L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Federica Bartolozzi

Siamo arrivati alla quinta puntata de L’ora del tè. La prossima ospite è un’autrice toscana che esercita un mestiere molto particolare; quando penso a lei la immagino inginocchiata nella terra, curva, con i guanti e piena di polvere. No, non fa la contadina, ma l’archeologa medievalista. Ed è molto simpatica, carina e spiritosa. L’ho conosciuta un paio di mesi fa e ne ho subito apprezzato lo spirito gioviale e la solarità.
La accogliamo nel mio salotto e cominciamo a parlare con lei.

Federica Bartolozzi, questo è il suo nome, ha pubblicato un romanzo storico dal titolo Una scomoda memoria, per Antonio Tombolini Editore. Collana Klondike.

Benvenuta Federica, è un piacere averti nel mio salotto. Che ne dici se prima di iniziare la nostra chiacchierata prepariamo un po’ di tè? Ho anche dei biscotti fatti in casa; è una ricetta di mio papà!
Il piacere è tutto mio, è un onore poter sedere nel tuo salotto. Mi hai letto nel pensiero. Adoro tè verde e biscotti fatti in casa; ne ho sentito il gustoso profumino appena entrata e so già che te ne chiederò la ricetta.

A questo punto, se sei pronta, possiamo iniziare. Vado con le cinque domande brevi?
Prontissima, almeno credo…!

A che età hai iniziato a scrivere?
Da quando ho “imparato” a scrivere. Mi spiego: dal diario segreto in poi, la mia penna mi ha sempre seguita.

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Nella gestione del quotidiano ne ho quante vuoi; mi danno sicurezza e mi costringono ad essere più ordinata, più attenta. Quando scrivo però, a pensarci bene non ne ho; forse perché mi sento veramente libera e sicura di me.

 Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
Adoro le locations piene di storia stratificata che siano grandi città, piccoli borghi nella campagna o isolette in mezzo al mare. Una cosa è certa: devo conoscere palmo a palmo il luogo che fa da sfondo alla mia narrazione, anche se fisicamente non ci sono mai stata! Nel momento in cui ne scrivo, io mi trovo lì.

 Il libro più bello che hai letto?
Di libri belli ne ho letti tanti, ma uno di questi ha orientato le mie scelte di vita: “La scoperta di Troia” di Heinrich Schliemann, letto quando avevo dodici anni.

 Il luogo più strano in cui scrivi?
Migro continuamente con il mio PC sotto braccio e tutti i miei appunti. L’importante è che ci siano la giusta atmosfera, la giusta ispirazione e che io sia sola. Esigo un rapporto esclusivo con il mio libro… ovviamente finché è in fase di stesura!fede2

Bene, Federica! Direi che abbiamo iniziato alla grande.
Prima di cominciare la nostra chiacchierata ti svelerò un segreto. Quando frequentavo le scuole medie, alla domanda “cosa farai da grande” rispondevo “l’archeologa”. C’era un mistero particolare nei resti delle antiche città, nelle tombe dei faraoni, nella storia che leggevo sui libri e immaginavo di dover rivelare al mondo. Non so per quale motivo questo amore per l’archeologia che ancora oggi provo non abbia avuto sfogo e la vita mi abbia portato altrove, ma ti assicuro che è un’emozione per me oggi chiacchierare con un’archeologa in carne ed ossa. Quindi intanto grazie!
Veniamo a noi.
“La scoperta di Troia” di Heinrich Schliemann, importante archeologo tedesco, ha segnato la tua vita professionale. Ce ne vuoi parlare? Ci racconti un po’, se ti va, di cosa ti occupi?
Grazie a te Roberta per questa bella opportunità di condividere un po’ di storia personale. Tendo ad essere caratterialmente schiva e quando ho deciso di scrivere, l’ho fatto con il nome di FG Bart (l’altra me!).
È ovvio però che in ciò che scrivo vadano ad influire la mia formazione, il mio amore per le civiltà passate e per la storia in genere.
Nelle mie scelte professionali ho semplicemente assecondato lo stesso impulso, o inclinazione che dir si voglia, come hai ben descritto nella tua domanda. Sono laureata in Lettere e specializzata in Archeologia medievale, prediligendo quindi un’epoca diversa da quella dell’archeologia cosiddetta classica (latina, greca, orientale) che, fino agli anni novanta, era stata predominante. La mia attività è molto varia: prendo parte a campagne di scavo con gruppi italiani ed inglesi, sul territorio nazionale e non. Un lavoro di cui vado particolarmente fiera è la ricostruzione topografica della Verona altomedievale eseguita basandomi sul confronto delle fonti scritte, storiche, iconografiche e di scavo. Mi ha impegnata per lungo tempo al fianco di persone fantastiche delle quali leggevo sui miei libri di testo e che adesso sono colleghi ed amici. Pensa che una copia di questo studio viene conservata nella Biblioteca Capitolare di Verona, una delle biblioteche più antiche e affascinanti al mondo. Queste, per me, sono soddisfazioni.
Ma ora mi zittisco, sono già diventata noiosissima; FG Bart, te lo assicuro, è più divertente!

