L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Amanda Pitto Melling

La mia ospite di oggi è di origine italo-tedesca, è nata a Londra e vive in Irlanda con il marito e i figli. È appassionata di cultura contadina, folklore montano, tradizioni popolari, fotografia e cucina.

Ha diverse pubblicazioni al suo attivo (romanzi, saggi, racconti, storie per bambini) per le quali ha ricevuto alcuni premi letterari. É appassionata di fotografia, e a questo proposito è uscito ad agosto del 2016 per Flook, l’app dello scrittore Federico Moccia, un suo Taccuino di viaggio dedicato all’Irlanda.

Fra le sue pubblicazioni ricordiamo Racconti di umana natura di Montedit, I racconti di Boscomagico, Pagan Pride Italia, tradotta per una tesi universitaria all’Università di Leeds, Il Testimone del Diavolo, Anguana edizioni, un noir con prefazione a firma di Danilo Arona.

I suoi ultimi due libri, editi da Antonio Tombolini Editore, sono Il peso sul cuore (collana Oceania) e Il capolavoro (collana Amaranta). Oltre ad essere scrittrice, è anche direttrice della collana Amaranta per Antonio Tombolini Editore.

Questo è quello che dice di sé: “Amo anche le eccellenze culinarie, e i miei imminenti progetti letterari verteranno proprio su questo. Mi piace sperimentare e unire vari generi letterari, e difficilmente amo ripetermi in ciò che scrivo. Nelle mie particolarità ci sono senz’altro l’adorazione smisurata per i corvi, i miei diciotto tatuaggi e la fissazione per ogni forma, vera o presunta, di gingerbread man.“

La vogliamo conoscere assieme? È un onore averla qui con me oggi, lei è anche una delle persone che ha creduto in me e nella mia capacità creativa. Il suo nome è Amanda Pitto Melling.

amanda1Eccoci qua, Amanda. Intanto benvenuta nel mio salotto. È un piacere averti qui oggi. Come sai, noi, a L’ora del tè, prima di iniziare a chiacchierare beviamo tè, caffè, c’è chi mi ha chiesto della birra o, addirittura, alcolici. Abbiamo una dispensa ben fornita. Cosa posso offrirti?
Grazie a te per l’invito. Prenderei se possibile un vino bianco sapido, bello fresco, e magari due patatine, ho fatto il voto di non bere il tè almeno fino a novant’anni.

Pronta per iniziare la nostra chiacchierata?

Sono pronta, anche perché adoro le interviste.

A che età hai iniziato a scrivere?
Da quando ho preso in mano fisicamente la penna. A scuola ero un disastro, ma facevo i temi senza quella che veniva definita la versione “brutta” già dalle elementari.

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Non deve parlarmi nessuno da quando mi alzo la mattina, l’interazione sociale mi devasta la mente.

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
Preferisco luoghi tendenzialmente isolati e piccole comunità.

Il libro più bello che hai letto?
Il Manuale del guerriero della luce di Coelho, perché mi sento una guerriera in cerca di giustizia.

Il luogo più strano in cui scrivi?
Sono maniaca della routine, posso scrivere solo seduta sull’erba in giardino o in casa mia sulla poltrona.

 

Se non ti dispiace inizierei con una domanda personale, di quelle che gli autori odiano ma di cui noi, de L’ora del tè, siamo curiosi. Spero mi perdonerai! Vorrei curiosare un po’ nella tua giornata tipo, sapere come organizzi il momento della scrittura (hai dei figli piccoli, quindi sei molto impegnata), cosa succede mentre scrivi, di che cosa hai bisogno, se bevi, mangi, ascolti musica, se hai bisogno di Internet, di un vocabolario, di un foglio degli appunti, di disegni…
Sono troppo curiosa?
No al contrario, più le domande sono personali, e più mi fa piacere rispondere. La mattina porto i figli a scuola e all’asilo, che qui in Irlanda iniziano alle nove e mezza, torno a casa con il più piccolo, mi siedo con una tazza di caffè lungo e organizzo la giornata. È in quel momento che capisco se sono nel mood giusto per immergermi nella scrittura. L’orario ottimale per scrivere è sempre un’ora prima di pranzo e un paio d’ore nel primo pomeriggio, quando i bambini sono tornati e magari si rilassano un po’. Qualsiasi rumore di sottofondo mi disturba, ad esclusione dei cartoni animati che ho imparato a non ascoltare. In questo senso sono fortunata, vivo in aperta campagna e tutto tace. Non prendo appunti, e possibilmente non uso internet. Spesso guardo fuori dalla finestra, dove vedo le fronde degli alberi muoversi e i corvi appollaiati sulla mia recinzione del giardino, e cerco di svuotare la mente. Intorno a me le cose continuano a scorrere, i bambini hanno sempre esigenze, ma ho imparato a isolare una parte della mente per quel tempo che mi serve, nonostante il mio corpo continui a svolgere delle azioni come prendere un succo di frutta, cambiare canale, o cercare i giochi che i cani nascondono. Ho provato ad ascoltare della musica un paio di volte, ma non fa decisamente per me, a volte mi ha anche creato il classico blocco per giorni. Non a caso quando in passato ero insegnante di danza del ventre, occupata a creare coreografie con i pezzi in sottofondo, ho passato molti anni senza scrivere nulla. Poi sono stata proprietaria di un Guest House per due anni nel Clare, e anche in quel caso, con la gente che andava e veniva, non riuscivo a ritagliarmi uno spazio intimo. Da quando mi sono trasferita nel mio cottage, riesco a scrivere molto di più. Ne deduco quindi che anche i luoghi in qualche modo influiscano sulla capacità creativa. E a proposito di postazioni, le mie sono il breakfast table, oppure la poltrona reclinabile, sempre rigorosamente con ipad mini.
Per tornare alla mia giornata, verso le otto di sera ci mettiamo tutti a tavola, e poi se non siamo troppo stanchi, quando tutti i bambini dormono, io e Jonathon (mio marito) torniamo in salotto a rilassarci. A volte mi vengono delle idee durante la notte, e quello è un grosso problema, perché poi non riesco più a prendere sonno. Se devo trovare ispirazione, invece, ho solo un oggetto che mi salva: il binocolo.

 

amanda3Grazie Amanda per averci consentito di sbirciare dentro la tua giornata tipo. A noi lettori (ed a me in particolare) piace conoscere le abitudini dei nostri autori preferiti.
Molto interessante il luogo in cui vivi, immerso nella natura e, da come racconti, molto semplice e naturale. Interessante ed anche stimolante.
Mi riallaccio a quest’ultima riflessione per la prossima duplice domanda.
Prima di tutto ti chiedo di raccontaci com’è nata e poi si è realizzata l’idea di trasferirvi in Irlanda e poi, legando questo concetto alla scrittura (il tuo lavoro primario), vorrei sapere quanto, secondo te, il luogo in cui vivi è da stimolo per nuove storie e nuovi progetti oppure l’ispirazione arriva a te da un’altra fonte.
L’idea iniziale era di trasferirci in Danimarca, dove viveva mia suocera, oppure in Spagna, che in campo alberghiero offriva diverse soluzioni. Poi abbiamo pensato che per snellire la burocrazia, forse era meglio venire sull’isola di smeraldo, visto che mio marito è irlandese. Quando sono arrivata non conoscevo nulla del posto, non ci ero mai stata nemmeno in vacanza. Le temperature qui non salgono quasi mai sopra i 20 gradi, e per me, che ho l’anemia mediterranea, significa avere ossigeno sempre, anche grazie al vento, che io adoro. Trasferirci è stato piuttosto complesso, siamo partiti con una macchina con dentro bambini, gatti e cane, e una volta arrivati, abbiamo dovuto subito sostituirla per la guida al contrario. È stato anche un viaggio tragicomico, a Parigi in albergo un gatto si è infilato nell’intercapedine del bagno ed è rimasto bloccato, e il cane è scappato al ristorante. Quindi tutti ci vedevano correre in giro con i passeggini senza capire cosa stesse succedendo. E poi quando cambi paese cambi letteralmente il tuo mondo. Non credo però che il luogo stia contribuendo alle mie idee per nuovi libri, ad esclusione di un ricettario mediterraneo che ho quasi finito, dedicato ai paesi anglosassoni.  Per qualche motivo, da quando vivo in Irlanda, ho iniziato ad avere una grande passione per la cucina. Quando lavoro a un romanzo, ascolto una voce che non ho ancora capito da dove arriva, ma fortunatamente non parla in gaelico!

