L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Max O’Rover

L'ora del tè; chiacchiere da salotto con scrittori, poeti, lettori, artisti in genere.

Chiacchierare con Massimiliano Roveri ha il sapore dell’Irlanda, in tutte le sue sfumature. L’ora del tè è diventata ormai il nostro modo (il mio e il tuo) di girare il mondo. Non siamo andati lontanissimi ma, durante le chiacchierate con gli autori, qualche viaggio per il continente l’abbiamo fatto.
Massimiliano Roveri, in arte Max O’Rover, dopo essersi innamorato dell’Isola di Smeraldo ha cominciato a scrivere e a sognare una vita nella sua nuova terra. Oggi vive a Dublino, in un luogo molto simile alla Barrytown di Roddy Doyle, lavora sul web ed è social media manager di Catherine Dunne, grande autrice irlandese, e di Antonio Tombolini Editore.
A Roddy Doyle, o meglio, a un libro del famoso Roddy Doyle, è ispirato il suo romanzo #igcird (Il giorno in cui incontrammo Roddy Doyle); ne parleremo fra poco
Ero curiosa di conoscerlo e devo dire che la mia aspettativa non è stata delusa. Max ha una personalità multicolore, ricca, sorprendente. È un autore insolito, non ripetitivo, la sua grafia traccia linee che nessuno ha mai disegnato. Inutile imitarlo. Max ha uno stile semplice e complesso, duro e leggero, bianco e nero.
E magari con un pizzico di Verde.
Bene! Non ho raccontato granché di lui, volutamente, perché vorrei conoscerlo assieme a te. A questo punto sono impaziente di iniziare. E tu? Accogliamo Max assieme.

Ben arrivato nel mio salotto, Max, è un immenso piacere averti mio ospite. Prima di iniziare offro sempre qualcosa e visto che è L’ora del tè, cosa preferisci?
Tè Lapsang Souchong, marca Taylors of Harrogate. Grazie.

Ottima scelta! Siamo pronti per iniziare a chiacchierare. Partiamo?
Certo!

 A che età hai iniziato a scrivere?
Il primo “lavoro” pubblicato è una poesia sulla pagina dei lettori di Topolino, avevo nove anni, direi.

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Potrei dire il tè, tanto tè (il Lapsang di cui sopra), ma lo bevo anche quando non scrivo.

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
La mia terra: l’Irlanda.

Il libro più bello che hai letto?
Domanda complessa, rispondo “di pancia”: Il Signore degli Anelli.

Il luogo più strano in cui scrivi?
Mi è capitato di iniziare a scrivere un romanzo con un lapis, su un blocco notes, al primo piano di un letto a castello in una camerata da sei, alle quattro di notte, al buio.

Dopo aver letto il tuo romanzo ho riflettuto molto sui personaggi, sulle loro storie, su quanto l’autore possa influire sulla loro “vita”, se così la possiamo chiamare. E sono sempre più convinta che lo scrittore sia incarnato in ogni suo personaggio.
Io mi sono fatta questa idea ma vorrei la tua opinione. Se ti va di aprire l’anima di Max O’Rover ai nostri lettori, raccontaci quanto c’è di te nei tratti e nella vita dei tuoi personaggi.

Hai visto giusto, Roberta.
Anche se almeno in teoria nel romanzo c’è un personaggio che è il mio alter ego, in realtà ci sono tratti, segnali, tracce, di me nascosti nei diversi personaggi.
Ho cominciato a capire che per me uno dei motivi importanti dietro allo scrivere è quello di vivere altre vite: quelle dei personaggi. Questo non significa che tali vite debbano essermi completamente aliene. Credo che il tema delle identità in discussione sia una delle cose che mi interessano davvero molto (usare uno pseudonimo, avere un personaggio alter ego, vivere, avere coscienza del fatto che sto diventando un’altra persona anche grazie allo scrivere), e diluirsi nei personaggi è un modo di essere empatici con loro e con l’umanità “vera”.
Riflettendoci bene, c’è, però, una eccezione, forse. Bob è molto caratterizzato e non credo che abbia niente di me. Chissà se questo è il motivo per cui forse è il mio personaggio preferito.
Altra cosa da dire è che, forse, comunque, immedesimarsi nei personaggi di #igcird, che sono dei “buoni”, è stato più semplice. Ho dovuto lavorare molto di più su Patrick, uno dei quattro personaggi de La Terza Vita, in uscita a marzo, proprio perché è una testa molto, molto diversa dalla mia.

Il tuo amore per l’Irlanda traspare in ogni parola. Ti confesso che sono sempre stata affascinata dalle persone che provano un amore così forte e incondizionato per una terra che non sia la propria, tanto da decidere di appartenere a quella terra. Quando è nato tutto? Quando hai capito che questo amore era così forte e intenso da costringerti a cambiare nazione? Fra l’altro, nel tuo romanzo, questo amore e questo desiderio così forti sono incarnati in uno dei personaggi. Vorrei che ci raccontassi la tua storia.

Era il 1999. Ho visto le isole Aran nuotare tra il cielo e l’oceano in una bellissima giornata di sole. È stata una folgorazione. Una sensazione praticamente fisica, come se mi avessero liberato i polmoni. Sapevo di essere rinato, sapevo che era accaduto qualcosa di importante.
Non so spiegare il perché di tutto questo. Se vuoi, il libro è un tentativo di rispondere a questa domanda fondamentale, al perché a un certo punto ho cominciato a trasformarmi, culturalmente e non solo, in un’altra persona. Questa persona è ancora in divenire, ma vivere a Dublino e cominciare anche a scribacchiare in inglese sono stati passi fondamentali per farla crescere questa persona, questo nuovo me.
Volevo che nel libro ci fosse altro, per questo ci sono anche personaggi disillusi, o cinici. Ma il personaggio – Massimo è decisamente il tentativo di comprendere il – mio – rapporto con l’Irlanda.
E, bada bene, con questo io non faccio proclami sul fatto che l’Irlanda sia un luogo perfetto. È casa, per me. È abhaile, Casa con la “C” maiuscola. Certo: non solo per me a quanto pare. Ci sono molti irlandofili in giro. Molti “irlandesi Dentro” come li definisco io. Con #igcird parlo a queste persone. Ma anche a chiunque non si trovi al suo posto e lo stia cercando ancora, il – suo proprio – posto. Di sicuro io l’ho trovato, il mio posto.

