L’ora del tè, quando i ruoli si invertono: Ilaria Vitali intervista Roberta Marcaccio

Mancano dieci minuti alle cinque, Roberta è qui di fronte a me, tamburella nervosa con le dita sul bracciolo della poltrona, facendo tintinnare braccialetti e pendagli, fissandomi silenziosa da dietro gli occhiali, a metà tra il divertito e il preoccupato.
Sono Ilaria Vitali, mi sono impossessata del salotto di Roberta Marcaccio e ho uno scopo preciso: intervistarla.
«Ma sei sicura?» mi chiede in un soffio.
«Zitta, le domande le faccio io!»
Ride Roberta, non mi prende sul serio e la sua risata per un attimo mi travolge piacevolmente.

Roberta, prima o poi sapevi che sarebbe successo. Adesso tocca a te, siediti comoda, smetti per favore di tintinnare quel braccialetto e rilassati. Ho già preparato il tuo tè preferito e una fetta di crostata di ciliegie. Qui c’è gente che aspetta, vogliamo cominciare?
Sono comoda, ma guardare le cose da questa diversa angolatura mi crea un po’ d’ansia. Di solito le domande le faccio io. E poi vorrei sapere chi ti ha suggerito qual è il mio tè preferito e che amo la crostata di ciliegie. Vabbè, pazienza, visto che i lettori sono interessati ad altro iniziamo pure. Sono pronta!

cropped-Roberta-2.jpgRoberta Marcaccio, lavoratrice indefessa, moglie e mamma, figlia e nipote, scrittrice prolifica, lettrice affamata, la domanda sorge spontanea: come fai a conciliare una vita così frenetica? Ho come la sensazione che la scrittura e la lettura rappresentino questa stanza, dove tu riesci a isolarti mentre fuori il mondo cammina a velocità sostenuta. L’ora del tè non è casuale, è il luogo che tu hai creato, un rifugio morbido dove Roberta trova serenità. Vuoi parlarcene?
Guardandola da fuori, la mia vita, è davvero come la descrivi tu, ma fino ad ora non l’avevo mai analizzata. In effetti me lo sento ripetere spessissimo: “Ma dove trovi il tempo per scrivere?” Negli occhi di chi mi fa questa domanda leggo il rispetto del mio interlocutore nei confronti di un amore che è ormai molto più grande di quanto io riesca a gestirlo. È diventato anche il “tormentone” del mio BLOG – Il mio amore per la scrittura – è il mio mantra, è una urgenza che mi costringe a scrivere, perché quando ami una cosa o una persona con tutto te stesso vuoi stare o solo con quella cosa o con quella persona. Devo dire la verità, a volte vado in overflow, succede quando ho “in lavorazione” più attività di quelle che riesco a gestire; in questo ultimo periodo ho superato il limite di guardia, tanto che ho dovuto rallentare: mi sono ritrovata con un romanzo in scrittura, la rubrica de L’ora del tè a pieno ritmo, i libri da leggere (perché gli scrittori prima di scrivere leggono) più i manoscritti da selezionare per la collana di cui sono lettrice, le presentazioni di Tranne il colore degli occhi (quattro in due mesi), i racconti che ogni tanto ho l’orgoglio di vedere pubblicati su Il Colophon, la rivista letteraria di Antonio Tombolini Editore… Però, anche quando rallento, il mio cuore è sempre là, la testa macina storie, il bisogno di scrivere si fa urgenza e, in un modo o nell’altro, devo immergere le mani nelle pagine dei libri, miei o di altri.
L’ora del tè, che come dicevo ha subìto un rallentamento forzato ma ripartirà presto con nuovi e interessanti scrittori, è la rubrica nata per dare voce agli altri autori, farli conoscere in un modo semplice e simpatico, simulando una chiacchierata in salotto all’ora del tè. Mi piace il rapporto vivo, quello vero, a faccia a faccia, mentre si parla di libri, scrittura e arte in genere. E volevo che il mondo caotico venisse confinato fuori da questo piccolo angolo silenzioso in cui regna sovrana la parola scritta e la voce dell’autore. Spero di essere riuscita nel mio intento e mi auguro che la rubrica sia apprezzata.
Devo dire che grazie ai tanti impegni e soprattutto a L’ora del tè, ho imparato ad organizzarmi. A dedicare il tempo giusto alle cose. A fare la scaletta delle priorità e a riempire fogli e fogli di TO DO che si alleggeriscono mano a mano che tiro una riga sopra alle cose fatte. Non sono una super-woman. Sono semplicemente una che sacrifica tutti i momenti liberi per amore di una cosa importante in cui crede: le pause pranzo, la mattina presto e la sera tardi e qualche mezza giornata nei week end. In mezzo a tutto il resto, ovviamente.

La scrittura, potente mezzo di comunicazione prima con sé stessi che con gli altri. Perché questa urgenza di scrivere? Io da scrittrice me lo sono chiesto mille volte senza darmi una risposta soddisfacente. Quando scrivi, cosa succede?
L’urgenza di scrivere nasce da un bisogno interiore: raccontare storie è come vivere altre vite. Da piccola me le raccontavo da sola, erano il mio passatempo nei momenti di solitudine, mi facevano compagnia. Raccontare storie è ossigeno, cibo, vino, è vita. Ora che sono grande (così dice l’anagrafe!) quelle storie che mi racconto da sola, premono affinché io le scriva per gli altri.
Scrivere (e leggere) è come vivere centinaia, migliaia di altre vite, quelle che non potremo vivere mai.