 

Ho una domanda tecnica da rivolgerti. Quando si pensa alla scrittura, ci si immagina che lo scrittore sieda davanti al computer (in un giorno di piena ispirazione) ed inizi a rigettare parole su carta come un forsennato. Ovviamente io so che non è così ma credo che molti lo pensino (lo capisco dalle domande che mi rivolgono).
Nell’ultima biografia (Terry Brooks) che ho letto, l’autore spiega l’importanza di lavorare in maniera organizzata, costruendo uno schema, predisponendo delle schede per i personaggi, affinando la trama a tal punto da “avere la storia in mano”.
Cosa ne pensi? Anche tu utilizzi questa tecnica oppure hai un tuo modo di approcciarti al foglio bianco.
Il mio metodo è questo: cammino da qualche parte e a un certo punto una voce mi racconta la storia in sintesi di qualcuno, come se non fossi io ad avere l’intuizione. Lo so che è un po’ strano, ma è quello che accade. Torno a casa e scrivo la trama in poche righe, come se stessi presentando a me stessa il romanzo, e nel modo più commerciale possibile. Poi lascio che mi raggiungano dei dettagli nella mente, ma in questa fase, che può durare anni, non scrivo nulla. Quando sono pronta, inizio. Non lavoro mai a un romanzo più di due o tre mesi, poi se mi viene richiesto, allungo il brodo successivamente. Non so bene cosa succederà, non sono per nulla organizzata, lascio andare dove deve finire il tutto per un paio di ore al giorno tutti i giorni, cercando di non prendere mai una pausa. Ad esempio, ora sto pensando a un fantasy per ragazzi, e conosco l’isola dove si muove il protagonista, ho presente tutta la scenografia, e anche quei quattro o cinque punti cruciali che ci saranno grazie a delle immagini di oggetti che mi sono arrivate, ma cosa succederà, precisamente, non lo so. E non so nemmeno quando sarà il momento di scriverlo sul serio. Sono una persona dal temperamento molto vulcanico e questo mi porta ad essere forse impetuosa anche nei progetti letterari. Se parto, non mi fermo più, e tendo a rappresentare bene l’immagine dello scrittore tormentato che non si cura della realtà. Io però per forza di cose mi sdoppio, il corpo fa una cosa, e la testa un’altra. Senz’altro sono una scrittrice forsennata.

 

amanda2Lo scrittore vive due vite contemporanee: una nella realtà, l’altra nel sogno.
Raccontaci due sogni: quello che ti ha suggerito Il peso sul cuore e quello che invece ti ha condotto verso creazione de Il capolavoro.
Il peso sul cuore è nato osservando le rose rampicanti di una casa nella località di Cong. La voce mi ha detto che quella proprietà con una parete a filo d’acqua, nei pressi del parco del paese, era in realtà un B&B dove una ragazza doveva scoprire qualcosa sul suo passato. Essendo a circa venti minuti da casa mia, ci tornavo spesso, e altri luoghi adatti al romanzo si sono presentati: il negozio di libri antichi, Ashford Castle, il pub, il negozio di alimentari. Avevo una strana urgenza di far uscire quella storia dalla mia testa. Sono anche successe delle cose molto curiose, durante la stesura. Nel libro c’è un passaggio in cui racconto del Claddagh Ring, un anello tipico irlandese che spesso include uno smeraldo, forse perché di quel verde brillante tanto simile al muschio dell’isola, e nello stesso istante in cui lo scrivevo ho ricevuto in regalo proprio quell’anello. È un romanzo con un grande potenziale, sarebbe perfetto per essere trasformato in un film, e spero che un giorno verrà tradotto in inglese per poter essere letto proprio dalla gente che vive nella contea di Mayo.
Il capolavoro invece nasce grazie a tanti ricordi d’infanzia. In Valsesia, dove è ambientato il giallo, ci ho passato molti anni, e ci sono luoghi che fatico a dimenticare. Io poi sono una grande appassionata di folklore e cultura contadina, quindi poter ambientare un romanzo in una casa Walser è stato divertente. In quel caso particolare, ho dovuto necessariamente preparare uno schema per la storia, perché si trattava di un omicidio, doveva entrare in gioco anche la razionalità. Tendenzialmente, essendo una grande amante del cinema, mi faccio trascinare in questi mondi paralleli anche da dettagli che si imprimono per sempre nella mia mente tramite le scenografie. Ci sono film che mi ossessionano, come The Wicker Man di Robin Hardy, dove mi sono innamorata del negozio dell’isola. Ce ne sono altri che sono entrati in gioco durante la stesura del giallo, ad esempio un sospettato in particolare ha preso spunto dal capitano della nave di Stardust, interpretato da Robert De Niro, e Misery non deve morire ha avuto un ruolo cruciale sulla mia scelta stilistica. Il capolavoro ha preso anche spunto dalla serie tv di Agata Raisin, investigatrice un po’ bizzarra estremamente famosa in Inghilterra. Mi sto giusto rendendo conto ora che forse per ogni romanzo che scrivo entrano in gioco dinamiche completamente differenti. A volte, forse, la realtà e il sogno si avvicinano. Potrebbe dipendere molto dal genere di appartenenza del romanzo. Ogni volta sperimento nuovi modi di lavorare, quindi si può affermare che mi ritrovo sempre come se fosse la prima volta che scrivo. Ho iniziato con i racconti drammatici, per passare alla saggistica esoterica, poi al genere noir, rosa e giallo. Con Moccia ho poi pubblicato un taccuino multimediale di viaggio. Ora sto lavorando a un ricettario e a un romanzo mainstream. Non amo ripetermi, ma non so se sia un bene o meno. Prima o poi esaurirò i generi letterari.