Ci sono momenti catartici, a mio avviso, nella vita e nelle giornate di uno scrittore, momenti che possono essere compresi solo da chi li vive. Questi momenti sono il completo distaccamento dal mondo reale, il sogno onirico e vivido di una vita parallela, la materializzazione di persone, ambienti, colori e profumi di una dimensione che appartiene a una storia raccontata. E, a mio avviso, sono il motore della scrittura.
Non è una domanda, Max, è una riflessione a cui ti chiedo di aggregarti.

Sono, parafrasando una vecchia gag calcistica… completamente d’accordo a metà 😉
Un mio caro amico, un ex collega, parlava di “retrocranio”. Il retrocranio è un posto dove stanno “altre” cose. Io credo che il mio retrocranio sia occupato con la creatività, con la scrittura. Non sento, però, un salto tra la vita di tutti i giorni e la scrittura. Sento, invece, molto spesso, che il retrocranio sia all’erta per cogliere cose della vita di tutti i giorni e cominciare a elaborarle. Da questo punto di vista, anche se per moltissimi altri aspetti sono di fatto nient’altro che un vecchio scrittore alle prime armi, mi sento molto sicuro di me: so che devo solo lasciar fare al retrocranio che, quando è il momento giusto, sa come aprire il flusso della creatività, e molto spesso facendolo, appunto, a partire dalla vita di tutti i giorni, da stimoli altrimenti ben poco rilevanti.

Irlanda, venerdì
Messaggi in bottiglia

La stessa mattina in cui Massimo aveva capito che non avrebbe avuto il posto, Bob Robertson era da sua madre.
Era il giorno del funerale di suo padre Colm e lui, in quanto figlio maggiore, doveva accollarsi gli onori e gli oneri della faccenda.
«Come va, ma’?» la salutò, baciandola sulla fronte.
«Oh, buongiorno Bob. Come vuoi che vada… Ci prepariamo un tè?»
«Sì, certo. Che stavi facendo? Che cosa leggevi?»
«La madre di tuo padre era originaria delle Aran, lo sapevi, no?» rispose sua madre, alzandosi e lasciando sul tavolo, a bella posta, dei fogli.
Bob pensò che fossero dei vecchi documenti provenienti dalle Aran che sua madre, in vena di commemorazioni, aveva tirato fuori.
Non rispose, non aveva voglia in quel momento di parlare del passato.
Nuala Dirrane, vedova di Colm Robertson da tre giorni, riempì il bollitore e preparò le tazze per sé e per suo figlio Robert, il padre di Aoife.
La cucina dava sul piccolo giardino sul retro. Dalla doppia porta
a vetri si vedevano l’erba e un paio di cespugli di rose bianche, tristi per il cielo grigio.
Sull’erba, il triciclo arancione, rovesciato, di uno dei nipoti più piccoli.
Orientare lo sguardo dal rubinetto del lavello della cucina alle rose, guardare l’ora sull’orologio da pub marchiato Guinness, sopra il frigorifero alla destra della porta, e far tornare gli occhi sul lavello, corrispondeva alla quantità di tempo necessaria per riempire il bollitore di tanta acqua quanta ne bastava per una tazza.
Ma Nuala non aveva mai fatto una tazza di tè solitaria in tutta la sua vita. Per cui concedeva sempre ai suoi occhi delle pause che consentissero di ottenere abbastanza acqua almeno per due tazze: sul muro perennemente scrostato che delimitava il giardino rispetto a quello speculare dei vicini, sui rametti di semi di miglio a disposizione degli uccellini, sui fili per stendere il bucato, così spesso inutili.
Tanti anni prima, quando vivevano in quindici, in quella casa, usavano semplicemente una grossa pentola…
La base del bollitore, attaccata alla presa di corrente a cui non era mai stato attaccato nient’altro se non un bollitore, era sul mobiletto a sinistra del lavello.
Un passo e il bollitore è sulla sua base. Nuala prende dal pensile sopra il mobiletto due tazze con impugnatura e lo zucchero. Tre contenitori di metallo nascondono Lapsang Souchong, Earl Grey e Irish Breakfast.
Oggi è una giornata particolare e non ha praticamente dormito per tutta la notte, quindi va bene il Lapsang Souchong anche a quest’ora. Non ha mai chiesto ai suoi figli quale tipo di tè volessero. Semplicemente bevono lo stesso che lei sceglie per sé. Semplicemente, è così che funziona.
Richiude l’opportuna dose di foglie in due sferette di fine rete metallica che depone ciascuna in una tazza.
In questo mentre, quasi distrattamente, accende il bollitore. Certe mattine d’inverno l’acqua esce così fredda dal rubinetto che sembra impossibile che possa arrivare mai ad ebollizione.
Versa l’acqua dal bollitore spento nelle due tazze, meravigliandosi, come ogni volta, delle volute di colore che le foglie trasmettono all’acqua.
Per un attimo c’è ancora solo acqua, poi il tè comincia a farsi strada con quelle volute di colore, come un animale che scappa e improvvisamente rallenta per un qualche motivo a noi ignoto.
Sedersi al tavolo dal lato del lavello è ovvio, per aspettare i cinque minuti sbirciando l’orologio.
Il tè è tempo.
Un qualsiasi irlandese saprà come utilizzare al meglio, come economizzare quei minuti.
Per capire se il marito è ancora sbronzo. Per capire se la figlia ha fatto l’amore la notte precedente.
Se sei al pub: – perché sì, è possibile bere del tè anche in un pub… – ti servono per vedere se il tizio accanto a te ha voglia di chiacchierare.
Quando sono passati i cinque minuti, il tè ti farà da sponda. Per mandare affanculo il marito, per chiedere alla figlia se è tutto a posto, per chiedere al tizio del pub da dove viene e perché è lì.
Nuala aveva una teoria: la Guinness era una birra come tutte le altre, non c’era veramente bisogno di aspettare per completare la pinta.
Ma Arthur Guinness aveva inventato una spillatura ad hoc per gli Irlandesi, per costringere chi beve e chi spilla a studiarsi, in quei momenti in cui la pinta non è ancora pronta. A gettare i ponti per passare la serata.
E questo, Nuala era sicura, Arthur Guinness lo aveva imparato dal tè.