10423644_990163001033578_6127305744714367041_nIo ho conosciuto Anna. Ancora una donna, coinvolta da eventi profondi, di quelli che lasciano il segno. Anna è la protagonista del tuo prossimo libro in uscita, Ti raggiungo in Pakistan, che ha già solleticato la curiosità di chi, come me, segue le tue avventure letterarie. Chi è Anna?

Innanzi tutto devo spiegare una cosa che riguarda Anna. Devo chiarire la confusione che ho involontariamente creato sui social. Chi mi segue su Facebook, Twitter, trova citazioni, estratti, brani, monologhi firmati Anna. Con gli amici ho parlato tanto del romanzo che stavo scrivendo facendo riferimento ad Anna. E per tutti, è Anna.
Quando accenno a Ti raggiungo in Pakistan noto il disorientamento negli occhi dei miei interlocutori e più volte mi sono sentita chiedere: “E Anna? Quando lo pubblichi?”
La risposta è facile: Ti raggiungo in Pakistan è Anna.
E così spero di avere chiarito il fraintendimento che ho provocato.
Ed ora veniamo a lei.
Anna è uno specchio, la proiezione della mia anima ribelle e in subbuglio. A lei ho trasferito tre cose che mi appartengono e che sono parte predominante della mia vita: l’amore per la scrittura, per il mare e l’amicizia.
Anna è parte della mia essenza primaria.
Contiene le cose che amo, le mie passioni, i sogni, tutto ciò che fa parte di me e del mio mondo.
Ovviamente non contiene i dettagli della mia vita privata. Non è un’autobiografia.

Possiamo quindi ritornare a quello che affermavi poc’anzi sull’urgenza di scrivere come esperienza di viaggio e di vivere altre vite. Anna è una Roberta in un ipotetico mondo parallelo? Se sì, il fatto che sia privo di elementi autobiografici, Ti raggiungo in Pakistan si presenta più come un sogno a occhi aperti? E qui tocchiamo il tuo modo particolare di accompagnare i personaggi delle storie che scrivi, un modo che definirei al confine tra il materno e il fraterno, dove a tratti si percepisce la forte empatia con alcuni di essi. Con Anna è stato così? In parte hai già risposto, ma vorrei che parlassi del tuo legame con lei.
L’urgenza di scrivere nasce dalla mia incapacità di vivere una sola vita. È un bisogno che è nato con me, si è sviluppato fin da piccola, durante la lettura dei primi libri o la visione dei miei film preferiti (non ho perso neanche una puntata di Ellery Queen oltre ad aver letto i libri ovviamente). Dall’adolescenza in poi le storie ho iniziato a raccontarmele da sola. Erano il mio passatempo. Un vero sogno ad occhi aperti. Da qui l’esigenza di trasportarmi in un altro mondo in cui vivere una vita diversa, irreale e reale allo stesso tempo.
La scrittura ha amplificato un processo nato con la lettura, che continua ancora oggi.
L’amore per i libri va oltre ogni altra passione. Il bisogno di fantasticare, sognare è irrefrenabile. Potrei smettere di leggere e scrivere ma la mia anima continuerebbe a produrre storie.
Per nutrirsi.
Non c’è nulla di autobiografico nelle storie che invento.
Che bisogno avrei di scrivere la mia vita; la sto già vivendo ed è più che sufficiente.
Certo, nei racconti ci finiscono situazioni, persone ed emozioni che mi ruotano attorno. Questo è normale.
Se qualcuno pensa che ciò che scrive un autore sia completamente inventato si sbaglia di grosso. Anzi, vorrei mettere in guardia gli amici degli scrittori: prima o poi potreste essere rinchiusi in un capitolo.
E il sogno a occhi aperti di cui parli, oggi è un sogno reale. È quello stato di trance che caratterizza gli scrittori e che a volte li fa apparire assenti e un po’ folli. Quando lo scrittore è con lo sguardo perso nel vuoto o assorto, non sta riposando, non è depresso e nemmeno triste: sta semplicemente lavorando.
Ti rispondo alla seconda parte della domanda. Parlare di Anna per me non è facile. È un personaggio che io amo profondamente, sono cinque anni che vive con me, al mio fianco, la osservo mentre lavora, vive, soffre. Mentre ama.
Come ho già detto, a lei ho trasferito alcune mie manie o passioni ma anche alcuni moti della mia anima. In effetti forse le ho trasferito un po’ troppe cose.
Devo dire che mi sono divertita a cucirle addosso la vita che desiderava vivere. A farle incontrare gli uomini sbagliati e poi quelli giusti o viceversa. A farle fare il lavoro che amava. Ad affiancarle l’amica giusta.
È stata Anna a parlarmi e a raccontarmi di sé. Io ho solo trascritto sulla carta.
Io sono stata il suo specchio… e lei il mio.