amanda4Ovviamente noi speriamo che tu esaurisca i generi letterari il più tardi possibile così da concederci il piacere di leggerti in tutte le tue forme; ed una volta esauriti io mi auguro che tu possa ricominciare daccapo.
Ultima domanda, Amanda, purtroppo siamo arrivate alla fine.
Anzi, per la verità ne ho altre due.
Per prima cosa ti chiedo di raccontarci dei libri che leggi, quali sono i generi e gli autori che preferisci e quanto queste letture influiscono sulla tua produzione letteraria.
L’ultimissima domanda poi la rivolgo ad Amanda, direttrice della collana di Antonio Tombolini Editore e ti chiedo di parlarci della tua attività per Amaranta, di cosa si tratta, qual è la mission e come selezioni le opere da pubblicare.
Sono una lettrice infedele. Ad esclusione di Stephen King, di cui ho letto una decina di romanzi, tendo a innamorarmi dei libri ma non degli autori. La mia libreria è piuttosto eccentrica, ma certamente i miei romanzi preferiti sono La foresta incantata di Mary Stewart, Gli occhi dell’Amaryllis di Natalie Babbitt, La notte dei desideri di Michael Ende e Lo stregone di Robert Westall. E poi adoro i libri illustrati come Il grande libro degli gnomi di Wil Huygen, C’era una volta di Hermann Vogel e Il cammino dei maghi di Tom Cross. Lo so, non è propriamente letteratura per adulti, ma dovresti vedere la mia casa piena di casette colorate e gingerbread man per capire che non ho ancora deciso di crescere. Di autori italiani ne ho letti veramente pochi, ma voglio rimediare prima o poi con Mauro Corona, che mi affascina molto.
Come direttrice editoriale invece mi trovo ad affrontare tematiche completamente differenti. Cerco di scegliere storie originali, dove l’amore è il contorno ma il piatto principale è qualcosa di più intrigante, e se possibile, cerco anche di differenziare molto le uscite, come stile, lunghezza, tema e atmosfera, che magari si avvicina ad altri generi letterari. Dicono che i romanzi d’amore abbiano uno schema preciso da seguire, non è quello che cerca Amaranta. L’originalità e la scorrevolezza sono i due punti su cui mi soffermo maggiormente. Nei romanzi del 2016 ci sono state sfumature politiche, drammatiche, ironiche, e due gialli. Ora mi piacerebbe esplorare il fantasy, lo storico, il noir, l’erotico. Certo non dipende da me, ma da ciò che di veramente buono mi arriva da valutare. La prima uscita del 2017 parla di streghe ed esoterismo, la cosa mi entusiasma molto, e la collana ha già pronti nuovi titoli molto interessanti.

Capisco cosa intendi con “lettrice infedele”. La voglia di leggere di tutto e assaggiare il più possibile ci costringe a tradire autori che amiamo o con cui vorremmo trascorrere più tempo possibile.
Amanda, ti ringrazio di cuore per questo incontro molto piacevole, per aver aperto la tua casa ai nostri occhi e averci parlato di te. Spero verrai a trovarmi di nuovo nel mio salotto. Grazie ancora!

Un’anticipazione per i lettori de L’ora del tè. Nella prossima puntata non ospiterò uno scrittore. Non siete curiosi? E allora seguitemi !!
A presto!

 

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Piero De Fazio

Un ospite insolito per L’ora del tè. Uno scrittore, certo. Ma un po’ sui generis.
Piero De Fazio è un personaggio molto singolare: riservato ma a tratti socievole, aperto quando vuole e chiuso molto spesso, generoso ed altruista per vocazione.
Sto scherzando sulla caricatura di questo scrittore perché, come potrete notare dalla nostra chiacchierata, da adesso in poi non ci sarà nulla di serio ma sarà tutto estremamente serio.
Vi prego di leggere fuori e dentro le righe.
Di non azionare la razionalità ma di essere tutto fuorché irrazionali.
Siete pronti?
Dopo questa doverosa premessa diamo il benvenuto a Piero De Fazio, il bravissimo autore di Zanne, L’eredità del cane, pubblicato nella collana Oscura di Antonio Tombolini Editore, curata da Massimo Padua.
Un avvertimento! Tenetevi forte alla sedia, però, perché ci sarà da ballare.

Pier1Piero, è un piacere ospitarti nel mio salotto, come stai? Prima di iniziare a parlare di te, dei tuoi libri e della tua passione per la scrittura, ti chiedo cosa posso offrirti. Tè, caffè, cioccolata?
Tè, caffè, cioccolata? Non sono mica malato! Una birra va benissimo, magari scura. Grazie.

Se sei pronto e comodo diamo il via alle danze! Che ne pensi?
Sono nato pronto! Come afferma Kurt Russell, in “Grosso guaio a Chinatown”. Quindi cosa stiamo aspettando?

A che età hai iniziato a scrivere?
Ho iniziato a scrivere in occasione dell’esame di quinta elementare, praticamente l’anno scorso.

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Di solito indosso una vestaglia di seta indiana, le luci devono essere soffuse, l’aria impregnata di essenza al bergamotto, poi mi occorrono una tazza di tè “Green Royal Special Edition” alla temperatura di settantaquattro gradi centigradi e un paio di biscotti al burro, fatti a mano da una signora che abita a Dublino. Indispensabili sono il mio portatile da battaglia e il sottofondo di Cartoonito e di mio figlio che uccide draghi immaginari.

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
Il luogo non conta, no, mi confondo, quelle sono le dimensioni!

Il libro più bello che hai letto?
Ovviamente il tuo, anche se non l’ho ancora letto!

Il luogo più strano in cui scrivi?
Mi piace scrivere mentre mi riposo durante le ascensioni himalayane, al riparo della mia tenda sospesa sull’abisso. In mancanza il mio angolo preferito è il tavolo della cucina.

Piero, eccoci qua! Inizio subito con una curiosità. Visto che hai fatto riferimento alla scuola vorrei chiederti come erano i tuoi rapporti con la letteratura, i romanzi e i grandi autori ai tempi del liceo e dell’università e quali erano i tuoi generi preferiti? Inoltre vorrei anche che ci raccontassi quando hai capito che oltre a leggere ti piaceva anche scrivere. Sei stato colpito dalla frenesia creativa oppure hai ricevuto un colpo in testa e ti sei ritrovato autore senza neanche capire come? Ma giusto per la nostra serenità, hai superato l’esame di quinta, vero?
Well, come dicono gli anglofoni, i miei rapporti con la letteratura ai tempi della scuola erano ottimi. Sono stato l’autore di una raccolta di sonetti vagamente erotici dedicati a Cinzia della terza C e di un carme ispiratomi da Marisa, ripetente della quarta B, tutti incisi sul banco durante le ore di lezione. La mia attività letteraria mi è costata una settimana di sospensione. Da questo episodio premonitore avrei dovuto capire che l’arte è incompresa, specie nei suoi accenti più profondi e sinceri. In compenso Cinzia si è fidanzata con il capitano della squadretta di calcio locale e Marisa, dopo una breve relazione con il bidello, ha preso i voti ed abbracciato la vita monastica.
Ricordo che all’epoca noi maschi prediligevamo tutti lo stesso genere letterario: i fumetti che Luciano trafugava al padre, camionista con una spiccata preferenza per le storie che non lasciavano spazio all’immaginazione.
Da ragazzo ho iniziato a praticare pugilato. Volevo diventare professionista. Una sera, durante un match particolarmente impegnativo, mentre riverso al tappeto sentivo l’arbitro contare, ho avuto una specie di illuminazione e mi son detto: non sarà il caso di rivederlo, questo progetto di fare il professionista? Così ho pensato a qualcosa che mi piacesse altrettanto, ma fosse meno doloroso. Ho iniziato a scrivere; da allora ho molti meno lividi, ma in una cosa mi sbagliavo: scrivere non fa meno male che ricevere un pugno.