(Estratto da Il giorno che incontrammo Roddy Doyle)

Dammi i nomi di due autori i cui libri non dovrebbero mancare sul comodino di uno scrittore e dimmi perché li ritieni così fondamentali. L’altra domanda che poi ti rivolgo su questo tema è la seguente: mi è capitato di leggere un libro durante la prima stesura di un racconto e rendermi conto che quella lettura influenzava fortemente il mio stile; a te è capitato? Credi, inoltre, che sia fondamentale la lettura per costruire o migliorare il proprio stile?

Sarò banale. Joyce e Beckett. Joyce perché non puoi aggiungere nient’altro alla scrittura meglio di lui, Beckett perché non puoi togliere altro alla scrittura meglio di lui. Le mie letture influenzano sempre il mio stile. È una cosa di cui sono cosciente e cerco di usarla. Ho un modello per i dialoghi, ho un modello per le similitudini, ho due modelli di scrittura al femminile da cui cerco di trarre ispirazione quando affronto personaggi femminili. Quindi, da un certo punto di vista, la risposta è che mi accade continuamente. E, sì: leggere è fondamentale per lo scrivere. Dal leggere una storia archetipica per raccontarla in modo nuovo, al cercare di raccontare una storia completamente nuova ma usando uno stile che è risultante da tutto ciò che abbiamo letto.

Clicca sull’immagine qui a fianco per acquistare il romanzo di Max O’Rover #igcird
Antonio Tombolini Editore – Collana Oceania

(La mia recensione a #igcird puoi leggerla QUI)

Wow!! Temevo che mi rispondessi che “no, la lettura non contagia la scrittura” e sarei caduta nella più profonda disperazione! Vorrei fare una cosa insolita, senza precedenti qui a L’ora del tè. Chiedo una riflessione da parte tua, nostro caro lettore di oggi, per chiederti quale sia la tua esperienza in merito. Se anche tu, come me e Max, credi che la lettura di altri autori contamini lo stile dello scrittore. Attendiamo le tue considerazioni nei commenti di questo articolo.

Torniamo a noi, Max. Oltre a scrivere storie, scrivi anche per il Web e, come abbiamo anticipato, curi tutta la comunicazione marketing di due importanti realtà letterarie internazionali: sei social media manager di Catherine Dunne, grande scrittrice irlandese, e responsabile della comunicazione di Antonio Tombolini Editore. Come sono nate queste due collaborazioni? Di cosa ti occupi in questi due ambiti e quanto sono di ostacolo alla tua carriera di scrittore o, al contrario, la arricchiscono?

La prima, quella con Catherine, è nata dall’esistenza di italish.eu e dal rapporto di amicizia nato con Federica Sgaggio, scrittrice e giornalista italiana anche lei irlandofila che aveva già avviato una sua collaborazione, letteraria, con Catherine: l’Italo Irish Literature Exchange, che ha dato vita all’antologia italo – irlandese “lost between / una vita altrove”. Grazie a Federica, Catherine ha avuto modo di comprendere le finalità e la professionalità dietro a Italish Magazine, e ha ritenuto opportuno affidarsi a quella professionalità per promuovere il suo essere scrittrice sul web e sui social.
Nel frattempo, avevo conosciuto a Dublino Michele Marziani, che aveva scelto di pubblicare il mio #igcird e che mi ha proposto di lavorare come social media manager anche per ATE.
Credo che la mia doppia veste (non mi preoccupo della schizofrenia: schizofrenico lo sono sempre stato, non scriverei con uno pseudonimo, altrimenti) aiuti entrambe le mie professionalità. Da scrittore so che non posso fare a meno del web, a ora, per “esistere”: se una scrittrice del calibro di Catherine non ne fa a meno, come potrei io? Da social media manager e responsabile della comunicazione da un lato cerco di aggiungere una qualità testuale nella scrittura che non sempre è caratteristica di quanto troviamo sul web; dall’altro, so che cosa vorrebbero tutti gli scrittori di cui devo raccontare la “storia”. Si crea una bella sinergia, come per esempio nel caso del 6Nazioni letterario, che ho proposto ad Antonio e Michele e che è attivo proprio in questo periodo.

Fra poco racconteremo del 6Nazioni, abbiamo lanciato il sasso e non possiamo nascondere la mano.
Della tua vita e delle tue passioni, affetti a parte, ho catturato quattro elementi fondamentali: la scrittura, i libri, l’Irlanda, la Guinness!! Aggiungi pure se non ho colto qualcosa.
Domanda antipatica: se dovessi tornare indietro e scegliere una via diversa, quale sceglieresti? Hai un sogno nel cassetto non realizzato oppure li hai tirati fuori tutti?

Fammi aggiungere qualcosa sugli affetti: Donal Ryan, collega e conterraneo, ha detto che in realtà scrive per fare bella figura con sua moglie. Beh, mi sa che è abbastanza vero anche per me… E senza Maria Grazia che mi sopporta e supporta non so dove sarei, francamente. Sugli interessi dovresti aggiungere la lettura (anche se in effetti è un lato della scrittura, forse) e la fotografia.
Se potessi tornare all’agosto del 1999, strapperei il biglietto di ritorno per l’Italia da Dublino.
Il sogno del cassetto è quello di uno scrittore: vincere il Nobel per la letteratura. Se lo ha vinto uno che gli è servita la chitarra per vincerlo, c’è anche speranza…
Ah: non dimentichiamoci il tè. il Lapsang.


Un bellissimo sogno nel cassetto, Max, non c’è che dire. I sogni sono quella piccola fiammella sempre accesa che alimentiamo per evitare che si spenga. E non deve spegnersi!
È stato un piacere parlare con te e spero che mi verrai a trovare quando uscirà il tuo prossimo libro che è in cantiere.
Sono certa che gli ascoltatori de L’ora del tè abbiamo apprezzato le nostre chiacchiere e li lasciamo con qualcosa da interessante da leggere. Che ne pensi?

 

I racconti del TORNEO 6 NAZIONI LETTERARIO.

Ispirato al torneo 6 Nazioni di Rugby, il 6 NAZIONI LETTERARIO è una vera e propria sfida fra squadre, il cui oggetto del contendere non è una palla ma racconti. La sfida consiste nel scrivere racconti, pubblicarli e raccogliere i maggiori voti possibili. Le partite letterarie si svolgono negli stessi giorni delle partite di Rugby del 6 NAZIONI.

Sulla pagina FB di Antonio Tombolini Editore e sul sito ATE sono disponibili tutte le partite.