Mi hai dato il la per la seconda domanda. Poi, fra poco, parleremo anche di Una scomoda memoria. Visto che FG Bart come dici tu è più divertente, parliamo un po’ con lei.
Come mai hai deciso di pubblicare il tuo romanzo usando uno pseudonimo anziché il tuo vero nome? Di solito lo si fa per non essere riconosciuti oppure per incrementare le vendite ma nel tuo caso credo non siano questi i motivi della scelta. Ce ne vuoi parlare? Ti capita mai di pensare in un modo quando sei Federica e in un altro totalmente opposto quando indossi gli abiti di FG Bart? È una domanda un po’ forte e forse anche folle, vorrei portela perché a me capita e sono curiosa di sapere se di pazzi come me ce ne sono in giro altri! Senza offesa ovviamente, Fede, io considero la pazzia una fantastica normalità e credo sia un po’ la condizione di normalità degli stessi scrittori: senza un po’ di follia non esisterebbero la scrittura, l’arte… non credi?
Certo che lo credo; lo condivido nel modo più assoluto.
Ebbene, ti farò parlare con quella più spavalda e con più “self confidence” tra le due!
L’idea di utilizzare uno pseudonimo è venuta dalla volontà di abbreviare un nome lungo. FG Bart è corto, si ricorda facilmente, è internazionale e soprattutto è privo di genere. Sì, hai capito bene, né femminile né maschile, unisex insomma. Mi piace l’idea di una scrittura affrancata dal genere, sia dell’autore che del lettore.
Dopodiché, si può dire che ci ho preso gusto e mi sono accorta che “in incognito” scrivevo più liberamente, funzionava; la mia fantasia non aveva limiti. Intendiamoci, la base storica per me dev’essere ineccepibile, senza errori, ma la storia che andavo a creare, la “mia” storia, poteva essere finalmente inventata di sana pianta. Davo tutto lo spazio che volevo al connubio tra l’amore per le origini, la storia e la ricerca uniti alla mia sete di scoperta e al fascino per il mistero e l’intrigo. Incastravo così i personaggi del romanzo tra gli eventi realmente accaduti, facendoli relazionare con personaggi realmente esistiti.
Forse, come FG Bart, ho semplicemente assecondato quell’attrazione mista a magia che si prova nel riportare alla luce ciò che il tempo e gli eventi hanno sepolto per tanto tempo.
Se i miei romanzi uscissero con il mio nome mi sentirei in colpa, mi sembrerebbe di fare un torto all’altra me (quella noiosa, prudente e scrupolosa!).
Sicuramente quando scrivo mi rilasso e mi diverto. Non ho freni se non quelli della coerenza allo svolgimento del racconto, del rispetto della grammatica e del buon gusto.
Come puoi facilmente dedurre fin qui, FG Bart dice, ma soprattutto scrive, cose diverse e talvolta opposte, da Federica; e quant’è spassoso…
Per noi scrittori, come per gli artisti in genere, un po’ di follia è genetica; altrimenti cosa ci spingerebbe a metterci così in gioco e talvolta a nudo? O mi sbaglio?
Ti dirò di più: mi piace anche pensare che nella follia degli artisti ci sia spesso un po’ di genio incompreso, come tanti esempi illustri ci ha consegnato proprio la storia. Ma non è certo il mio caso!