Pier2Spero tu non indossassi una vestaglia di seta indiana mentre tiravi di pugilato e che questa abbia causato la tua rovinosa caduta sul ring. Se così fosse sono davvero grata a quella vestaglia per averti restituito a noi come scrittore. Senza quella botta in testa forse oggi avresti un naso rotto in più ed un libro pubblicato in meno. E noi una storia in meno da leggere.
Parliamo di lettura, ti va? Poi ci dedicheremo anche a Zanne.
Il rapporto fra lo scrittore e la lettura è un sodalizio estatico che tocca corde sensibili e ricettive. Voglio dire che spesso l’autore legge per nutrire quella piccola fiammella creativa che brucia dentro di lui, da qualche parte, più o meno nascosta o più o meno visibile. È impossibile prescindere dalla lettura, non credi? Quanto ho appena affermato vale anche per l’autore Piero De Fazio? Quali sono i tuoi generi letterari preferiti come lettore? Sei onnivoro o prediligi gli stessi generi di cui sei anche scrittore? Noir, fantasy, thriller…
Ti ringrazio per la domanda. Leggo soprattutto la domenica mattina, quando i ragazzi delle consegne mi lasciano depliant pubblicitari nella cassetta delle lettere. Ecco, allora indosso la mia vestaglia di seta e mi sdraio sul divano in compagnia di offerte speciali e confezioni famiglia super scontate.
Poi, se proprio devo, leggo saggi storici e romanzi di ogni genere. Apprezzo in modo particolare autori come Dino Buzzati, Stephen King, William Gibson, Valerio Evangelisti, per citarne alcuni, e possiedo ogni cosa scritta da Stefano Benni.

Anche il top di paillettes che indossi oggi non è niente male. Poi, a fine intervista, ti chiedo l’indirizzo del negozio dove lo hai comprato.
Torniamo a noi. Ti faccio una domanda a bruciapelo.
«Vivono nel mondo reale e nello stesso tempo nel mondo di cui stanno scrivendo».
Ovviamente ci riferiamo agli scrittori.
Vorrei il tuo parere su questa frase e sapere quanto ti rappresenta.
Nessun mondo è reale. E non sono reali neppure le paillettes che indosso, così come io non sono Piero De Fazio, bensì il postino: quindi signora questa raccomandata l’accetta oppure no? Ecco, brava firmi qui, in calce al modulo di ricevuta.

Pier3Mi dica, dove devo firmare? Qui?
La busta cosa contiene? Un libro?
Ah, ma è Zanne, L’eredità del cane di Piero De Fazio. Mi perdoni, devo salutarla, ora devo parlare con l’autore.

Eccomi Piero, scusa sono tornata, era il postino che mi ha consegnato il tuo libro. Che dici, vogliamo parlare di Zanne? Niente spoiler però, d’accordo? Non raccontiamo che l’ispettore De Falco non è proprio quello che sembra e che appare fin dalle prime pagine come un personaggio molto particolare. Inquietante è la parola giusta?
Vorrei che ci raccontassi come è nata l’idea e qualche curiosità sulla stesura del romanzo, se ce ne sono… E poi, quanto di vero c’è nella storia!
Che razza di domanda! È tutto vero! Non c’è nulla di inventato nella storia, mi sembra evidente!
Visto che ho cominciato a rispondere all’ultima parte del quesito, adesso mi sono incartato e non so più come rispondere alla prima, bella figura per uno scrittore! Comunque abbozzo una difesa abborracciata, come facevo sul ring, e provo a dire qualcosa di sensato. Il filo conduttore di Zanne e il suo impianto narrativo di base sono incentrati sul tema della giustizia, che quando è negata spinge a invocare la vendetta. Curiosità sulla stesura del romanzo non ce ne sono, a parte il fatto che durante le sessioni di scrittura ho avuto improvvise e inspiegabili voglie di carne al sangue, molto al sangue. Come sono andato?
Bene Piero, stai andando molto bene!
Desideri un’altra birra o posso farti l’ultima domanda?
Sono una lettrice curiosa e soprattutto una scrittrice invidiosa. Se so che un autore sta scrivendo, mi metto subito in moto per scoprire a cosa stia lavorando e soprattutto mi fa venire voglia di scrivere.
Sono troppo invadente se ti chiedo se hai qualcosa in cantiere?
Inoltre dimmi, hai mai pensato di cambiare genere e scrivere un romanzo rosa?
Ancora sei o sette birre e posso scrivere qualunque cosa!
Comunque sì, ho in cantiere parecchi progetti: una raccolta di racconti che spaziano dalla fantascienza all’horror, passando per hard boiled e thriller, con l’aggiunta di una spruzzata di fantasy; poi ho alcuni thriller già pronti, in attesa di revisione, e per finire ti stupirò dicendoti che rinchiuso nel cassetto conservo anche un romanzo rosa, che forse vedrà la luce, se troverò un editore tanto pazzo da pubblicarlo.

Anche per oggi abbiamo finito. E’ un peccato che questa ora sia trascorsa così velocemente; ringrazio di cuore Piero per avermi fatto compagnia e per la sua simpatica amicizia e rinnovo l’invito ad una nuova esilarante chiacchierata per la presentazione del suo romanzo rosa.
Un ultimo appello ai miei lettori. Zanne, L’eredità del cane di Piero De Fazio è un grande libro, sentiremo parlare ancora di questo autore che non ha nulla da invidiare ai famosi scrittori di thriller e noir. Quindi che aspettate? Compratelo, leggetelo e fateci sapere cosa ne pensate.
A presto per il prossimo numero de L’ora del tè.

 

 

 

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Michele Marziani

Lo presento, ma il suo nome parla da sé. Michele Marziani – giornalista, scrittore, maestro di scrittura, editor, direttore editoriale di Antonio Tombolini Editore per il quale dirige anche la rivista Il Colophon – è nato a Rimini ma è cittadino del mondo. Ha vissuto in Romagna, in Piemonte e in Lombardia. Oggi vive in tre luoghi: a Rimini, a Dublino e sulle alpi piemontesi. Però se pensa a “casa”, pensa al Monte Rosa. Questa ce la faremo spiegare da lui!
Michele ha al suo attivo sette romanzi più una serie di libri di viaggi enogastronomici.
La scrittura non è il suo lavoro, ma la sua vita.
È un’emozione averlo qui con me, oggi, nel mio salotto. Prepariamo il tè e iniziamo subito la nostra chiacchierata.

Michele, benvenuto nel mio salotto e grazie per aver accettato il mio invito. Sono le cinque di mercoledì otto febbraio e stiamo per iniziare la nostra chiacchierata. Prima però ti chiedo cosa gradisci? Tè, caffè, infuso? Biscotti, crostata?
So che sarebbe l’ora del tè, ma prendo volentieri un caffè lungo, americano, senza zucchero e una fetta di crostata. Buona la marmellata di lamponi.

Fantastico! Se sei comodo, iniziamo con le cinque domande introduttive.
Comodissimo. Davvero onorato di essere qui.

A che età hai iniziato a scrivere?
A sei anni, più o meno. Quando ho imparato. All’inizio preferivo i fumetti. Poi la poesia. La narrativa è venuta dopo.

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Tazza di caffè sempre piena.

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
Dove vivono i miei personaggi.

Il libro più bello che hai letto?
Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline.

Il luogo più strano in cui scrivi?
L’angolo delle macchinette del caffè al piano interrato del Trinity College a Dublino.