IMG-20160718-WA0017Tranne il colore degli occhi è uscito nel 2016 nella collana Amaranta di Antonio Tombolini Editore, per Ti raggiungo in Pakistan hai scelto una nuova avventura che è quella dell’auto pubblicazione. Da fuori emerge una volontà quasi viscerale di fare in modo che Anna abbia voce, quasi che fosse un elemento materico che hai deciso di plasmare dall’inizio alla fine senza percorrere strade più convenzionali. Ce ne vuoi parlare?
Ho riflettuto tanto sul futuro di Anna, per molti mesi, ho pensato e ripensato a quale dovesse essere il suo ruolo e soprattutto chi dovesse occuparsi di lei. Anna ha incontrato diversi editori, ha ricevuto critiche positive e suscitato interesse.
È nata nel 2012 e da allora ha subito diverse fasi di lavorazione; l’ho scritta, riscritta, corretta, riletta, anche quando era già a posto è ripassata di nuovo sotto la macchina dell’editing. In un attimo di follia avevo addirittura pensato di riscrivere il finale. Anna è nata di getto, è giunta a me con la forza di uno tsunami, mi ha travolta con la sua potenza e con la stessa urgenza mi ha costretta a scrivere di lei.
È dentro di me in modo inscindibile.
Chi mi conosce bene sa cosa intendo. L’energia che mi trasmette è vita piena, vera. Ha una forza che non può non essere comunicata.
Anna merita voce. Merita di essere conosciuta, letta, amata o odiata, apprezzata o disprezzata. Merita di essere accompagnata, presentata, annunciata.Mi aspetto commenti positivi ma anche negativi. Questo non toglie che Anna lascerà qualcosa di sé in tutti.
Con questa consapevolezza mi sono fatta le mille domande che un autore si fa prima di consegnare la sua opera a una casa editrice.
Non sarà sicuramente il libro della vita o il bestseller dell’anno ma merita le attenzioni che vale.
Dopo queste riflessioni mi sono risposta.
L’unica persona che può presentarla al mondo è colei che l’ha creata, plasmata, educata, cresciuta.
Non c’è nessun altro che possa offrirle la vetrina che merita. E da qui la decisione, difficile e ragionata mille volte, di produrla da sola. La paura è di non farcela, non avere tempo sufficiente, non essere capace. Confido nella passione che mi muove e nell’amore che ho per lei.
Anna è una storia di passione, amore, amicizia, vita, sogni. Ha la profondità del mare, lo stesso che lei ama, e spero non venga trattata per una banale storia d’amore.
Aggiungo che il prodotto finito è il risultato di un lavoro a più mani. Ho voluto curare Anna in tutto e per tutto: l’editing, la copertina, tutta la grafica e la produzione del libro sono stati realizzati da Carla Casazza e Carlo Alberto Civolani, miei carissimi amici oltre che grandi professionisti.

 

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Roberta, a questo punto non ci rimane che attendere l’uscita di Ti raggiungo in Pakistan, ma vorrei chiudere questa intensa chiacchierata con un’ultima domanda.
Al di là di quello che hai detto prima riguardo al fatto che Anna rappresenti la proiezione della tua anima, i personaggi delle tue storie sono sempre donne. Perché l’universo femminile?
Ad essere sincera un motivo preciso non c’è, è una cosa avvenuta per caso. La risposta facile sarebbe: “perché l’universo femminile mi appartiene”, ma non è così.
Ti racconto una cosa successa durante una presentazione del mio romanzo Tranne il colore degli occhi, che forse può aiutarci a spiegare questo fenomeno. Una ragazza in sala mi ha fatto una domanda che nessuno mi aveva mai posto e quella sua riflessione è stata come uno “squarcio di luce in mezzo a tante nubi” (cit). Tutto quello che ho scritto fino a ora, è il risultato di un percorso preciso di cui non ero cosciente. La scrittura parte sempre da un’idea che poi la fantasia sviluppa. Ed è stata proprio la mia fantasia a portarmi nel luogo giusto, quello dell’anima delle donne.
La ragazza che ha provocato quella riflessione è parte di questo percorso. È l’anello di congiunzione di tanti tasselli di cui, fino a quel momento, non comprendevo il significato.
Nei giorni successivi a quella presentazione ho messo assieme le tessere del puzzle e ho capito quale scrittrice voglio essere da grande. È la strada avviata con Tranne il colore degli occhi, che proseguirà con Ti raggiungo in Pakistan e che definirà il mio genere: letteratura femminile. Non romance, non eros, ma femminile.
Storie dal contenuto scomodo. Storie di donne che parlano alle donne, ma anche storie di uomini con a fianco grandi donne.
Spero di non essere travolta dalle critiche maschili, il mio intento non è sminuire il mondo degli uomini, ma trovare nell’anima delle donne la ricetta per crescere, riflettere, fare propri certi sentimenti ed emozioni che possano rendere meno difficile vivere. Indipendentemente dal sesso.

Direi che abbiamo finito e che puoi riprendere le redini de L’ora del tè. Non senza prima avermi versato un Martini Rosso! Suerte!

Ma potrò brindare con una che beve Martini Rosso? Mi verso una Saison! Prosit!

Ringrazio Ilaria Vitali per la splendida e ironica intervista. Oltre a essere una bravissima scrittrice Ilaria è anche mia grande amica, una delle poche persone al mondo che appartengono per motivi inspiegabili e stregoneschi alla mia anima. Vi aspetto alla prossima puntata de L’ora del tè.

“Per brevità chiamato artista” è il titolo del nuovo numero de Il Colophon

E’ online, da qualche giorno, il nuovo numero de Il Colophon, la rivista letteraria di Antonio Tombolini Editore.

Il direttore de Il Colophon, Michele Marziani, ci racconta qual è il tema di questo numero nel suo editoriale.

“A volte ci si innamora di cose che non c’entrano niente. Così mi è successo per il titolo della bella canzone di Francesco De Gregori Per brevità chiamato artista. L’ho preso in prestito, ne ho stravolto il significato — nella canzone indica contrattualmente la professione del cantautore — e l’ho usato per Il Colophon. Mi è piaciuto il gioco tra la brevità e l’artista. Gioco che sta all’argomento di questo numero della rivista: le short story, i racconti, la narrativa breve.”