Puoi leggere i racconti, che sono bellissimi, e votare quello che ti piace di più. E nel frattempo conoscere ATE, una bella casa editrice che pubblica libri di qualità e dà spazio soprattutto a nuovi scrittori che merita di essere letti alla stessa stregua dei grandi nomi altisonanti.

Alla prossima puntata de L’ora del tè.
Buona lettura!

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Manuela Bonfanti

Per presentarla uso le sue parole. Una frase che spiega tutto di lei, soprattutto la profondità del suo lavoro di scrittrice e il rapporto fra lei e la parola scritta: “La scrittura mi accompagna fin dal giorno in cui andai alla lavagna in prima elementare e scrissi l’unica parola che sapevo scrivere: il mio nome. Mica una parola da nulla: è la prima porta di entrata verso l’identità. E, da allora, ne ho esplorato le stanze”.
Sono felice di averla con me oggi, il suo nome è Manuela Bonfanti Bozzini. Manuela è nata nella Svizzera italiana, vive in Francia ed ha pubblicato, da poco, Punti e Interrogativi per Antonio Tombolini Editore, all’interno della collana Oceania. Conosciamola assieme!

Benvenuta Manuela! È un piacere incontrarti di nuovo. Sono le cinque, posso offrirti un tè bianco? È uno dei miei preferiti…
Perfetto, adoro il tè bianco. In foglie, senza latte né zucchero per favore.

Se sei pronta possiamo partire con la nostra chiacchierata. Che ne pensi?
Sono pronta!

A che età hai iniziato a scrivere?
Se intendi per un pubblico: dopo gli anni di università, tra i 25 e i 30.

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Non ho manie.

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
In luoghi immaginari che assomigliano a quelli che conosco. Per ancorarle a una realtà plausibile ma universale.

Il libro più bello che hai letto?
Tanti. Ma se dovessi salvarne solo uno, opterei per La buona terra di Pearl Buck.

Il luogo più strano in cui scrivi?
In giardino, d’estate. I riflessi sullo schermo mi fanno impazzire, ma impazzirei di più senza sole e luce.

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Eccoci Manuela! È un piacere ospitare nel mio salotto un’autrice internazionale. Ti ringrazio in anticipo del tempo che mi dedicherai e vorrei partire subito con la prima domanda.
Ho sbirciato sul tuo sito e, da vera donna curiosa, ho letto la tua biografia. Ti confesso che sono rimasta a bocca aperta. Il tuo curriculum è ammirevole. Complimenti davvero!
Partiamo dalla tua passione per lo studio che da quel che ho potuto leggere non si è ancora esaurita. Hai approfondito tanto ed a fondo alcune tematiche come le lingue (italiano, francese, inglese, tedesco, russo, spagnolo, portoghese, cinese, conseguendo anche risultati prestigiosi); hai effettuato studi di psicologia, sociologia, marketing e comunicazione. Ed hai frequentato il corso di formazione biennale in metodologie di scrittura (auto)biografica presso la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Mi interessa iniziare con l’approfondire quest’ultimo tassello del tuo mosaico formativo. Ci vuoi parlare della scrittura autobiografica? Cos’è, come funziona, qual è il suo ruolo…
Descriverla in poche parole è una sfida: intuisci che si scrive di sé, ma in modo riflessivo e ragionato. È un viaggio formativo che permette di capirsi più profondamente, di fare su di sé un esercizio filosofico che conduce a un “luogo interiore di benessere e di cura”(*). È stato un percorso estremamente arricchente, che mi ha consentito di esplorare i temi radicati nella mia scrittura. Ma la ragione per la quale ho imboccato questa via è molto più semplice e concreta: mi appassionano le storie. Ho ruotato attorno ad esse dagli studi di Lettere, quando ancora le storie le leggevo soltanto, allo scrivere storie “mie”. Una formazione che studia e valorizza storie autobiografiche mi è parsa la svolta naturale sul mio percorso perché nel mio primo romanzo, La lettera G, ho narrato una possibile biografia della donna comune, dimenticata dalle storie e dalla Storia. Grazie a questo libro, l’intuizione si è mutata in consapevolezza: volevo conoscere l’arte di scrivere storie di vita, espressione che preferisco ad autobiografia – parola che, essendo unicamente autoreferenziale, si presta a interpretazioni anche fallaci, soprattutto quando emana da una scrittrice. Ma qui entriamo in un discorso complesso, credo che tu mi capisca. Comprendere le storie degli altri (e in particolare delle altre) mi offre spunti diversi per poterle narrare – sia in forma di fiction come ho fatto finora, che attraverso raccolte di storie di vita reali, sia per intero, che sviscerandone uno o più aspetti. Il finale del racconto “Le urla dei muti” di Punti e Interrogativi tradisce il desiderio di dar voce a storie che, altrimenti, non verrebbero raccontate. Ecco, spero di aver risposto alla tua domanda. Ora permettimi di ringraziarti di cuore per avermi invitato per il tè, e dell’opportunità che mi offri di parlare di ciò che scrivo e sono…

(*)espressione di Duccio Demetrio, co-fondatore della LUA

Interessante, Manuela. Confesso che io stessa ero stata tratta in inganno e forse non solo io. Autobiografia intesa come narrazione di una storia di vita (reale o inventata) ma non per forza biografia dell’artista. Ora è tutto molto più chiaro e interessante, e si sposa perfettamente con i racconti contenuti in Punti e Interrogativi, il tuo secondo libro pubblicato da Antonio Tombolini Editore. Ne parleremo fra poco.
Ho fatto riferimento, nella precedente domanda, alla tua immensa passione per lo studio. Quando ci siamo incontrate, l’ho percepita intensamente dalle tue parole e dall’inconfondibile luce negli occhi. Ti chiedo. Quanto peso hanno avuto, gli studi che hai fatto, su Manuela scrittrice? Sono stati fondamentali per la sua maturità artistica? In che cosa senti che l’abbiano aiutata o eventualmente migliorata?
Ho sempre considerato lo studio come parte di un percorso di crescita personale, slegato dalla scrittura. Questo perché nessuno studio trasforma in scrittrice, la scintilla sta dentro. Ma indubbiamente, studiare è stato fondamentale per alimentarla: mi ha fornito strumenti di analisi e di comunicazione ed è stato motore di apertura e ricerca. È pure possibile che, senza l’uno, non sarebbe potuta emergere l’altra. O viceversa. Non posso dirti con precisione come si è creata la sinergia. E poi, non ti nascondo che, con il tempo, ho ampliato la mia definizione personale della parola studio, includendo l’istruzione informale, ovvero quella che si può ricavare da metodi meno codificati come l’osservazione, l’ascolto, le esperienze costruttive. In questo senso, i miei tre grandi alleati sono stati le letture, i viaggi e i figli. Tutto contribuisce a creare spazi di scoperta e comprensione che, nel mio caso, confluiscono nella scrittura.