10858434_795450307171516_6764053761804055060_nPer me non esiste altro. Una frase bellissima di Bernard Malamud (che prenderò in prestito!) a cui fai riferimento nella tua biografia. I libri, prima come lettura e poi come scrittura, permeano la tua vita da sempre. Ci racconti com’è iniziata questa passione così grande?
Chi ti conosce (ed io sono fortunata ad avere questo onore) percepisce in te l’amore smisurato per la parola scritta. Un amore che supera ogni altra passione. So che la domanda può sembrare sciocca ma vorrei che tu ci raccontassi perché hai deciso che da grande avresti fatto lo scrittore e se hai mai preso in considerazione un altro mestiere. Io personalmente ti vedo bene nei panni che indossi, ma per curiosità, ti sarebbe piaciuto fare, che ne so, l’astronauta, il giardiniere, il cuoco? In fondo hai scritto anche libri di ricette…
Guarda, io sono sempre stato affascinato dalla parola scritta perché mi indica qualcosa di nuovo, mi insegna qualcosa che non so. Se non so leggere e vedo un cartello blu con dentro una scritta bianca non so nulla, ma quando imparo a leggere ci leggo dentro “Milano” e allora imparo dove sono.
Ho sempre letto di tutto, da quando sono nato, compresi i bugiardini delle medicine e le istruzioni degli elettrodomestici, mi piacciono le parole scritte dentro la vita vera, come i cartelli stradali. Per questo sin da bambino sono stato un divoratore di fumetti. Nei fumetti c’è la parola scritta dentro alla vita disegnata. Li amavo. E amavo il disegno, non facevo altro che disegnare, ovunque, comprese le pareti della mia stanza (mio papà era un seguace convinto del pediatra Benjamin Spock). Questo avrei voluto fare: il fumettista. Però non mi riusciva, non riuscivo a far combaciare quello che avevo in testa con quello che disegnavo. Il segno grafico mi tradiva. E tutto questo è stato per me molto frustrante, per parecchi anni. Leggevo tantissimo, ho sempre letto tantissimo, oltre ai fumetti, libri di ogni tipo. Lo facevo perché ero spesso malato e la televisione non c’era e andavo sovente dai medici, finivo in ospedale e i libri, assieme, appunto, ai fumetti, mi facevano compagnia, mi permettevano di vivere vite più interessanti di quella di un ragazzino nella sala d’attesa di un ambulatorio.
Non ho capito subito che oltre a leggere potevo scrivere. Ho avuto la ventura di comporre delle poesie, come tutti gli adolescenti. Erano brutte. Poi una sera ho attaccato i versi tra loro e ho visto qualcosa che non avevo compreso prima: un racconto scritto sì da me, ma nato da solo. La mia scrittura è questo: lasciare spazio a cose che nascono per conto proprio. Certo, dopo un lungo lavoro di ricerca e di immedesimazione, anche, ma le parole prendono posto autonomamente e come le ritrovo mi piace. A differenza dei disegni: anche loro vengono da soli, ma non sono come li vorrei. Racconti e romanzi non li immagino in qualche modo, li lascio liberi. Per questo, probabilmente, mi vengono abbastanza bene.
Appartengo a una generazione che ha creduto fortemente nella fine del lavoro: io, semplicemente, non vorrei lavorare. Se qualche volta ho immaginato un mestiere diverso dal mio è quello di non fare nulla, di andarmene in giro per il mondo, guardare che cosa accade. Mi piace moltissimo guardare la vita degli altri. Scrivere e leggere non sono un mestiere, sono la vita. La mia almeno.

Tazza di caffè sempre piena. Io di solito la riempio di tè o infusi. Il rito della scrittura in cui ogni scrittore si riconosce. Parlando di manie ed abitudini vorrei curiosare un po’ in casa Marziani, trasformarmi in farfalla ed osservarti nella tua giornata tipo dedicata alla scrittura: come ti organizzi, quale luogo scegli o preferisci, come gestisci i disturbatori, quando decidi che è il momento di iniziare a scrivere c’è qualcosa che deve succedere oppure inizia e basta? In sostanza, raccontaci quali sono le tue abitudini, se ne hai, quando scrivi.
Il punto è capire dove comincia la scrittura. Se inizia quando cominci a stendere le parole sul foglio allora ho poco da raccontare. Per me la scrittura parte molto prima, a volte anni prima, quando vengo avvolto da una sorta di frenesia e improvvisamente mi interessano cose di cui prima non mi importava niente e comincio a viaggiare dentro a idee che a volte diventano romanzi.
Provo a farti un esempio, sono un paio di mesi che penso a Garibaldi, all’Uruguay, alle fisarmoniche, ai migranti italiani, ai pellerossa americani, alla Beat Generation e a un viaggio coast to coast negli Stati Uniti che vorrei fare ma senza dimenticare Montevideo, il Rio della Plata, Buenos Aires… C’è nulla di sensato in questo? Ancora no, ma io avverto un prurito da qualche parte nell’anima che mi dice che anche solo un particolare di tutte queste cose diventerà una storia. Siccome però non so quale sarà mi guardo in giro, progetto viaggi, leggo libri, vado in luoghi che mi sembrano adatti. Adatti a cosa? Boh, lo scoprirò. Intanto obbedisco ad una sorta di istinto narrativo e ci vado. Poi mi faccio mandare vecchie riviste dai posti più strani. Cerco di incontrare esperti delle varie suggestioni che mi riempiono la testa. Questo accade piano piano. All’inizio sono pensieri che stanno di lato, mentre tu fai altro, ti occupi delle cose della vita. Poi diventano idee fisse. Infine un giorno, per caso, all’improvviso, come le illuminazioni Zen, intravedi una storia che spesso non c’entra nulla col casino che hai messo in moto. Però la riconosci e dici: quella è la storia. Così cominci a cercare con maggiore precisione e a costruirne il percorso nella testa. In tutto questo tempo io non scrivo una sola riga, disegno piuttosto, perché disegnare mi dipana i pensieri. Lo faccio su piccoli taccuini che riguardo raramente.
Poi un giorno qualcosa nella mia testa dice che è il tempo di scrivere. Allora mi apparto, mi metto in un angolo, metaforico e reale, chiudo la porta, non concedo accesso a nessuno e comincio a scrivere. A volte senza neppure fermarmi per giorni. Senza togliere il pigiama. Mangiando quello che avanza nel frigo e non rispondendo a nessuna sollecitazione dall’esterno. Nasce quasi sempre così la prima stesura.
Poi un giorno metto il punto e chiudo tutto in un cassetto. Mi guardo allo specchio. Mi faccio una doccia. Metto a posto la casa, mi vesto bene e esco a cena con la persona più cara che ho intorno. Rientro comunque nel mondo.
Dopo un mese, ritiro fuori il manoscritto e comincio a lavorare. Qui allora posso parlare di giornata tipo. Se riesco lavoro sul libro la mattina presto. Diciamo dopo colazione, dalle 7 alle 10. Poi se sono al mare vado in giro in bicicletta, pranzo e mi dedico alle altre cose della vita e del mio lavoro fino a sera quando vado a dormire prestissimo. Se invece sono in montagna vado a pesca oppure a funghi o semplicemente in giro fino all’ora di pranzo. Credo che sia in questo tempo liberato che la mente cominci a raccogliere stravaganze pronte per il libro successivo.
Il lavoro di limatura, riscrittura, messa a punto è il più lungo. Dura molti mesi. Con pause necessarie anche di un mese tra una lettura e l’altra, perché a quello che hai scritto con tanta ferocia verso te stesso e verso il mondo, adesso occorrono la cura del riposo e della riconciliazione. L’editing è spesso una carezza.