E’ un numero interessante, assolutamente da leggere. Contiene anche un mio articolo sulla vocazione di Antonio Tombolini Editore di pubblicare racconti e il mio racconto Tè al gelsomino.

Buona lettura!

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Michele Marziani

Lo presento, ma il suo nome parla da sé. Michele Marziani – giornalista, scrittore, maestro di scrittura, editor, direttore editoriale di Antonio Tombolini Editore per il quale dirige anche la rivista Il Colophon – è nato a Rimini ma è cittadino del mondo. Ha vissuto in Romagna, in Piemonte e in Lombardia. Oggi vive in tre luoghi: a Rimini, a Dublino e sulle alpi piemontesi. Però se pensa a “casa”, pensa al Monte Rosa. Questa ce la faremo spiegare da lui!
Michele ha al suo attivo sette romanzi più una serie di libri di viaggi enogastronomici.
La scrittura non è il suo lavoro, ma la sua vita.
È un’emozione averlo qui con me, oggi, nel mio salotto. Prepariamo il tè e iniziamo subito la nostra chiacchierata.

Michele, benvenuto nel mio salotto e grazie per aver accettato il mio invito. Sono le cinque di mercoledì otto febbraio e stiamo per iniziare la nostra chiacchierata. Prima però ti chiedo cosa gradisci? Tè, caffè, infuso? Biscotti, crostata?
So che sarebbe l’ora del tè, ma prendo volentieri un caffè lungo, americano, senza zucchero e una fetta di crostata. Buona la marmellata di lamponi.

Fantastico! Se sei comodo, iniziamo con le cinque domande introduttive.
Comodissimo. Davvero onorato di essere qui.

A che età hai iniziato a scrivere?
A sei anni, più o meno. Quando ho imparato. All’inizio preferivo i fumetti. Poi la poesia. La narrativa è venuta dopo.

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Tazza di caffè sempre piena.

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
Dove vivono i miei personaggi.

Il libro più bello che hai letto?
Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline.

Il luogo più strano in cui scrivi?
L’angolo delle macchinette del caffè al piano interrato del Trinity College a Dublino.

10858434_795450307171516_6764053761804055060_nPer me non esiste altro. Una frase bellissima di Bernard Malamud (che prenderò in prestito!) a cui fai riferimento nella tua biografia. I libri, prima come lettura e poi come scrittura, permeano la tua vita da sempre. Ci racconti com’è iniziata questa passione così grande?
Chi ti conosce (ed io sono fortunata ad avere questo onore) percepisce in te l’amore smisurato per la parola scritta. Un amore che supera ogni altra passione. So che la domanda può sembrare sciocca ma vorrei che tu ci raccontassi perché hai deciso che da grande avresti fatto lo scrittore e se hai mai preso in considerazione un altro mestiere. Io personalmente ti vedo bene nei panni che indossi, ma per curiosità, ti sarebbe piaciuto fare, che ne so, l’astronauta, il giardiniere, il cuoco? In fondo hai scritto anche libri di ricette…
Guarda, io sono sempre stato affascinato dalla parola scritta perché mi indica qualcosa di nuovo, mi insegna qualcosa che non so. Se non so leggere e vedo un cartello blu con dentro una scritta bianca non so nulla, ma quando imparo a leggere ci leggo dentro “Milano” e allora imparo dove sono.
Ho sempre letto di tutto, da quando sono nato, compresi i bugiardini delle medicine e le istruzioni degli elettrodomestici, mi piacciono le parole scritte dentro la vita vera, come i cartelli stradali. Per questo sin da bambino sono stato un divoratore di fumetti. Nei fumetti c’è la parola scritta dentro alla vita disegnata. Li amavo. E amavo il disegno, non facevo altro che disegnare, ovunque, comprese le pareti della mia stanza (mio papà era un seguace convinto del pediatra Benjamin Spock). Questo avrei voluto fare: il fumettista. Però non mi riusciva, non riuscivo a far combaciare quello che avevo in testa con quello che disegnavo. Il segno grafico mi tradiva. E tutto questo è stato per me molto frustrante, per parecchi anni. Leggevo tantissimo, ho sempre letto tantissimo, oltre ai fumetti, libri di ogni tipo. Lo facevo perché ero spesso malato e la televisione non c’era e andavo sovente dai medici, finivo in ospedale e i libri, assieme, appunto, ai fumetti, mi facevano compagnia, mi permettevano di vivere vite più interessanti di quella di un ragazzino nella sala d’attesa di un ambulatorio.
Non ho capito subito che oltre a leggere potevo scrivere. Ho avuto la ventura di comporre delle poesie, come tutti gli adolescenti. Erano brutte. Poi una sera ho attaccato i versi tra loro e ho visto qualcosa che non avevo compreso prima: un racconto scritto sì da me, ma nato da solo. La mia scrittura è questo: lasciare spazio a cose che nascono per conto proprio. Certo, dopo un lungo lavoro di ricerca e di immedesimazione, anche, ma le parole prendono posto autonomamente e come le ritrovo mi piace. A differenza dei disegni: anche loro vengono da soli, ma non sono come li vorrei. Racconti e romanzi non li immagino in qualche modo, li lascio liberi. Per questo, probabilmente, mi vengono abbastanza bene.
Appartengo a una generazione che ha creduto fortemente nella fine del lavoro: io, semplicemente, non vorrei lavorare. Se qualche volta ho immaginato un mestiere diverso dal mio è quello di non fare nulla, di andarmene in giro per il mondo, guardare che cosa accade. Mi piace moltissimo guardare la vita degli altri. Scrivere e leggere non sono un mestiere, sono la vita. La mia almeno.