Parliamo ora della tua scrittura. Le tue storie sono storie di vita. Quanto è vera quella vita che racconti? In Punti e Interrogativi dai la sensazione che lo sia. Ci racconti come nasce l’idea di una tua storia? Che cosa ha ispirato i racconti di Punti e Interrogativi?
Per risponderti, permettimi di citare un grande della letteratura, Orhan Pamuk: “Le opere di un romanziere sono come costellazioni di stelle in cui lui, o lei, propone decine di migliaia di piccole osservazioni sulla vita – in altre parole, esperienze di vita basate su sensazioni personali”. Ecco, le “piccole osservazioni sulla vita” sono gli spunti dai quali nascono le mie storie: riflessioni mie, che hanno trovato il loro spunto in una metafora o in una parola; frasi o frammenti di vita regalatimi, consciamente o meno, da qualcuno; problematiche vissute o osservate, che mi rincorrono per essere interrogate. Su questi spunti ho costruito trame di fantasia, popolate di personaggi emblematici, “veri” solo in quanto sintesi o caricature di caratteristiche osservabili. I miei Punti e Interrogativi sono nati così. Ora però è tempo di offrirli perché, oltre al piacere della lettura, possano andare a suscitare spazi di senso e movimenti interni unici in ciascuna lettrice o lettore.

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Nelle “piccole osservazioni sulla vita” mi ci riconosco anch’io e come me e te credo anche tanti altri autori. È un po’ come vivere tante vite e poi tentare di raccontarle. Su dettagli, immagini, sensazioni vere costruiamo storie di pura fantasia, ma che non sempre sono pura fantasia. C’è qualcosa di reale nelle storie che inventiamo, non credi? Per quanto io mi sforzi di creare storie che non esistono, qualcosa di me, della mia vita, dei miei sentimenti ritorna continuamente fra le righe ed emerge, all’improvviso, come catturato dalla mia stessa anima e nascosto fra le parole. Confrontando la tua esperienza di scrittura con la mia, quanto ti ritrovi in ciò che ho appena descritto? Quanto riesci a separare la tua vita da quella dei tuoi personaggi? Oltre ad attingere dalle tue giornate e dalla quotidianità, le tue storie nascono anche dal tuo vissuto? Ci sono temi pesanti nei tuoi racconti come la violenza, la solitudine… ci racconti come sono arrivati alla tua penna?
Sottolinei un aspetto fondamentale, Roberta: nel genere romanzo, dell’autore c’è tutto e niente. Al di là dell’invenzione, qualcosa di noi filtra sempre nella scrittura, che sia un ambiente, una caratteristica di un personaggio, un pensiero. È questo, che rende ciò che scriviamo “reale”. Ma ci interroghiamo tanto, forse troppo, sulla relazione tra scrittura e vita vera. In fondo, che importanza ha? L’essenziale è come il testo viene letto, quali sensazioni e riflessioni scatena. Quel che mi prefiggo, scrivendo, è entrare dentro. E ad aprire la porta è chi legge. Quindi, perché non parlare di lettrici e lettori? Sono loro, i veri protagonisti di ogni libro.
Mi chiedi come sono arrivati questi temi alla mia penna. Io credo che ciascuno porti in sé, radicati già dalla nascita, alcuni temi sui quali riflette. E ogni esperienza, ogni parola, sguardo o gesto, vanno a interrogarli. È come se, fin da piccoli, il nostro inconscio li selezionasse perché quello, proprio quello ci parla. Per questo non è necessario che io abbia sperimentato qualcosa, perché mi sorga la necessità di scriverne. Ne hai citata una: la violenza sulle donne. Non l’ho mai subita, né osservata da vicino, ma mi turba profondamente. Certo, qualcosa che mi lega a questo tema universale c’è: sono una donna. Ecco l’elemento reale, quel qualcosa di me che, come dici bene tu, torna tra le righe e accomuna questa tematica alle altre. Ma la cosa parte da lì, e lì si ferma.
La maggior parte di noi, però, non scrive. Preferisce riflettere silenziosamente. E spesso legge. Ed eccoci di nuovo ai lettori. Tu prendi Punti e Interrogativi: quale racconto ti è piaciuto di più? Se lo chiedo a cento persone, otterrò risposte diverse. Risposte che mi parleranno di loro, non di me. Perché noi amiamo soprattutto i libri che toccano le nostre corde interiori. Tu li chiami temi pesanti: io li chiamo temi importanti, realtà della vita che amo scandagliare. Temi che toccano quelle corde. Non scrivo per intrattenimento, ma vorrei rassicurare chi ci legge: tra le mie pagine troverete anche il piacere della lettura.

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Scrittura e lettura camminano a braccetto e personalmente sono molti di più i libri che leggo perché devo di quelli che leggo perché desidero. Qual è il tuo rapporto con i libri e con gli autori che preferisci? Ce ne sono alcuni che pensi abbiano influenzato il tuo stile o in qualche modo condizionato?
Io leggo solo i libri che desidero, e sono tanti. Più di cinquanta l’anno, tra letteratura e saggistica. Se scopro un’autrice o un autore che mi piace, tendo a leggere tutti i suoi libri. Sono sempre stata una lettrice avida, fin da piccola, e i libri non mi bastavano mai. Ho letto tutto e di più, mi sono sforzata di terminare anche i libri che non mi piacevano e penso che, in quella fase, sia stata cosa giusta: mi ha aiutato a conoscere la diversità e soprattutto a capire cosa amo in un libro. Così, da qualche anno, mi permetto di non finire quelli che non mi piacciono. A livello di stile, mi scoraggiano i testi in cui l’essenziale annega in mille digressioni o descrizioni minuziose – però vedi, già devo citarti un’eccezione, perché tra gli autori che ho amato di più c’è Nagib Mahfuz, prolisso e pungente. Lo stile che preferisco apre universi di senso in modo corposo, morbido, evocatore e leggero, con pochi dialoghi e una sufficiente tensione narrativa. Ma più dello stile, mi interessano trame e tematiche, o la capacità di cogliere e spiegare un particolare universo. Infatti ho amato moltissimo quasi tutte le opere di scrittrici come Pearl Buck, Elisabeth Gaskell o la Allende, padrone della scrittura e della tensione narrativa e al contempo sociologhe o antropologhe eccezionali, ma che possiedono stili differenti. O, più vicino a noi per tempo e luogo, Elena Ferrante. Se avessi tempo ne citerei altri, magari solo per un libro straordinario come lo Stoner di John Williams o l’Homo Faber di Frisch. E naturalmente La buona terra, che ho scelto come libro-feticcio. Sono stati modelli letterari ai quali tendere.
Si è fatto tardi, Roberta, non ho visto il tempo passare. È stata una discussione interessante e le tue domande mi hanno offerto nuovi spunti di riflessione. Sono stata bene in tua compagnia, rivediamoci presto!