309443_2390791007480_1182024689_2746144_523145277_n1Grazie Michele, hai espresso molto bene quello che per te è la tua vita dedicata alla scrittura e come nascono le storie che scrivi. Prima di parlare nello specifico di alcuni dei tuoi libri, riprendo una cosa che hai detto poco fa, per ragionarci un po’ assieme. Le tue storie sono ambientate dove vivono i tuoi personaggi. Che è, più o meno, quello che tutti gli scrittori rispondono. La domanda forse sembra banale, ma l’ho rivolta a tutti gli autori per svelare quelle abitudini che tutti noi abbiamo quando scriviamo e di cui forse non ci accorgiamo, come ad esempio fare vivere i personaggi in luoghi più o meno sempre simili e vicini a ciò che amiamo. Ti faccio un esempio. Tempo fa feci leggere ad un’amica alcune storie che avevo scritto e dopo la lettura lei mi disse che facevo abitare i miei personaggi sempre in un casolare. Io non me ne ero accorta ma dovetti convenire che aveva ragione e da allora ci feci caso: amo la campagna e i miei personaggi di solito vivono lì.
Ho letto tutti i tuoi romanzi e la maggior parte di essi hanno un elemento in comune: l’acqua. Credo tu abbia capito cosa intendo. Ce ne vuoi parlare?
Ho scritto un libro per spiegare il mio rapporto narrativo con l’acqua e neppure so se ne sono stato capace fino in fondo. Comunque si intitola Il pescatore di tempo e attraversa tutti i luoghi e le mitologie della mia narrativa. Lo fa con la canna da pesca in mano, ma perché io sono anche un pescatore.
I protagonisti dei miei romanzi vivono tutti nei luoghi de Il pescatore di tempo, ne respirano il senso, ne percepiscono la forza anche quando odiano quella zona salmastra tra il fiume e il mare (Franco Botteghi in Barafonda); anche quando l’acqua è solo un pretesto cittadino (penso alla ciclofficina di Arnaldo Scura sulla riva del Naviglio della Martesana a Milano in Umberto Dei). Ma i due romanzi dentro ai quali io sono nato, perché dentro alla scrittura accade anche questo, di nascere un’altra volta, sono La trota ai tempi di Zorro in cui Stefano Baldazzi Morra impara a crescere grazie alle trote che nuotano nel torrente del suo paese e Fotogrammi in 6×6 dove il protagonista, un altro Stefano, fa esperienza diretta della diseguaglianza pescando i tritoni col suo amico Igor, uno zingaro, occasionale compagno di scuola. Persino in Nel nome di Marco che è la storia di un sacerdote tifoso di Marco Pantani, uno degli episodi cardine del libro è nell’incontro tra il padre del protagonista e il parroco del paese: sono su un torrente a pescare. La signora del caviale, poi, è completamente ambientato sulla golena del Po, cioè in quello spazio che sta tra il fiume e l’argine. Uno spazio che le stagioni regalano spesso agli uomini e ogni tanto al fiume in piena. Possibilità di vita e devastazione. Un rapporto che un tempo la gente accettava forzatamente e del quale oggi restano solo storie da raccontare: lungo il fiume Po ci sono 35000 (sì, hai capito bene, trentacinquemila) case abbandonate nelle golene. Nessuno oggi, giustamente, vuole più vivere lì, ma questo non vuol dire che chi ci è vissuto non abbia originato un’epica del fiume. Cito i primi autori che mi vengono in mente: Riccardo Baccelli e Beniamino Guareschi.
Per me l’acqua, narrativamente, è tutto. Ho scritto altri romanzi che arriveranno prima o poi in libreria: tutti seguono il filo di un fiume. Uno addirittura attraversa i mari, partendo da una piccola valle alpina italiana, passando per l’isola di Ventotene, poi la Spagna, per approdare nel Connemara, nell’ovest dell’Irlanda sulle sponde di un piccolo lago. In questo specchiarsi di acque si specchia la storia del Novecento. Sarà in libreria a luglio. Si intitola La figlia del partigiano O’Connor. Per la prima volta è una storia con una protagonista femminile. Di più ora non posso dirti.
L’acqua sulla quale si svolge la vita è il mio sogno infantile e lo ripeto all’infinito. Rubo le parole a Renzo Casali, indimenticato uomo di teatro e fondatore della Comuna Baires di Milano: «Tutto quello che faccio è cercare di realizzare quello che sognavo a otto anni». Anch’io.

libri micAllora, Michele, arrivata a questo punto della chiacchierata, di solito, cerco di catturare l’attenzione dei lettori sulla produzione letteraria del mio ospite. Come vedi, qui sul tavolino, ho una bella pila di tuoi libri: i romanzi, i racconti ed infine i libri dei viaggi enogastronomici. Ho l’imbarazzo della scelta, ma soprattutto sono condizionata da due cose: dal mio amore per i romanzi e soprattutto per i tuoi romanzi. Non vorrei togliere importanza alle altre tue opere, come ad esempio Un ombrello per le anguille, una bellissima serie di racconti scritti sull’acqua, oppure Fotogrammi in 6×6, un piccolo libretto che contiene tre storie intense e forti o Nel nome di Marco il tuo bellissimo romanzo dedicato al grande Pantani. Non vorrei togliere importanza alle altre tue opere, dicevo, ma mi piacerebbe che ci parlassi di due tuoi romanzi in particolare. Iniziamo con il primo, e cioè con Umberto Dei, biografica non autorizzata di una bicicletta. Prima di tutto vorrei che ci raccontassi com’è nata l’idea di questa storia e perché hai scelto proprio, come protagonista, una Umberto Dei; poi vorrei sapere perché è una biografia non autorizzata di una bicicletta e come è nato il titolo; ed infine, già che ci sei, raccontaci anche qualche curiosità, se ce ne sono, su questo libro.
L’idea è nata percorrendo in bicicletta il Naviglio della Martesana ogni giorno. All’epoca abitavo a Milano. Non mi piace la metropolitana, se posso preferisco andare a piedi o in bicicletta. E in bici, appunto, andavo a lavorare in viale Monza. Ogni volta che passavo davanti al portone dove poi ho ambientato il romanzo qualcosa mi attraeva, mi costringeva lì. Piano piano è nato il personaggio, è nata la storia, ma era una storia del cavolo perché raccontava di un ex rivoluzionario, di un cocciuto, estremista ed estremo, che andava in giro con la cosa meno estrema che c’è al mondo, una paciosissima bici da città. Poi ho scoperto le Umberto Dei, biciclette per maniaci, per feticisti direi. La bicicletta estrema. È nato tutto così, ad ogni passaggio sul Naviglio. È una biografia di una bicicletta perché è lei, il mezzo meccanico, che accompagna tutto il percorso narrativo. Non è autorizzata perché Umberto Dei, il costruttore, mica l’avrebbe mai scritta una biografia così delle sue biciclette. E suonava bene. Come suona bene Umberto Dei, prova a ripeterlo ad alta voce: dura il tempo di un giro di pedale. La sonorità è tutto nella scrittura. Curiosità? Tantissime, non saprei da dove cominciare. Anzi sì, mandai il manoscritto da leggere a due amici e loro, dopo averlo terminato, per tutta risposta mi regalarono una bicicletta Umberto Dei. Fu commovente. Anzi no, fu molto bello. Commovente fu invece una lettera che ricevetti da un professore universitario di Milano che mi disse che gli avevo raccontato la sua vita, o almeno la parte che lui sognava, compresa, purtroppo, la moglie amatissima che muore di un tumore. Proprio come nel libro. Umberto Dei è stato il mio tributo a Milano, l’unica città italiana per cui provo affetto.