Tazza di caffè sempre piena. Io di solito la riempio di tè o infusi. Il rito della scrittura in cui ogni scrittore si riconosce. Parlando di manie ed abitudini vorrei curiosare un po’ in casa Marziani, trasformarmi in farfalla ed osservarti nella tua giornata tipo dedicata alla scrittura: come ti organizzi, quale luogo scegli o preferisci, come gestisci i disturbatori, quando decidi che è il momento di iniziare a scrivere c’è qualcosa che deve succedere oppure inizia e basta? In sostanza, raccontaci quali sono le tue abitudini, se ne hai, quando scrivi.
Il punto è capire dove comincia la scrittura. Se inizia quando cominci a stendere le parole sul foglio allora ho poco da raccontare. Per me la scrittura parte molto prima, a volte anni prima, quando vengo avvolto da una sorta di frenesia e improvvisamente mi interessano cose di cui prima non mi importava niente e comincio a viaggiare dentro a idee che a volte diventano romanzi.
Provo a farti un esempio, sono un paio di mesi che penso a Garibaldi, all’Uruguay, alle fisarmoniche, ai migranti italiani, ai pellerossa americani, alla Beat Generation e a un viaggio coast to coast negli Stati Uniti che vorrei fare ma senza dimenticare Montevideo, il Rio della Plata, Buenos Aires… C’è nulla di sensato in questo? Ancora no, ma io avverto un prurito da qualche parte nell’anima che mi dice che anche solo un particolare di tutte queste cose diventerà una storia. Siccome però non so quale sarà mi guardo in giro, progetto viaggi, leggo libri, vado in luoghi che mi sembrano adatti. Adatti a cosa? Boh, lo scoprirò. Intanto obbedisco ad una sorta di istinto narrativo e ci vado. Poi mi faccio mandare vecchie riviste dai posti più strani. Cerco di incontrare esperti delle varie suggestioni che mi riempiono la testa. Questo accade piano piano. All’inizio sono pensieri che stanno di lato, mentre tu fai altro, ti occupi delle cose della vita. Poi diventano idee fisse. Infine un giorno, per caso, all’improvviso, come le illuminazioni Zen, intravedi una storia che spesso non c’entra nulla col casino che hai messo in moto. Però la riconosci e dici: quella è la storia. Così cominci a cercare con maggiore precisione e a costruirne il percorso nella testa. In tutto questo tempo io non scrivo una sola riga, disegno piuttosto, perché disegnare mi dipana i pensieri. Lo faccio su piccoli taccuini che riguardo raramente.
Poi un giorno qualcosa nella mia testa dice che è il tempo di scrivere. Allora mi apparto, mi metto in un angolo, metaforico e reale, chiudo la porta, non concedo accesso a nessuno e comincio a scrivere. A volte senza neppure fermarmi per giorni. Senza togliere il pigiama. Mangiando quello che avanza nel frigo e non rispondendo a nessuna sollecitazione dall’esterno. Nasce quasi sempre così la prima stesura.
Poi un giorno metto il punto e chiudo tutto in un cassetto. Mi guardo allo specchio. Mi faccio una doccia. Metto a posto la casa, mi vesto bene e esco a cena con la persona più cara che ho intorno. Rientro comunque nel mondo.
Dopo un mese, ritiro fuori il manoscritto e comincio a lavorare. Qui allora posso parlare di giornata tipo. Se riesco lavoro sul libro la mattina presto. Diciamo dopo colazione, dalle 7 alle 10. Poi se sono al mare vado in giro in bicicletta, pranzo e mi dedico alle altre cose della vita e del mio lavoro fino a sera quando vado a dormire prestissimo. Se invece sono in montagna vado a pesca oppure a funghi o semplicemente in giro fino all’ora di pranzo. Credo che sia in questo tempo liberato che la mente cominci a raccogliere stravaganze pronte per il libro successivo.
Il lavoro di limatura, riscrittura, messa a punto è il più lungo. Dura molti mesi. Con pause necessarie anche di un mese tra una lettura e l’altra, perché a quello che hai scritto con tanta ferocia verso te stesso e verso il mondo, adesso occorrono la cura del riposo e della riconciliazione. L’editing è spesso una carezza.