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Certo è tutto molto affascinante. A partire dalla ricerca delle fonti e delle informazioni fino a costruire un qualcosa che è vissuto, nel tuo immaginario, centinaia di anni fa. L’amore per la storia è qualcosa di totalizzante. O l’ami o la odi.
In Una scomoda memoria è evidente l’amore dell’autore (FG Bart) per la storia. Non c’è parola o frase che non sia stata studiata in maniera millimetrica e che renda il tutto molto credibile. Anche la fiction che ci hai imbastito sopra. Ecco la definirei così: una fiction giallo storica.
Mentre ti leggevo ho ammirato il notevole lavoro che hai fatto; oltre all’immenso impegno necessario quando si scrive un romanzo, tu hai dovuto gestire un surplus legato appunto all’analisi storica.
Ci racconti come svolgi le tue ricerche, a quali fonti ti riferisci per le tue indagini e quanto tempo hai impiegato per raccogliere le informazioni necessarie per scrivere Una scomoda memoria?
Ti ringrazio per le belle parole sul mio lavoro. Apprezzo molto il tuo parere e mi piace la definizione che hai dato di fiction giallo storica. Calza a pennello con ciò che ho inteso realizzare.
Terminato il mio gongolamento, ti confesso che a metà stesura di Una scomoda memoria mi era venuto un grande sconforto. Ho temuto davvero di non essere in grado di gestire, senza commettere errori madornali, l’intreccio di eventi e personaggi che spostavo da un posto all’altro e da un’epoca all’altra, facendo loro combinare le cose più incredibili.
Ho pensato di aver sbagliato a mettermi alla prova partendo da un romanzo e che, forse, avrei dovuto prendere in considerazione di scrivere prima dei racconti. Non penso affatto che il racconto sia più facile, beninteso, richiede sicuramente un ritmo rapido e incalzante che condensi la storia da raccontare ma, a mio parere, il romanzo è più complicato da gestire proprio per la sua lunghezza e distensione, soprattutto se si tratta di un romanzo storico.
Ormai però mi ero intestardita e volevo arrivare in fondo. Così, dopo un paio di mesi di blocco totale, durante i quali non rileggevo neppure ciò che avevo già scritto, sono ripartita, riordinando lavoro e idee con schede varie e la scrittura filava rapida; ti assicuro, pareva che improvvisamente sapessi dove andavano messe le tessere di un puzzle. Penso che leggendo il romanzo questa cosa si percepisca un po’, anche se nella stesura definitiva ho spostato all’inizio alcuni capitoli scritti nel secondo tempo.
Il lavoro di ricerca è avvenuto in contemporanea al romanzo. Per rispondere quindi alla tua domanda su quanto tempo abbia impiegato per raccogliere i dati necessari alla mia narrazione, ti rispondo che nella realtà non ho compiuto una ricerca prima di iniziare a scrivere, ma ho semplicemente cominciato utilizzando e rimettendo insieme nozioni che già possedevo, sopralluoghi fatti per lavoro, esperienze di viaggio personali, tanti libri (non dimenticare che sono un topo di biblioteca!), che andavo ad integrare, in contemporanea all’elaborazione del testo, con ricerche mirate ad arricchire la mia fiction. Ho posto molta attenzione a non gravare la narrazione con inutili e boriosi sfoggi di cultura (cosa che anche troppo spesso capita con i romanzi storici), ma limitando le citazioni e le descrizioni storiche solo per inquadrare e definire meglio il contesto.
È stato poi molto bello leggere, in svariate recensioni, che veniva apprezzata la coerenza e la precisione storica che fa da base al racconto ed è stata per me una splendida occasione per approfondire la conoscenza su più fronti.
Da quando è nata l’idea del libro all’autopubblicazione sulle principali piattaforme editoriali digitali sono passati circa dieci mesi di lavoro diciamo part-time.
Anche la collaborazione con la mia editor, che ne ha seguito la pubblicazione per la casa editrice, è stata una splendida esperienza, molto formativa.
Per quanto riguarda i luoghi dell’ambientazione ho optato, come si suol dire, per giocare in casa scegliendo per la maggior parte posti a me familiari (sottolineo ‘per la maggior parte’ dato che la compagnia, formata dai tre protagonisti, gira come una forsennata!).