Grazie Manuela, un incontro piacevole e veramente costruttivo sotto tutti i punti di vista. Grazie per il tuo tempo, la tua bella personalità e la compagnia, qui, a L’ora del tè.
Arrivederci a presto!

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Federica Bartolozzi

Siamo arrivati alla quinta puntata de L’ora del tè. La prossima ospite è un’autrice toscana che esercita un mestiere molto particolare; quando penso a lei la immagino inginocchiata nella terra, curva, con i guanti e piena di polvere. No, non fa la contadina, ma l’archeologa medievalista. Ed è molto simpatica, carina e spiritosa. L’ho conosciuta un paio di mesi fa e ne ho subito apprezzato lo spirito gioviale e la solarità.
La accogliamo nel mio salotto e cominciamo a parlare con lei.

Federica Bartolozzi, questo è il suo nome, ha pubblicato un romanzo storico dal titolo Una scomoda memoria, per Antonio Tombolini Editore. Collana Klondike.

Benvenuta Federica, è un piacere averti nel mio salotto. Che ne dici se prima di iniziare la nostra chiacchierata prepariamo un po’ di tè? Ho anche dei biscotti fatti in casa; è una ricetta di mio papà!
Il piacere è tutto mio, è un onore poter sedere nel tuo salotto. Mi hai letto nel pensiero. Adoro tè verde e biscotti fatti in casa; ne ho sentito il gustoso profumino appena entrata e so già che te ne chiederò la ricetta.

A questo punto, se sei pronta, possiamo iniziare. Vado con le cinque domande brevi?
Prontissima, almeno credo…!

A che età hai iniziato a scrivere?
Da quando ho “imparato” a scrivere. Mi spiego: dal diario segreto in poi, la mia penna mi ha sempre seguita.

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Nella gestione del quotidiano ne ho quante vuoi; mi danno sicurezza e mi costringono ad essere più ordinata, più attenta. Quando scrivo però, a pensarci bene non ne ho; forse perché mi sento veramente libera e sicura di me.

 Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
Adoro le locations piene di storia stratificata che siano grandi città, piccoli borghi nella campagna o isolette in mezzo al mare. Una cosa è certa: devo conoscere palmo a palmo il luogo che fa da sfondo alla mia narrazione, anche se fisicamente non ci sono mai stata! Nel momento in cui ne scrivo, io mi trovo lì.

 Il libro più bello che hai letto?
Di libri belli ne ho letti tanti, ma uno di questi ha orientato le mie scelte di vita: “La scoperta di Troia” di Heinrich Schliemann, letto quando avevo dodici anni.

 Il luogo più strano in cui scrivi?
Migro continuamente con il mio PC sotto braccio e tutti i miei appunti. L’importante è che ci siano la giusta atmosfera, la giusta ispirazione e che io sia sola. Esigo un rapporto esclusivo con il mio libro… ovviamente finché è in fase di stesura!fede2

Bene, Federica! Direi che abbiamo iniziato alla grande.
Prima di cominciare la nostra chiacchierata ti svelerò un segreto. Quando frequentavo le scuole medie, alla domanda “cosa farai da grande” rispondevo “l’archeologa”. C’era un mistero particolare nei resti delle antiche città, nelle tombe dei faraoni, nella storia che leggevo sui libri e immaginavo di dover rivelare al mondo. Non so per quale motivo questo amore per l’archeologia che ancora oggi provo non abbia avuto sfogo e la vita mi abbia portato altrove, ma ti assicuro che è un’emozione per me oggi chiacchierare con un’archeologa in carne ed ossa. Quindi intanto grazie!
Veniamo a noi.
“La scoperta di Troia” di Heinrich Schliemann, importante archeologo tedesco, ha segnato la tua vita professionale. Ce ne vuoi parlare? Ci racconti un po’, se ti va, di cosa ti occupi?
Grazie a te Roberta per questa bella opportunità di condividere un po’ di storia personale. Tendo ad essere caratterialmente schiva e quando ho deciso di scrivere, l’ho fatto con il nome di FG Bart (l’altra me!).
È ovvio però che in ciò che scrivo vadano ad influire la mia formazione, il mio amore per le civiltà passate e per la storia in genere.
Nelle mie scelte professionali ho semplicemente assecondato lo stesso impulso, o inclinazione che dir si voglia, come hai ben descritto nella tua domanda. Sono laureata in Lettere e specializzata in Archeologia medievale, prediligendo quindi un’epoca diversa da quella dell’archeologia cosiddetta classica (latina, greca, orientale) che, fino agli anni novanta, era stata predominante. La mia attività è molto varia: prendo parte a campagne di scavo con gruppi italiani ed inglesi, sul territorio nazionale e non. Un lavoro di cui vado particolarmente fiera è la ricostruzione topografica della Verona altomedievale eseguita basandomi sul confronto delle fonti scritte, storiche, iconografiche e di scavo. Mi ha impegnata per lungo tempo al fianco di persone fantastiche delle quali leggevo sui miei libri di testo e che adesso sono colleghi ed amici. Pensa che una copia di questo studio viene conservata nella Biblioteca Capitolare di Verona, una delle biblioteche più antiche e affascinanti al mondo. Queste, per me, sono soddisfazioni.
Ma ora mi zittisco, sono già diventata noiosissima; FG Bart, te lo assicuro, è più divertente!