309443_2390791007480_1182024689_2746144_523145277_n1Grazie Michele, hai espresso molto bene quello che per te è la tua vita dedicata alla scrittura e come nascono le storie che scrivi. Prima di parlare nello specifico di alcuni dei tuoi libri, riprendo una cosa che hai detto poco fa, per ragionarci un po’ assieme. Le tue storie sono ambientate dove vivono i tuoi personaggi. Che è, più o meno, quello che tutti gli scrittori rispondono. La domanda forse sembra banale, ma l’ho rivolta a tutti gli autori per svelare quelle abitudini che tutti noi abbiamo quando scriviamo e di cui forse non ci accorgiamo, come ad esempio fare vivere i personaggi in luoghi più o meno sempre simili e vicini a ciò che amiamo. Ti faccio un esempio. Tempo fa feci leggere ad un’amica alcune storie che avevo scritto e dopo la lettura lei mi disse che facevo abitare i miei personaggi sempre in un casolare. Io non me ne ero accorta ma dovetti convenire che aveva ragione e da allora ci feci caso: amo la campagna e i miei personaggi di solito vivono lì.
Ho letto tutti i tuoi romanzi e la maggior parte di essi hanno un elemento in comune: l’acqua. Credo tu abbia capito cosa intendo. Ce ne vuoi parlare?
Ho scritto un libro per spiegare il mio rapporto narrativo con l’acqua e neppure so se ne sono stato capace fino in fondo. Comunque si intitola Il pescatore di tempo e attraversa tutti i luoghi e le mitologie della mia narrativa. Lo fa con la canna da pesca in mano, ma perché io sono anche un pescatore.
I protagonisti dei miei romanzi vivono tutti nei luoghi de Il pescatore di tempo, ne respirano il senso, ne percepiscono la forza anche quando odiano quella zona salmastra tra il fiume e il mare (Franco Botteghi in Barafonda); anche quando l’acqua è solo un pretesto cittadino (penso alla ciclofficina di Arnaldo Scura sulla riva del Naviglio della Martesana a Milano in Umberto Dei). Ma i due romanzi dentro ai quali io sono nato, perché dentro alla scrittura accade anche questo, di nascere un’altra volta, sono La trota ai tempi di Zorro in cui Stefano Baldazzi Morra impara a crescere grazie alle trote che nuotano nel torrente del suo paese e Fotogrammi in 6×6 dove il protagonista, un altro Stefano, fa esperienza diretta della diseguaglianza pescando i tritoni col suo amico Igor, uno zingaro, occasionale compagno di scuola. Persino in Nel nome di Marco che è la storia di un sacerdote tifoso di Marco Pantani, uno degli episodi cardine del libro è nell’incontro tra il padre del protagonista e il parroco del paese: sono su un torrente a pescare. La signora del caviale, poi, è completamente ambientato sulla golena del Po, cioè in quello spazio che sta tra il fiume e l’argine. Uno spazio che le stagioni regalano spesso agli uomini e ogni tanto al fiume in piena. Possibilità di vita e devastazione. Un rapporto che un tempo la gente accettava forzatamente e del quale oggi restano solo storie da raccontare: lungo il fiume Po ci sono 35000 (sì, hai capito bene, trentacinquemila) case abbandonate nelle golene. Nessuno oggi, giustamente, vuole più vivere lì, ma questo non vuol dire che chi ci è vissuto non abbia originato un’epica del fiume. Cito i primi autori che mi vengono in mente: Riccardo Baccelli e Beniamino Guareschi.
Per me l’acqua, narrativamente, è tutto. Ho scritto altri romanzi che arriveranno prima o poi in libreria: tutti seguono il filo di un fiume. Uno addirittura attraversa i mari, partendo da una piccola valle alpina italiana, passando per l’isola di Ventotene, poi la Spagna, per approdare nel Connemara, nell’ovest dell’Irlanda sulle sponde di un piccolo lago. In questo specchiarsi di acque si specchia la storia del Novecento. Sarà in libreria a luglio. Si intitola La figlia del partigiano O’Connor. Per la prima volta è una storia con una protagonista femminile. Di più ora non posso dirti.
L’acqua sulla quale si svolge la vita è il mio sogno infantile e lo ripeto all’infinito. Rubo le parole a Renzo Casali, indimenticato uomo di teatro e fondatore della Comuna Baires di Milano: «Tutto quello che faccio è cercare di realizzare quello che sognavo a otto anni». Anch’io.

libri micAllora, Michele, arrivata a questo punto della chiacchierata, di solito, cerco di catturare l’attenzione dei lettori sulla produzione letteraria del mio ospite. Come vedi, qui sul tavolino, ho una bella pila di tuoi libri: i romanzi, i racconti ed infine i libri dei viaggi enogastronomici. Ho l’imbarazzo della scelta, ma soprattutto sono condizionata da due cose: dal mio amore per i romanzi e soprattutto per i tuoi romanzi. Non vorrei togliere importanza alle altre tue opere, come ad esempio Un ombrello per le anguille, una bellissima serie di racconti scritti sull’acqua, oppure Fotogrammi in 6×6, un piccolo libretto che contiene tre storie intense e forti o Nel nome di Marco il tuo bellissimo romanzo dedicato al grande Pantani. Non vorrei togliere importanza alle altre tue opere, dicevo, ma mi piacerebbe che ci parlassi di due tuoi romanzi in particolare. Iniziamo con il primo, e cioè con Umberto Dei, biografica non autorizzata di una bicicletta. Prima di tutto vorrei che ci raccontassi com’è nata l’idea di questa storia e perché hai scelto proprio, come protagonista, una Umberto Dei; poi vorrei sapere perché è una biografia non autorizzata di una bicicletta e come è nato il titolo; ed infine, già che ci sei, raccontaci anche qualche curiosità, se ce ne sono, su questo libro.
L’idea è nata percorrendo in bicicletta il Naviglio della Martesana ogni giorno. All’epoca abitavo a Milano. Non mi piace la metropolitana, se posso preferisco andare a piedi o in bicicletta. E in bici, appunto, andavo a lavorare in viale Monza. Ogni volta che passavo davanti al portone dove poi ho ambientato il romanzo qualcosa mi attraeva, mi costringeva lì. Piano piano è nato il personaggio, è nata la storia, ma era una storia del cavolo perché raccontava di un ex rivoluzionario, di un cocciuto, estremista ed estremo, che andava in giro con la cosa meno estrema che c’è al mondo, una paciosissima bici da città. Poi ho scoperto le Umberto Dei, biciclette per maniaci, per feticisti direi. La bicicletta estrema. È nato tutto così, ad ogni passaggio sul Naviglio. È una biografia di una bicicletta perché è lei, il mezzo meccanico, che accompagna tutto il percorso narrativo. Non è autorizzata perché Umberto Dei, il costruttore, mica l’avrebbe mai scritta una biografia così delle sue biciclette. E suonava bene. Come suona bene Umberto Dei, prova a ripeterlo ad alta voce: dura il tempo di un giro di pedale. La sonorità è tutto nella scrittura. Curiosità? Tantissime, non saprei da dove cominciare. Anzi sì, mandai il manoscritto da leggere a due amici e loro, dopo averlo terminato, per tutta risposta mi regalarono una bicicletta Umberto Dei. Fu commovente. Anzi no, fu molto bello. Commovente fu invece una lettera che ricevetti da un professore universitario di Milano che mi disse che gli avevo raccontato la sua vita, o almeno la parte che lui sognava, compresa, purtroppo, la moglie amatissima che muore di un tumore. Proprio come nel libro. Umberto Dei è stato il mio tributo a Milano, l’unica città italiana per cui provo affetto.