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Grazie Federica, se me lo consenti, riprendo alcune tue frasi per ampliare un po’ con te l’argomento scrittura: “lavoro di ricerca in contemporanea al romanzo”, “non gravare la narrazione con inutili e boriosi sfoggi di cultura”, “sono un topo di biblioteca”.
Artigianato! La scrittura è un’attività di puro a
rtigianato, sei d’accordo?
Io credo che tu ci abbia regalato alcuni spunti di riflessione importanti. Chi pensa di approcciarsi alla scrittura con leggerezza non ha capito che la leggerezza va applicata alle parole, al testo, non al lavoro che la scrittura richiede. Non esiste genere che sia semplice e tu l’hai espresso benissimo quando dici: “Non penso affatto che il racconto sia più facile”.
Scrivere con meno parole non significa “facile”. Scrivere senza essersi preparato diligentemente è l’errore più grande che uno scrittore possa commettere. Scrivere senza leggere atrofizza la narrazione lasciandola sterile e povera.
Quello che hai rappresentato è il profilo esatto dello scrittore. E “un paio di mesi di blocco totale” non significano non scrivere, anzi. Uno scrittore scrive anche non scrivendo.
La mia prossima domanda non è una domanda, vorrei un tuo parere su questa mia riflessione che ti ringrazio di avere sollecitata.
Condivido appieno il fatto di considerare la scrittura un’attività artigianale e ti confesso di non averci mai pensato prima in questi termini.
Il lavoro che sta dietro alla stesura di uno scritto, che si tratti di un articolo di giornale condensato in un numero predefinito di parole, o di un racconto, o un romanzo, o un saggio divulgativo o altro è sempre, e sottolineo sempre, il risultato di una lunga ed accurata attività di studio, di approfondimento, di ricerca e analisi sia per i contenuti che si vanno a comunicare, sia per la forma e lo stile con i quali si presentano. Leggere è certamente una parte fondamentale della preparazione. Tiene aperta e allenata la mente e fornisce prospettive di valutazione diverse. L’attività dello scrittore è manuale, personale ed avviene con l’ausilio di pochi semplici strumenti (la definizione “attrezzi” calzerebbe meglio con l’artigianato!).
Prima di pubblicare i propri scritti è bene che vengano letti ed esaminati da esperti, un occhio critico ed obbiettivo che permetta di avere un “prodotto” di qualità (come nell’artigianato d’altronde), questo è il fondamentale lavoro di un editore serio e professionale.
Ti confido una tenace sensazione che sto provando durante la stesura del secondo romanzo: adesso percepisco molto più imponente il peso della responsabilità di produrre un buon lavoro, che non deluda il mio editore ed i miei lettori, rispetto al primo romanzo che ho scritto di getto, senza pensare che qualcuno l’avrebbe mai letto!
Non dimentichiamo che la scrittura è la forma più durevole ed efficace per la trasmissione e conservazione della memoria, con la M maiuscola, e delle informazioni in genere. La scrittura resta, come gli antichi romani saggiamente sostenevano: “verba volant, scripta manent”!

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La “cassetta degli attrezzi” dello scrittore, come la definisce Stephen King nel suo meraviglioso On Writing, è qualcosa di indispensabile, è ciò che tutti gli autori dovrebbero avere ed utilizzare.
«Per scrivere al meglio delle proprie capacità, è opportuno costruire la propria cassetta degli attrezzi e poi sviluppare i muscoli necessari a portarla con sé» dice King. Ed io credo proprio che sia così.
Siamo arrivate in fondo a questa avventura e ti pongo la mia ultima domanda.
Intanto in bocca al lupo per il tuo secondo romanzo che immagino sarà sempre un giallo storico.
Hai tutta la mia ammirazione!
Da quando hai cominciato a scrivere non hai mai pensato ad un genere diverso? Un rosa, noir, erotico, per ragazzi o narrativa in genere? Solitamente ogni autore ha un suo filone preferenziale. Tu rimani fedele al romanzo storico o ti lasci aperte alcune porte?
“Crepi il lupo!” (Povero lupo…) Grazie Roberta.
Per questo secondo romanzo è in corso una lenta gestazione, ma ce la farò!
Per rispondere alla tua domanda sul genere, ti posso dire che mi viene naturale ambientare le mie storie nel passato e amo il thriller, il giallo in generale. Per diletto leggo tendenzialmente romanzi gialli sia contemporanei che storici e nel caso di questi ultimi sono incontentabile: cambierei sempre qualcosa.
Forse è per questo che ho cominciato a scriverne io; mi sono detta: «Vediamo allora cosa sei in grado di fare tu!»
Quando però mi sentirò rodata a sufficienza chissà, mai dire mai…
Magari potrei ambientarne uno nel futuro; in casa avrei già due potenziali lettori!

