “prodotto” di qualità (come nell’artigianato d’altronde), questo è il fondamentale lavoro di un editore serio e professionale.
Ti confido una tenace sensazione che sto provando durante la stesura del secondo romanzo: adesso percepisco molto più imponente il peso della responsabilità di produrre un buon lavoro, che non deluda il mio editore ed i miei lettori, rispetto al primo romanzo che ho scritto di getto, senza pensare che qualcuno l’avrebbe mai letto!
Non dimentichiamo che la scrittura è la forma più durevole ed efficace per la trasmissione e conservazione della memoria, con la M maiuscola, e delle informazioni in genere. La scrittura resta, come gli antichi romani saggiamente sostenevano: “verba volant, scripta manent”!

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La “cassetta degli attrezzi” dello scrittore, come la definisce Stephen King nel suo meraviglioso On Writing, è qualcosa di indispensabile, è ciò che tutti gli autori dovrebbero avere ed utilizzare.
«Per scrivere al meglio delle proprie capacità, è opportuno costruire la propria cassetta degli attrezzi e poi sviluppare i muscoli necessari a portarla con sé» dice King. Ed io credo proprio che sia così.
Siamo arrivate in fondo a questa avventura e ti pongo la mia ultima domanda.
Intanto in bocca al lupo per il tuo secondo romanzo che immagino sarà sempre un giallo storico.
Hai tutta la mia ammirazione!
Da quando hai cominciato a scrivere non hai mai pensato ad un genere diverso? Un rosa, noir, erotico, per ragazzi o narrativa in genere? Solitamente ogni autore ha un suo filone preferenziale. Tu rimani fedele al romanzo storico o ti lasci aperte alcune porte?
“Crepi il lupo!” (Povero lupo…) Grazie Roberta.
Per questo secondo romanzo è in corso una lenta gestazione, ma ce la farò!
Per rispondere alla tua domanda sul genere, ti posso dire che mi viene naturale ambientare le mie storie nel passato e amo il thriller, il giallo in generale. Per diletto leggo tendenzialmente romanzi gialli sia contemporanei che storici e nel caso di questi ultimi sono incontentabile: cambierei sempre qualcosa.
Forse è per questo che ho cominciato a scriverne io; mi sono detta: «Vediamo allora cosa sei in grado di fare tu!»
Quando però mi sentirò rodata a sufficienza chissà, mai dire mai…
Magari potrei ambientarne uno nel futuro; in casa avrei già due potenziali lettori!

Capisco cosa intendi, anche io ho avuto la tentazione di scrivere il libro che avrei voluto leggere e forse… l’ho anche scritto!
Grazie Federica per avermi dedicato il tuo tempo, tu sei l’ultima autrice che ospito nel mio salotto per il 2016. Con te chiudo l’anno e auguro a tutti i lettori un Natale ricco degli affetti più cari e un Capodanno pieno di bollicine. Vi aspetto nel 2017 per nuovi e interessanti appuntamenti con l’autore.
Ti ringrazio di cuore Federica e ti aspetto nuovamente nel mio salotto per parlare del tuo prossimo libro.

BUON NATALE A TUTTI E FELICE ANNO 2017.

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