Giuro, ho provato a ripetere a voce alta Umberto Dei e suona davvero bene. Se dura il tempo di un giro di pedale non lo so perché qui non ho una Umberto Dei ma mi fido di te. Sono stupita nello scoprire che abbiamo a cuore la stessa città e non ti nascondo che ho passeggiato più volte lungo il Naviglio della Martesana curiosando nei portoni e cercando qualche indizio per capire quale fosse il luogo in cui avevi ambientato la bottega di Arnaldo Scura. È davvero emozionante andare a caccia dei luoghi e dei personaggi dei nostri libri preferiti.
Ed ora veniamo ad un altro tuo capolavoro; l’ho scelto perché mi ha incuriosito il titolo e quando l’ho letto mi sono ritrovata immersa in un sogno.
Nella mia recensione a questo tuo libro ho riportato un estratto particolarmente significativo: Per pescare sul serio serve imparare il silenzio e il passo felpato. Occorre lo stupore di trovare pesci incredibilmente grandi in corsi d’acqua spaventosamente piccoli, stretti, gallerie di frasche con sponde di rovi. Quasi rigagnoli. Luoghi intricati, dove l’accesso costa fatica, punture d’insetto, braccia segnate, sudore… I pesci vivono spesso in luoghi che non immagineresti mai. Saperli invece immaginare è l’arma vincente. Credere l’incredibile.”
Avrai già capito che mi riferisco a Il pescatore di tempo, a mio avviso, forse, il tuo libro più profondo. Profondo perché parla di acqua e di pesci da pescare? Profondo perché parla di vita? Di viaggi? Di tempo? E silenzio?
Raccontaci tu di cosa parla e del significato che hanno per te il tempo e questo piccolo grande libretto.
Ha a che fare anche con la leggerezza del vivere?
Che dire? Grazie di spendere delle parole così importanti, così grandi, per un libro piccino che in fondo racconta solo che un pescatore può avere una chance in più per affrontare la vita: immaginarla. Giacomo Leopardi diceva che l’immaginazione è il primo fonte della felicità umana. Credo che nessuno sia costretto a immaginare più di un pescatore che si trova di fronte all’acqua e deve pensare che lì sotto ci siano pesci di ogni specie, grandezza, tipo, colore, tane, sassi, piante, ostacoli sommersi… E magari non c’è nulla, ma lui pesca convinto perché immagina un mondo sotto alla superficie dell’acqua. Un mondo migliore. Pescare è un’applicazione pratica dell’immaginazione.
Poi a me, come al protagonista del libro, la pesca ha insegnato la libertà della natura, l’uguaglianza dettata dal merito, la fraternità delle osterie. La contraddizione eterna tra amare e uccidere (ami il pesce, ma lo uccidi), l’affascinante antinomia della parola amo che è l’uncino per prendere i pesci e la prima persona singolare del verbo amare.
Credo che Il pescatore di tempo sia prima di tutto un libro sulla vita, che racconta di un ragazzo che diventa un uomo, nel caso specifico uno scrittore, portando l’immaginazione a spasso sui fiumi, mescolando libri e natura, passione e istinto. È una storia di grande fortuna e anche di piccole cose. È infine un percorso personale, quello di un bambino innamorato di una canna da pesca per la sua somiglianza con una lancia di un indiano Cheyenne e che per questo ha imparato a pescare sui libri, portando poi quei libri a sentire lo scorrere del fiume.
Il pescatore di tempo è uno scritto nato per caso. Anzi su richiesta dell’editore. Ho risposto a un invito, quello di raccontare cosa fosse la pesca. Per me, come per tantissimi scrittori che ne hanno narrato storie bellissime, penso a Ernest Hemingway di Grande fiume tra due cuori (più tutto il resto che non è poco), alla follia di Pesca alla trota in America di Richard Brautigan, alla religiosità della natura di In mezzo scorre il fiume di Norman Maclean, alla vita sull’acqua raccontata ne Il grande silenzio di Thomas McGuane, all’utopia di Pesca al salmone nello Yemen di Paul Torday, alla pace bucolica e ironica di certe acque di pianura del centro Europa raccontate da Ota Pavel ne La morte dei caprioli belli ma anche, se vogliamo citare autori vecchi e nuovi di casa nostra, alla pennellata di Novecento italiano de L’amo e la lenza di Mario Albertarelli, al mitico Colombre di Dino Buzzati che fa il paio con le splendide descrizioni dello storione del Po scritte da Gianni Brera ne La pacciada, fino ad arrivare a Fabio Genovesi con il suo romanzo Esche vive. Credo che pescare sia, prima di tutto, occuparsi di sé e del proprio tempo. E farlo con leggerezza perché, come diceva Mark Twain, comunque non ce la faremo ad uscirne vivi.
Per raccontare tutto questo, per scrivere Il pescatore di tempo, non sapendo da dove iniziare, ho cominciato come quando si giocava coi Lego: ho sparso davanti a me libri, oggetti, canne da pesca, esche artificiali, un vecchio cestino di vimini, tante foto sbiadite, qualche mappa di sperdute vallate montane… Ho riempito il tavolo, mi sono versato un bicchiere di vino e ho cominciato a osservare tutte quelle cose appoggiate lì alla rinfusa. Guardandole ho sentito l’odore del fiume – che per me è quello della vita – e ho cominciato a scrivere.