Capisco cosa intendi, anche io ho avuto la tentazione di scrivere il libro che avrei voluto leggere e forse… l’ho anche scritto!
Grazie Federica per avermi dedicato il tuo tempo, tu sei l’ultima autrice che ospito nel mio salotto per il 2016. Con te chiudo l’anno e auguro a tutti i lettori un Natale ricco degli affetti più cari e un Capodanno pieno di bollicine. Vi aspetto nel 2017 per nuovi e interessanti appuntamenti con l’autore.
Ti ringrazio di cuore Federica e ti aspetto nuovamente nel mio salotto per parlare del tuo prossimo libro.

BUON NATALE A TUTTI E FELICE ANNO 2017.

Una scomoda memoria

Qualcosa che riemerge da un passato molto lontano. Un segreto per cui altri uccidono ancora dopo più di millecinquecento anni.

Una scomoda memoria è un giallo storico in cui Dario, il protagonista, si trova coinvolto, suo malgrado, in una vicenda più grande di lui: riceve in eredità un segreto che lo costringe a partire in fretta per Costantinopoli. La storia ruota attorno alla rivelazione che l’abate e amico Gregorio Falieri fa a Dario in punto di morte. Rivelazione che sconvolge la sua vita e la condiziona a tal punto che lo obbligherà ad abbandonare tutto e partire alla ricerca di un qualcosa che è tenuto nascosto da più di mille anni e da allora viene custodito e tramandato affinché non cada nelle mani sbagliate.

Dario viene affiancato dal monaco Tobia e dal prete Luciano, due personaggi cardine; i tre compiranno un nuovo viaggio che li porterà da Venezia alla Dalmazia, alla ricerca del monastero in cui è sepolto il segreto per il quale qualcuno uccide.

La storia è ricca di riferimenti storici e descritta nei minimi particolari. L’autrice conduce il lettore attraverso le vicende che coinvolgono i protagonisti, le cui caratteristiche emergono dalle parti descrittive, dai dialoghi e dai pensieri del protagonista. L’autrice adotta una scrittura calibrata, moderata. I fatti storici, sapientemente rappresentati, sono frutto di un minuzioso studio del periodo e di un attento lavoro di cesellatura dei fatti dell’epoca.

Scritto sapientemente da Federica Bartolozzi, è pubblicato nella collana Klondike di Antonio Tombolini Editore.

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Ilaria Vitali

Eccoci al primo appuntamento de L’ora del tè. La rubrica ha la finalità di diffondere la conoscenza di nuovi autori italiani i cui romanzi non dovrebbero mancare nella libreria di un lettore. Parleremo con questi autori non solo di libri; esploreremo, assieme ad ognuno di loro, anche il mondo personale che sta dietro uno scrittore.

Alcuni di loro hanno una vita particolarmente interessante, intensa, ricca di storie da scrivere. È sicuramente il caso di Ilaria Vitali, autrice di Dietro lo steccato, romanzo pubblicato nella collana Klondike di Antonio Tombolini Editore.

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Ciao Ilaria e benvenuta nel mio salotto.
Ciao Roberta, è un piacere e un onore!

Cosa posso offrirti? Tè e crostata?
Un martini rosso con ghiaccio?

Iniziamo con le cinque domande brevi! Sei pronta?
Sull’attenti!

A che età hai iniziato a scrivere?
A 9 anni, non seriamente ma con molta convinzione!

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Deve essere sera o tramonto, Janis Joplin di sottofondo, un bicchierino di whisky meglio se torbato, tabacco a disposizione e un oggetto che viene dalla Thailandia. E devo essere a piedi scalzi, le scarpe mi distraggono.

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
Non ho particolari preferenze, una storia è lì dove deve essere! Ma se si tratta di luogo geografico amo molto l’oriente, se parliamo di interni o esterni, di gran lunga amo gli interni.

Il libro più bello che hai letto?
Ho bellissime letture in corso, ma l’ultimo è stato Just kids di Patty Smith.