Mi hai dato il la per la seconda domanda. Poi, fra poco, parleremo anche di Una scomoda memoria. Visto che FG Bart come dici tu è più divertente, parliamo un po’ con lei.
Come mai hai deciso di pubblicare il tuo romanzo usando uno pseudonimo anziché il tuo vero nome? Di solito lo si fa per non essere riconosciuti oppure per incrementare le vendite ma nel tuo caso credo non siano questi i motivi della scelta. Ce ne vuoi parlare? Ti capita mai di pensare in un modo quando sei Federica e in un altro totalmente opposto quando indossi gli abiti di FG Bart? È una domanda un po’ forte e forse anche folle, vorrei portela perché a me capita e sono curiosa di sapere se di pazzi come me ce ne sono in giro altri! Senza offesa ovviamente, Fede, io considero la pazzia una fantastica normalità e credo sia un po’ la condizione di normalità degli stessi scrittori: senza un po’ di follia non esisterebbero la scrittura, l’arte… non credi?
Certo che lo credo; lo condivido nel modo più assoluto.
Ebbene, ti farò parlare con quella più spavalda e con più “self confidence” tra le due!
L’idea di utilizzare uno pseudonimo è venuta dalla volontà di abbreviare un nome lungo. FG Bart è corto, si ricorda facilmente, è internazionale e soprattutto è privo di genere. Sì, hai capito bene, né femminile né maschile, unisex insomma. Mi piace l’idea di una scrittura affrancata dal genere, sia dell’autore che del lettore.
Dopodiché, si può dire che ci ho preso gusto e mi sono accorta che “in incognito” scrivevo più liberamente, funzionava; la mia fantasia non aveva limiti. Intendiamoci, la base storica per me dev’essere ineccepibile, senza errori, ma la storia che andavo a creare, la “mia” storia, poteva essere finalmente inventata di sana pianta. Davo tutto lo spazio che volevo al connubio tra l’amore per le origini, la storia e la ricerca uniti alla mia sete di scoperta e al fascino per il mistero e l’intrigo. Incastravo così i personaggi del romanzo tra gli eventi realmente accaduti, facendoli relazionare con personaggi realmente esistiti.
Forse, come FG Bart, ho semplicemente assecondato quell’attrazione mista a magia che si prova nel riportare alla luce ciò che il tempo e gli eventi hanno sepolto per tanto tempo.
Se i miei romanzi uscissero con il mio nome mi sentirei in colpa, mi sembrerebbe di fare un torto all’altra me (quella noiosa, prudente e scrupolosa!).
Sicuramente quando scrivo mi rilasso e mi diverto. Non ho freni se non quelli della coerenza allo svolgimento del racconto, del rispetto della grammatica e del buon gusto.
Come puoi facilmente dedurre fin qui, FG Bart dice, ma soprattutto scrive, cose diverse e talvolta opposte, da Federica; e quant’è spassoso…
Per noi scrittori, come per gli artisti in genere, un po’ di follia è genetica; altrimenti cosa ci spingerebbe a metterci così in gioco e talvolta a nudo? O mi sbaglio?
Ti dirò di più: mi piace anche pensare che nella follia degli artisti ci sia spesso un po’ di genio incompreso, come tanti esempi illustri ci ha consegnato proprio la storia. Ma non è certo il mio caso!

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Certo è tutto molto affascinante. A partire dalla ricerca delle fonti e delle informazioni fino a costruire un qualcosa che è vissuto, nel tuo immaginario, centinaia di anni fa. L’amore per la storia è qualcosa di totalizzante. O l’ami o la odi.
In Una scomoda memoria è evidente l’amore dell’autore (FG Bart) per la storia. Non c’è parola o frase che non sia stata studiata in maniera millimetrica e che renda il tutto molto credibile. Anche la fiction che ci hai imbastito sopra. Ecco la definirei così: una fiction giallo storica.
Mentre ti leggevo ho ammirato il notevole lavoro che hai fatto; oltre all’immenso impegno necessario quando si scrive un romanzo, tu hai dovuto gestire un surplus legato appunto all’analisi storica.
Ci racconti come svolgi le tue ricerche, a quali fonti ti riferisci per le tue indagini e quanto tempo hai impiegato per raccogliere le informazioni necessarie per scrivere Una scomoda memoria?
Ti ringrazio per le belle parole sul mio lavoro. Apprezzo molto il tuo parere e mi piace la definizione che hai dato di fiction giallo storica. Calza a pennello con ciò che ho inteso realizzare.
Terminato il mio gongolamento, ti confesso che a metà stesura di Una scomoda memoria mi era venuto un grande sconforto. Ho temuto davvero di non essere in grado di gestire, senza commettere errori madornali, l’intreccio di eventi e personaggi che spostavo da un posto all’altro e da un’epoca all’altra, facendo loro combinare le cose più incredibili.
Ho pensato di aver sbagliato a mettermi alla prova partendo da un romanzo e che, forse, avrei dovuto prendere in considerazione di scrivere prima dei racconti. Non penso affatto che il racconto sia più facile, beninteso, richiede sicuramente un ritmo rapido e incalzante che condensi la storia da raccontare ma, a mio parere, il romanzo è più complicato da gestire proprio per la sua lunghezza e distensione, soprattutto se si tratta di un romanzo storico.
Ormai però mi ero intestardita e volevo arrivare in fondo. Così, dopo un paio di mesi di blocco totale, durante i quali non rileggevo neppure ciò che avevo già scritto, sono ripartita, riordinando lavoro e idee con schede varie e la scrittura filava rapida; ti assicuro, pareva che improvvisamente sapessi dove andavano messe le tessere di un puzzle. Penso che leggendo il romanzo questa cosa si percepisca un po’, anche se nella stesura definitiva ho spostato all’inizio alcuni capitoli scritti nel secondo tempo.
Il lavoro di ricerca è avvenuto in contemporanea al romanzo. Per rispondere quindi alla tua domanda su quanto tempo abbia impiegato per raccogliere i dati necessari alla mia narrazione, ti rispondo che nella realtà non ho compiuto una ricerca prima di iniziare a scrivere, ma ho semplicemente cominciato utilizzando e rimettendo insieme nozioni che già possedevo, sopralluoghi fatti per lavoro, esperienze di viaggio personali, tanti libri (non dimenticare che sono un topo di biblioteca!), che andavo ad integrare, in contemporanea all’elaborazione del testo, con ricerche mirate ad arricchire la mia fiction. Ho posto molta attenzione a non gravare la narrazione con inutili e boriosi sfoggi di cultura (cosa che anche troppo spesso capita con i romanzi storici), ma limitando le citazioni e le descrizioni storiche solo per inquadrare e definire meglio il contesto.
È stato poi molto bello leggere, in svariate recensioni, che veniva apprezzata la coerenza e la precisione storica che fa da base al racconto ed è stata per me una splendida occasione per approfondire la conoscenza su più fronti.
Da quando è nata l’idea del libro all’autopubblicazione sulle principali piattaforme editoriali digitali sono passati circa dieci mesi di lavoro diciamo part-time.
Anche la collaborazione con la mia editor, che ne ha seguito la pubblicazione per la casa editrice, è stata una splendida esperienza, molto formativa.
Per quanto riguarda i luoghi dell’ambientazione ho optato, come si suol dire, per giocare in casa scegliendo per la maggior parte posti a me familiari (sottolineo ‘per la maggior parte’ dato che la compagnia, formata dai tre protagonisti, gira come una forsennata!).