Giuro, ho provato a ripetere a voce alta Umberto Dei e suona davvero bene. Se dura il tempo di un giro di pedale non lo so perché qui non ho una Umberto Dei ma mi fido di te. Sono stupita nello scoprire che abbiamo a cuore la stessa città e non ti nascondo che ho passeggiato più volte lungo il Naviglio della Martesana curiosando nei portoni e cercando qualche indizio per capire quale fosse il luogo in cui avevi ambientato la bottega di Arnaldo Scura. È davvero emozionante andare a caccia dei luoghi e dei personaggi dei nostri libri preferiti.
Ed ora veniamo ad un altro tuo capolavoro; l’ho scelto perché mi ha incuriosito il titolo e quando l’ho letto mi sono ritrovata immersa in un sogno.
Nella mia recensione a questo tuo libro ho riportato un estratto particolarmente significativo: Per pescare sul serio serve imparare il silenzio e il passo felpato. Occorre lo stupore di trovare pesci incredibilmente grandi in corsi d’acqua spaventosamente piccoli, stretti, gallerie di frasche con sponde di rovi. Quasi rigagnoli. Luoghi intricati, dove l’accesso costa fatica, punture d’insetto, braccia segnate, sudore… I pesci vivono spesso in luoghi che non immagineresti mai. Saperli invece immaginare è l’arma vincente. Credere l’incredibile.”
Avrai già capito che mi riferisco a Il pescatore di tempo, a mio avviso, forse, il tuo libro più profondo. Profondo perché parla di acqua e di pesci da pescare? Profondo perché parla di vita? Di viaggi? Di tempo? E silenzio?
Raccontaci tu di cosa parla e del significato che hanno per te il tempo e questo piccolo grande libretto.
Ha a che fare anche con la leggerezza del vivere?
Che dire? Grazie di spendere delle parole così importanti, così grandi, per un libro piccino che in fondo racconta solo che un pescatore può avere una chance in più per affrontare la vita: immaginarla. Giacomo Leopardi diceva che l’immaginazione è il primo fonte della felicità umana. Credo che nessuno sia costretto a immaginare più di un pescatore che si trova di fronte all’acqua e deve pensare che lì sotto ci siano pesci di ogni specie, grandezza, tipo, colore, tane, sassi, piante, ostacoli sommersi… E magari non c’è nulla, ma lui pesca convinto perché immagina un mondo sotto alla superficie dell’acqua. Un mondo migliore. Pescare è un’applicazione pratica dell’immaginazione.
Poi a me, come al protagonista del libro, la pesca ha insegnato la libertà della natura, l’uguaglianza dettata dal merito, la fraternità delle osterie. La contraddizione eterna tra amare e uccidere (ami il pesce, ma lo uccidi), l’affascinante antinomia della parola amo che è l’uncino per prendere i pesci e la prima persona singolare del verbo amare.
Credo che Il pescatore di tempo sia prima di tutto un libro sulla vita, che racconta di un ragazzo che diventa un uomo, nel caso specifico uno scrittore, portando l’immaginazione a spasso sui fiumi, mescolando libri e natura, passione e istinto. È una storia di grande fortuna e anche di piccole cose. È infine un percorso personale, quello di un bambino innamorato di una canna da pesca per la sua somiglianza con una lancia di un indiano Cheyenne e che per questo ha imparato a pescare sui libri, portando poi quei libri a sentire lo scorrere del fiume.
Il pescatore di tempo è uno scritto nato per caso. Anzi su richiesta dell’editore. Ho risposto a un invito, quello di raccontare cosa fosse la pesca. Per me, come per tantissimi scrittori che ne hanno narrato storie bellissime, penso a Ernest Hemingway di Grande fiume tra due cuori (più tutto il resto che non è poco), alla follia di Pesca alla trota in America di Richard Brautigan, alla religiosità della natura di In mezzo scorre il fiume di Norman Maclean, alla vita sull’acqua raccontata ne Il grande silenzio di Thomas McGuane, all’utopia di Pesca al salmone nello Yemen di Paul Torday, alla pace bucolica e ironica di certe acque di pianura del centro Europa raccontate da Ota Pavel ne La morte dei caprioli belli ma anche, se vogliamo citare autori vecchi e nuovi di casa nostra, alla pennellata di Novecento italiano de L’amo e la lenza di Mario Albertarelli, al mitico Colombre di Dino Buzzati che fa il paio con le splendide descrizioni dello storione del Po scritte da Gianni Brera ne La pacciada, fino ad arrivare a Fabio Genovesi con il suo romanzo Esche vive. Credo che pescare sia, prima di tutto, occuparsi di sé e del proprio tempo. E farlo con leggerezza perché, come diceva Mark Twain, comunque non ce la faremo ad uscirne vivi.
Per raccontare tutto questo, per scrivere Il pescatore di tempo, non sapendo da dove iniziare, ho cominciato come quando si giocava coi Lego: ho sparso davanti a me libri, oggetti, canne da pesca, esche artificiali, un vecchio cestino di vimini, tante foto sbiadite, qualche mappa di sperdute vallate montane… Ho riempito il tavolo, mi sono versato un bicchiere di vino e ho cominciato a osservare tutte quelle cose appoggiate lì alla rinfusa. Guardandole ho sentito l’odore del fiume – che per me è quello della vita – e ho cominciato a scrivere.

947236_10201133272632234_385289796_nSe sostituisco la parola pescatore con la parola scrittore in una frase che hai appena detto ottengo: “uno scrittore può avere una chance in più per affrontare la vita: immaginarla”. Credo che avere la possibilità di poter vivere altre vite, oltre alla propria, sia una opportunità unica, sia per lo scrittore che inventa la storia, sia per il lettore che in quella storia si immedesima. Quando ho letto Il pescatore di tempo ho trovato tante analogie fra la pesca e la scrittura e dove tu scrivevi pesca io leggevo scrittura. È un libro che parla di vita e tutti dovrebbero leggerlo.
Il tempo è volato, Michele e la nostra ora del tè è giunta al termine.
Ti chiedo solo altre due cose prima di salutarci.
La prima è una richiesta: promettimi che verrai di nuovo a trovarmi dopo la pubblicazione del tuo prossimo romanzo.
La seconda è una curiosità: nella tua biografia hai scritto che se pensi a casa, pensi al Monte Rosa. Ci spieghi perché proprio il Monte Rosa?
Con questo io ti lascio la parola, perché voglio finire questa bellissima intervista con la tua voce. Saluto i nostri lettori e do appuntamento a tutti alla prossima puntata de L’ora del tè. Grazie di cuore, Michele, per essere stato qui con me oggi!
Beh, è stata un’ora piacevolissima, almeno per me, e quindi tornerò sicuramente dopo l’uscita del nuovo romanzo.
La domanda sul Monte Rosa è difficile. Provo a risponde e parto da lontano: mio nonno paterno è cresciuto in un casello ferroviario dell’alto Molise, dove i bisnonni facevano i casellanti, non so bene da dove venissero, credo dall’Abruzzo ma potrei sbagliare.
Domenico Tommaso Marziani, questo il nome del nonno, entrò in ferrovia, divenne capostazione e girò mezza Italia. Mio padre è nato a Gorizia, mia madre viene dal basso Friuli. Quando sono nato io vivevano a San Leo che allora era nelle Marche, dopo pochi anni ci siamo trasferiti a Rimini ma a tutte le feste comandate andavamo a Padova a trovare i nonni materni che nel frattempo erano andati ad abitare lì.
Finite le scuole elementari ci spostiamo di nuovo, per motivi familiari, in Piemonte, nel Novarese, sul lago d’Orta. Credo che quegli anni siano stati i più belli della mia vita, a contatto con una natura che prima non avevo avuto occasione di conoscere.
Da Gozzano, dove abitavo, ma anche da Novara dove ho studiato e pure da Milano dove ho vissuto, nelle giornate terse si vede il Monte Rosa. Il vederlo mi rende sicuro dello stare al mondo. Mi fa sentire meno sradicato, meno perduto nei miei venticinque traslochi.
Mi sono innamorato della Valsesia, il versante più bello del Monte Rosa, quando da ragazzo in certe giornate di primavera invece di andare a scuola prendevo il trenino per Varallo. È un amore che è rimasto sempre lì. Ogni tanto torno e tutto mi sembra più bello. Ovviamente non lo è, anzi. Non c’è alcun motivo se non il respiro forte della montagna. Forse è solo un luogo dove immaginare delle radici che non ho. Magari perché è il posto di tante scorribande da ragazzo. Non è però l’unico luogo del cuore, ne ho altri, anche in montagna, la vicina val d’Ossola ad esempio.
L’ho fatta lunga inutilmente, la verità è che il Monte Rosa è semplicemente il pezzetto di mondo dove senza nessun motivo mi sento a casa. Grazie per la pazienza di tanto ascolto.