Il luogo più strano in cui scrivi?
Talvolta nel bosco, penna e taccuino.

A questo punto siamo curiosi di conoscere meglio Ilaria. Sbirciando nella tua vita social ho notato che hai un legame molto forte con il mondo. Mi riferisco in particolare all’oriente e , se ripenso a Dietro lo steccato, all’India. Dalle poche cose che ho raccolto su di te, leggendo qua e là, ho capito che l’anima di Ilaria ha un fortissimo legame con alcuni luoghi stranieri per noi, ma molto familiari per lei. Ce ne vuoi parlare? E, se ti va di rispondere anche ad un’altra curiosità, cosa c’è di così affascinante nella vita da nomade?
Io sono nata in una piccola città, Parma, per poi crescere nella cosiddetta “bassa padana”, della quale porto dentro i sapori e gli odori di altri tempi.
Erano gli anni 70, internet non esisteva e l’unica cosa che avevo a disposizione per viaggiare con la mente era un vecchio atlante che mi divertivo a sfogliare, puntando il dito qua e là e leggendo di nomi esotici e strani. Ero affascinata dalle distese azzurre di mare che separavano i continenti, pensavo che nel 2000 avrei avuto 30 anni e che probabilmente avrei attraversato quei mari e quelle grandi terre volando.
Avevo grandi aspettative su quella cifra tonda che mi sembrava l’apertura al futuro, quello delle macchine volanti, delle invenzioni mirabolanti e di chissà quali grandi scoperte.
In realtà dovetti aspettare qualche anno e solo nel 2007 cominciai a viaggiare per terre lontane, come l’India, il mio primo vero viaggio, affrontato con uno zaino in spalla e con l’obiettivo di rimanere almeno un mese.
Ovviamente fu amore. Amore per l’avventura, per la conoscenza, per l’incognita e anche per la fatica, perché viaggiare è anche questo.
Ho scoperto di avere uno spirito di adattabilità molto forte che mi permette di affrontare le situazioni più diverse che un viaggio non organizzato e un budget calcolato possono comportare.
L’oriente ha un fascino su di me molto potente e dopo l’India ho trascorso mesi in Thailandia, in luoghi meno battuti dal turismo e più a contatto con la gente del posto.
Il grande passo è avvenuto nel 2011, di comune accordo con l’uomo che ho poi sposato: lasciare tutto e partire.
Abbiamo vissuto 4 anni in Sri Lanka, alternando mesi in Malesia e Singapore.
Poi è stata la volta del Messico, dove siamo stati 6 mesi.img_1179
Ogni luogo mi ha regalato centinaia di storie, aneddoti, conoscenze ma soprattutto molta esperienza.
Ho sempre sentito parlare del mal d’Africa, dove ancora non sono stata, ma posso tranquillamente affermare che esiste anche il mal d’Oriente, una malinconia struggente che sempre mi accompagnerà.
Nomade è una condizione dell’anima.
É la sete di conoscere, di riuscire a fare “casa” ovunque ma sopra ogni cosa il nomadismo, per me, è libertà.

Il tuo viaggio in India con lo zaino in spalla ricorda Irene, la protagonista del tuo romanzo. Durante la lettura di Dietro lo steccato si intuisce chiaramente la tua familiarità con il luogo in cui è ambientata la storia e si percepisce quel mal d’India a cui hai fatto riferimento poco fa. I viaggi sono un immenso serbatoio di personaggi, luoghi, trame; sono l’acquolina in bocca di ogni scrittore.
Pensavi già a Dietro lo steccato durante il tuo viaggio in India? Quanto, la tua vita da nomade ha influito sul tuo stile di scrittura?
L’India è stato il luogo geografico nel quale Dietro lo Steccato ha preso vita, sulle pagine di un taccuino da viaggio.
Ma la storia esisteva già da tempo, forse ancora prima che io me ne impossessassi e il trovarsi in India ha scatenato solo il bisogno impellente di raccontarla, quella storia, ma sotto voce.
L’India è un luogo senza mezze misure: o la ami o la odi e se la ami è in grado di suscitare emozioni forti, quasi catartiche.
Posso considerare l’India come un veicolante, i ritmi rallentati e le immagini di grande impatto emotivo hanno reso possibile che la storia potesse rivelarsi e uscire.
Per una tematica in particolare trattata nel romanzo, non avrei mai pensato di rendere pubblico Dietro lo Steccato e così dal 2007 è rimasto su quei taccuini, come una confessione, fino a quando ho preso la decisione, caldeggiata da chi lo aveva letto, di proporlo.
Il nomadismo ha influito per la enorme quantità di sensazioni e storie in cui mi sono imbattuta, un autentico magazzino di materiale da sviluppare.
Verrebbe spontaneo chiedersi se senza il nomadismo avrei continuato a scrivere…la risposta è sì ma probabilmente con un livello di pathos differente.
Quando vivi personalmente situazioni o eventi, scriverne è molto più coinvolgente. É come celare una propria autobiografia nelle pagine di un romanzo, nasconderla qua e là così che il confine tra il vissuto e l’inventato vada a scomparire.