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Grazie Federica, se me lo consenti, riprendo alcune tue frasi per ampliare un po’ con te l’argomento scrittura: “lavoro di ricerca in contemporanea al romanzo”, “non gravare la narrazione con inutili e boriosi sfoggi di cultura”, “sono un topo di biblioteca”.
Artigianato! La scrittura è un’attività di puro a
rtigianato, sei d’accordo?
Io credo che tu ci abbia regalato alcuni spunti di riflessione importanti. Chi pensa di approcciarsi alla scrittura con leggerezza non ha capito che la leggerezza va applicata alle parole, al testo, non al lavoro che la scrittura richiede. Non esiste genere che sia semplice e tu l’hai espresso benissimo quando dici: “Non penso affatto che il racconto sia più facile”.
Scrivere con meno parole non significa “facile”. Scrivere senza essersi preparato diligentemente è l’errore più grande che uno scrittore possa commettere. Scrivere senza leggere atrofizza la narrazione lasciandola sterile e povera.
Quello che hai rappresentato è il profilo esatto dello scrittore. E “un paio di mesi di blocco totale” non significano non scrivere, anzi. Uno scrittore scrive anche non scrivendo.
La mia prossima domanda non è una domanda, vorrei un tuo parere su questa mia riflessione che ti ringrazio di avere sollecitata.
Condivido appieno il fatto di considerare la scrittura un’attività artigianale e ti confesso di non averci mai pensato prima in questi termini.
Il lavoro che sta dietro alla stesura di uno scritto, che si tratti di un articolo di giornale condensato in un numero predefinito di parole, o di un racconto, o un romanzo, o un saggio divulgativo o altro è sempre, e sottolineo sempre, il risultato di una lunga ed accurata attività di studio, di approfondimento, di ricerca e analisi sia per i contenuti che si vanno a comunicare, sia per la forma e lo stile con i quali si presentano. Leggere è certamente una parte fondamentale della preparazione. Tiene aperta e allenata la mente e fornisce prospettive di valutazione diverse. L’attività dello scrittore è manuale, personale ed avviene con l’ausilio di pochi semplici strumenti (la definizione “attrezzi” calzerebbe meglio con l’artigianato!).
Prima di pubblicare i propri scritti è bene che vengano letti ed esaminati da esperti, un occhio critico ed obbiettivo che permetta di avere un “prodotto” di qualità (come nell’artigianato d’altronde), questo è il fondamentale lavoro di un editore serio e professionale.
Ti confido una tenace sensazione che sto provando durante la stesura del secondo romanzo: adesso percepisco molto più imponente il peso della responsabilità di produrre un buon lavoro, che non deluda il mio editore ed i miei lettori, rispetto al primo romanzo che ho scritto di getto, senza pensare che qualcuno l’avrebbe mai letto!
Non dimentichiamo che la scrittura è la forma più durevole ed efficace per la trasmissione e conservazione della memoria, con la M maiuscola, e delle informazioni in genere. La scrittura resta, come gli antichi romani saggiamente sostenevano: “verba volant, scripta manent”!

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La “cassetta degli attrezzi” dello scrittore, come la definisce Stephen King nel suo meraviglioso On Writing, è qualcosa di indispensabile, è ciò che tutti gli autori dovrebbero avere ed utilizzare.
«Per scrivere al meglio delle proprie capacità, è opportuno costruire la propria cassetta degli attrezzi e poi sviluppare i muscoli necessari a portarla con sé» dice King. Ed io credo proprio che sia così.
Siamo arrivate in fondo a questa avventura e ti pongo la mia ultima domanda.
Intanto in bocca al lupo per il tuo secondo romanzo che immagino sarà sempre un giallo storico.
Hai tutta la mia ammirazione!
Da quando hai cominciato a scrivere non hai mai pensato ad un genere diverso? Un rosa, noir, erotico, per ragazzi o narrativa in genere? Solitamente ogni autore ha un suo filone preferenziale. Tu rimani fedele al romanzo storico o ti lasci aperte alcune porte?
“Crepi il lupo!” (Povero lupo…) Grazie Roberta.
Per questo secondo romanzo è in corso una lenta gestazione, ma ce la farò!
Per rispondere alla tua domanda sul genere, ti posso dire che mi viene naturale ambientare le mie storie nel passato e amo il thriller, il giallo in generale. Per diletto leggo tendenzialmente romanzi gialli sia contemporanei che storici e nel caso di questi ultimi sono incontentabile: cambierei sempre qualcosa.
Forse è per questo che ho cominciato a scriverne io; mi sono detta: «Vediamo allora cosa sei in grado di fare tu!»
Quando però mi sentirò rodata a sufficienza chissà, mai dire mai…
Magari potrei ambientarne uno nel futuro; in casa avrei già due potenziali lettori!

Capisco cosa intendi, anche io ho avuto la tentazione di scrivere il libro che avrei voluto leggere e forse… l’ho anche scritto!
Grazie Federica per avermi dedicato il tuo tempo, tu sei l’ultima autrice che ospito nel mio salotto per il 2016. Con te chiudo l’anno e auguro a tutti i lettori un Natale ricco degli affetti più cari e un Capodanno pieno di bollicine. Vi aspetto nel 2017 per nuovi e interessanti appuntamenti con l’autore.
Ti ringrazio di cuore Federica e ti aspetto nuovamente nel mio salotto per parlare del tuo prossimo libro.

BUON NATALE A TUTTI E FELICE ANNO 2017.

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