947236_10201133272632234_385289796_nSe sostituisco la parola pescatore con la parola scrittore in una frase che hai appena detto ottengo: “uno scrittore può avere una chance in più per affrontare la vita: immaginarla”. Credo che avere la possibilità di poter vivere altre vite, oltre alla propria, sia una opportunità unica, sia per lo scrittore che inventa la storia, sia per il lettore che in quella storia si immedesima. Quando ho letto Il pescatore di tempo ho trovato tante analogie fra la pesca e la scrittura e dove tu scrivevi pesca io leggevo scrittura. È un libro che parla di vita e tutti dovrebbero leggerlo.
Il tempo è volato, Michele e la nostra ora del tè è giunta al termine.
Ti chiedo solo altre due cose prima di salutarci.
La prima è una richiesta: promettimi che verrai di nuovo a trovarmi dopo la pubblicazione del tuo prossimo romanzo.
La seconda è una curiosità: nella tua biografia hai scritto che se pensi a casa, pensi al Monte Rosa. Ci spieghi perché proprio il Monte Rosa?
Con questo io ti lascio la parola, perché voglio finire questa bellissima intervista con la tua voce. Saluto i nostri lettori e do appuntamento a tutti alla prossima puntata de L’ora del tè. Grazie di cuore, Michele, per essere stato qui con me oggi!
Beh, è stata un’ora piacevolissima, almeno per me, e quindi tornerò sicuramente dopo l’uscita del nuovo romanzo.
La domanda sul Monte Rosa è difficile. Provo a risponde e parto da lontano: mio nonno paterno è cresciuto in un casello ferroviario dell’alto Molise, dove i bisnonni facevano i casellanti, non so bene da dove venissero, credo dall’Abruzzo ma potrei sbagliare.
Domenico Tommaso Marziani, questo il nome del nonno, entrò in ferrovia, divenne capostazione e girò mezza Italia. Mio padre è nato a Gorizia, mia madre viene dal basso Friuli. Quando sono nato io vivevano a San Leo che allora era nelle Marche, dopo pochi anni ci siamo trasferiti a Rimini ma a tutte le feste comandate andavamo a Padova a trovare i nonni materni che nel frattempo erano andati ad abitare lì.
Finite le scuole elementari ci spostiamo di nuovo, per motivi familiari, in Piemonte, nel Novarese, sul lago d’Orta. Credo che quegli anni siano stati i più belli della mia vita, a contatto con una natura che prima non avevo avuto occasione di conoscere.
Da Gozzano, dove abitavo, ma anche da Novara dove ho studiato e pure da Milano dove ho vissuto, nelle giornate terse si vede il Monte Rosa. Il vederlo mi rende sicuro dello stare al mondo. Mi fa sentire meno sradicato, meno perduto nei miei venticinque traslochi.
Mi sono innamorato della Valsesia, il versante più bello del Monte Rosa, quando da ragazzo in certe giornate di primavera invece di andare a scuola prendevo il trenino per Varallo. È un amore che è rimasto sempre lì. Ogni tanto torno e tutto mi sembra più bello. Ovviamente non lo è, anzi. Non c’è alcun motivo se non il respiro forte della montagna. Forse è solo un luogo dove immaginare delle radici che non ho. Magari perché è il posto di tante scorribande da ragazzo. Non è però l’unico luogo del cuore, ne ho altri, anche in montagna, la vicina val d’Ossola ad esempio.
L’ho fatta lunga inutilmente, la verità è che il Monte Rosa è semplicemente il pezzetto di mondo dove senza nessun motivo mi sento a casa. Grazie per la pazienza di tanto ascolto.

Il sito di Michele Marziani è michelemarziani.org.
Per info sui suoi libri navigate questa pagina.

Andare, camminare, lavorare

Ci sono alcuni libri o riviste che vale proprio la pena leggere. Ho già scritto da qualche parte una frase che dice, più o meno: ho cercato per anni una rivista che parlasse di libri, che contenesse storie di qualità, che fosse curata da esperti, letterati, narratori.
Ci ho messo un po’ ma alla fine l’ho trovata.

E non ho trovato solo una rivista da leggere, ma anche da scrivere. Sì, perché su Il Colophon ci scrivo anch’io. E lo dico con orgoglio.

L’ultimo numero è nato da pochi giorni e si intitola “Andare, camminare, lavorare“. Leggetelo e lasciatevi trasportare dalle parole degli autori che rendono possibile tutto questo.

Cliccate sui link di questo articolo per raggiungere la rivista. E’ online ed è gratis.

Se avete voglia di leggere i miei racconti, li trovate a questa pagina; l’ultimo si intitola La ricetta della crostata di frutta.

Il Colophon è la rivista letteraria di Antonio Tombolini Editore.

 

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