Hai detto che “il nomadismo è libertà” ed è questo senso di libertà che il lettore percepisce leggendo il tuo romanzo. Fingo di non essere una scrittrice e ti porgo la domanda scontata che anche io spesso ricevo dai miei lettori, ma con una particolarità in più. La domanda è la seguente: quanto c’è di Ilaria in ciò che scrivi, ma soprattutto quanta libertà occorre ad uno scrittore per tirare fuori dalla pancia una storia come quella che racconti in Dietro lo steccato? Quanto ti ha cambiata scriverla?
Questa è una delle domande più temute da uno scrittore, o almeno così penso.
Affermare che dietro ogni romanzo e ogni suo personaggio c’è sempre Ilaria Vitali è come rivelare sé stessi e le proprie esperienze.img_0333
Ma forse la vera libertà sta proprio in questo: parlare di sé sotto mentite spoglie.
Del resto quanto vi sia di autobiografico rimane un segreto, scatena dubbi e curiosità.
La mia risposta a questa domanda è quindi evidente. Io racconto storie che conosco, anche solo in parte, ma che comunque appartengono al mio bagaglio di esperienze.
Per Dietro lo Steccato ancora prima della libertà c’è stato un discorso di coraggio, tanto è che inizialmente non avrei mai pensato di renderlo pubblico. Forse Dietro lo Steccato è stata l’occasione dove la libertà è stata più sacrificata, quello che ho raccontato è la versione morbida e filtrata della vera storia. E ho detto tutto…
Se mi ha cambiata scriverlo? non ci ho mai pensato.
Ho tirato molto il freno a mano scrivendolo, ora mi sento in un certo senso più spregiudicata e nel prossimo romanzo ho provato a dimenticare quel freno, descrivendo eventi più dettagliati senza lesinare su episodi particolarmente scomodi.
Dopo tutto…è solo un romanzo. O no? 🙂

Romanzo? Quindi finzione? O maschera davanti ad una vita vera?
Come scrittrice è un tema che mi pongo ogni volta che siedo davanti ad una macchina da scrivere. Come lettrice vorrei sapere che c’è realtà vera dietro a ciò che leggo. La differenza, credo, sta in quel freno a mano tirato. La libertà di scrivere è anche spregiudicatezza, come dici tu, osare e mostrare quello che è.
Nel tuo prossimo lavoro che tipo di storia troveremo? Una fiction vera o una finta realtà? Ti va di parlarcene?
Il romanzo può essere finzione o maschera o entrambe le cose; credo che anche all’interno di una storia totalmente costruita a tavolino vi siano inevitabilmente contaminazioni provenienti dalla realtà.
Dopo tutto a scrivere è un essere umano e, conscio o no, qualcosa di suo e/o di reale lo inserisce nella storia.
Personalmente vivo il romanzo come pretesto per raccontare storie reali e le mie lo sono.
Inserisco personaggi realmente esistiti e alcuni frutto della mia immaginazione che mi sono necessari; mi piace pensare ai miei romanzi come a delle “cacce al tesoro”, dove il tesoro è la realtà e tutto il resto solo un palcoscenico necessario alla rappresentazione.
Il freno a mano è dovuto a inesperienza, a paura di osare troppo o talvolta semplicemente a rispetto per i veri protagonisti di quella storia.
Il mio prossimo libro è basato su un insieme di storie vere, come sempre, e in quel caso ho abbandonato totalmente quel freno a mano.
La storia si sviluppa su oltre 50 anni di tempo, con una conclusione che si verifica in un futuro immaginato e all’interno di questi 50 anni si intrecciano diverse vicende, molte delle quali vissute realmente.
É ambientato tra Amsterdam e la Malesia e non manca il colpo di scena finale a riunire tutti gli avvenimenti in un unico grande cerchio.
Parlare di fiction vera o finta realtà è una questione di punti di vista.
Ho scritto di cose viste e vissute, romanzate e arricchite, ma reali: è più lecito definirlo quindi una fiction vera o una finta realtà, laddove per finta si intende quell’arricchimento?
Il lettore deve sempre avere il dubbio se ciò che ha letto è successo veramente oppure no, ma soprattutto quale degli episodi che ha letto è vero o inventato.
Da lettrice è una domanda che mi farei e non so fino a che punto vorrei ricevere una risposta, potrei desiderare di rimanere in quel dubbio e ricordare quel particolare romanzo come qualcosa di assolutamente intrigante.
Un romanzo deve anche far sognare, o no?

Grazie Ilaria per essere stata mia ospite; colgo l’occasione per ricordare che Dietro lo steccato è acquistabile in versione ebook sul sito di StreetLib e su tutti gli store.

Arrivederci alla prossima puntata con L’ora del tè.

Dietro lo steccato

Ci sono libri facili da recensire e libri che, invece, ci provo e ci riprovo e poi decido che è più facile scrivere un nuovo romanzo.

Sono quei libri in cui mi trovo coinvolta, incatenata da mille tentacoli e non so come uscirne, perché l’unico desiderio che ho è scrivere la recensione più bella mai scritta, quella in cui ogni parola deve essere perfetta, messa al posto giusto. L’unica parola possibile.

Quando ho iniziato a leggere Dietro lo steccato mi sono ritrovata di fronte al diario di Irene. Ho letto poche pagine, mi sono fermata, l’ho chiuso. Ho respirato e ho sentito dolore.

Confesso, non ho mai amato i romanzi scritti sotto forma di diario; non mi sono mai chiesta perché, ma forse questa volta l’ho capito. Nei miei primi …anta anni, ho scritto pagine e pagine di vita mia personale, di anima, di un vissuto che a volte vorresti cancellare persino dai ricordi. E ritrovarmi nella vita di un’altra donna, dove strade e percorsi erano emozionalmente simili ai miei vi assicuro che non è stato facile.

Mentre attraverso Dietro lo steccato assorbo le sue vibrazioni, le faccio mie e viaggio di fianco a Irene, zaino in spalla lontano dal suo mondo.

Poi torno, perché anche lei torna ed è solo dolore, rabbia; sono domande senza risposte, incredulità e ribellione.

Irene ha un unico scopo ormai: capire e ripartire. Tornare da dove è venuta, riempire assenza con vita e sostituire dolore con amore per gli altri.

C’è un sentimento di fondo che permane durante tutta la lettura del romanzo: l’amore che ha legato Irene a Vittorio è un salto nel vuoto. Un volo senza paracadute da mille metri di altezza. Un’apertura totale all’altro senza protezioni per l’anima. È l’amore oltre l’amore, per usare una frase dell’autrice. È non essere più di se stessa ma legare la propria vita a quella dell’altro. Perfetto, se tutto andasse come nelle favole. Pericoloso, nella vita vera, perché l’amore è libertà, lasciare l’altro libero di amarci ma di vivere per se stesso.

Ho iniziato la recensione due volte, così come ho iniziato due volte la lettura di Dietro lo steccato. I libri vanno letti con l’anima e con l’anima vanno recensiti.

Sarò sincera e trasparente come lo sono nella vita: sono di parte in questa recensione fino al midollo. L’autrice è una creatura che io amo. Sono poche le persone che travolgono la mia anima come Ilaria ha fatto con me, nella vita di tutti i giorni e con il suo piccolo capolavoro di narrativa.

Se leggete Dietro lo steccato fatelo ad anima aperta, senza inibizioni, lasciatevi trascinare dalle parole, silenziate il mondo, staccate il cellulare, la radio, i figli, la vita. Fermatevi e state lì. Ad assorbirne ogni respiro.

Una pepita della narrativa italiana.

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