Il sito di Michele Marziani è michelemarziani.org.
Per info sui suoi libri navigate questa pagina.

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Lea Rivalta

Ed eccomi con voi, oggi, per l’ottava puntata de L’ora del tè, in compagnia di Lea Rivalta, l’autrice di Un solo sangue (Antonio Tombolini Editore), un romanzo intenso, imprevedibile e sorprendente. Scopriremo oggi la personalità molto particolare di questa scrittrice ed entreremo con lei nei meandri oscuri dell’anima.
Apro la porta alla nostra ospite e ve la presento.

Ciao Lea e benvenuta nel mio salotto. Gradisci un tè, un caffè, una tisana?
Ciao Roberta. Grazie, un earl grey con un dito di scotch whisky sarebbe perfetto. Anche del bourbon va bene.

Ottimo! Allora iniziamo con le prime cinque domande, se sei d’accordo.
Vai.

Intanto grazie per la tua disponibilità e per avermi dedicato un po’ del tuo tempo. In questo spazio desidero fare conoscere gli autori, non solo per quello che scrivono ma anche per quello che pensano, sentono, ascoltano, leggono. Leggendo un po’ di te e ascoltando le tue parole, la sensazione che ho è quella di avere di fronte una persona molto precisa, organizzata, programmata. Con abitudini consolidate e un approccio pragmatico alla vita e a tutto ciò che essa contiene. Però non è tutto qui. C’è un lato particolare di te che galleggia oltre le parole, oltre ciò che scrivi. C’è una Lea più razionale e una emozionale. Una che controlla e programma ed una che cerca invece di uscire dalle righe e tirare fuori dalla pancia una storia come quella contenuta in Un solo sangue di cui parleremo fra poco. Vorrei che ci raccontassi un po’ chi è Lea Rivalta e che smentissi quanto ho affermato poco fa oppure no…
Credo di essere come tutti gli esseri umani di questo mondo. In ognuno di noi esistono aspetti divergenti della personalità, ciò che ci differenzia è il modo di gestire questa complessità. La vita, spesso, impone di nascondere i lati meno ortodossi, che finiscono per diventare oscuri. Quando vengono alla luce, queste identità nascoste assumono sembianze che agli occhi del senso comune possono sembrare sovversive, minacciose… talvolta criminali.
lea

Lo pseudonimo Lea Rivalta è la mia voce libera di parlare della sostanza profonda delle cose, nella forma ruvida e dura che preferisco, senza che ciò possa interferire con la mia vita ordinaria in cui tiro avanti con un altro nome e cognome. Anche Lea è precisa, analitica, acuminata ma esplora le pieghe nascoste dell’anima, va dove si annida il dolore e lo affronta guardandolo in faccia.

Visto che hai tirato fuori l’argomento (l’avrei fatto senz’altro anch’io) parliamo di Lea Rivalta.
Come hai appena detto, Lea è la parte interiore di te, quella che, nonostante la modalità pragmatica di affrontare la quotidianità, sa guardare in faccia alle difficoltà della vita. È un po’ la tua parte più vera o, forse, quella che non puoi mostrare? Quando scriviamo qualcosa di noi emerge sempre fra le pagine dei nostri libri. Un dettaglio, un sentimento, un ricordo. Che a volte fatichiamo a tirare fuori. Ci può aiutare lo pseudonimo in questo? Credo che molti di noi abbiamo vissuto, almeno una volta nella loro vita di scrittori, l’esperienza di pubblicare sotto mentite spoglie.
La scelta di usare uno pseudonimo è conseguente all’esigenza di tenere separata la mia vita “ordinaria” da quella creativa. Una questione di praticità, innanzi tutto, e poi personale: volevo che la mia esperienza nello scrivere non fosse in alcun modo inquinata da infiltrazioni narcisistiche. Negli atteggiamenti di tanti presunti scrittori trovo una crescente tendenza a magnificare la propria immagine di autori a scapito del contenuto e della qualità dell’opera. Lea Rivalta è solo ciò che scrive: se questo è interessante, bene. Altrimenti Lea non esiste.

L’uso dello pseudonimo ha condizionato il tuo modo di scrivere?
No, anzi: penso abbia fatto emergere la mia vera natura creativa. Il non dover rendere conto a nessun profilo preesistente ha fatto sì che le idee fluissero libere e la forma si adattasse alla sostanza di ciò che volevo dire, senza vincoli e condizionamenti. Il risultato è una narrazione istintivamente molto asciutta che non concede nulla all’auto-compiacimento, e punta sempre al cuore delle cose anche quando entra nella carne viva dell’anima.
Penso che solo Lea potesse addentrarsi nella personalità devastata di Gio e mostrarne le macerie più intime senza vergogna, senza pudore, senza paura.

35520873_un-solo-sangue-di-lea-rivalta-1Parliamo ora del tuo bellissimo romanzo, Un solo sangue, senza entrare troppo nel racconto per non fare spoiler. Un solo sangue ha una trama molto forte, ci sono passaggi di una intensità estrema e cose che succedono e che non ti aspetti. È scritto con uno stile asciutto e coinvolgente; quello che colpisce è la veridicità della storia e dei personaggi. Hai tratto spunto da qualcosa che hai letto o da qualcosa che ti è successo? Come hai lavorato per costruire i personaggi?
Un solo sangue intende parlare di un tema vero, che riguarda quote crescenti del mondo occidentale, e che produce danni sempre più grandi sia a livello sociale che individuale: l’abbandono della propria identità e la fuga verso un’io-immagine artificiale. Si tratta di una patologia grave, che ha sviluppato radici ormai profonde e che nasce con l’incapacità di gestire la difficoltà di vivere. Tendiamo, inconsapevolmente, a rinnegare la nostra identità che ci fa sentire impotenti di fronte a modelli di vita inarrivabili e a costruire ectoplasmi belli, sorridenti e performanti in apparenza ma che non contengono più l’essere vero delle persone. Ciò produce tragedie enormi, che spesso si consumano in silenzio ma che talvolta deflagrano spargendo il carico di dolore accumulato nel tempo. Di questo argomento tratta uno dei libri più interessanti che abbia mai letto, un saggio che tiene incollati alle pagine più di un thriller. È Il Narcisimo, di Alexander Lowen… andrebbe studiato al liceo.

lea2Ovviamente Un solo sangue non è un saggio: l’idea alla base del romanzo è pura fiction. Volevo una trama che andasse dritta al cuore del problema e affondasse senza remore e condizionamenti la lama narrativa. Per questo l’ho maturata per quasi un anno, prima di passare alla scrittura. La storia è comunque costruita su mattoncini di assoluta verità: praticamente tutte le situazioni e i personaggi nascono dalla mia esperienza personale, che ho assemblato in un’architettura di fantasia al servizio del tema di cui intendevo parlare.
Parlando di tecnica narrativa, ho preso un paio di decisioni molto ponderate che hanno fortemente caratterizzato il risultato finale: la scrittura in prima persona e la limitazione del set dei personaggi.

Ti va di dirci di più su queste due scelte?
La prima persona si è rivelata fondamentale per garantire la profondità e l’impatto del racconto dell’esperienza della protagonista, che vede la propria vita decomporsi e intraprende il viaggio nella sofferenza, verso la riscoperta di sé. Questo ha comportato l’ovvia difficoltà nel costruire un romanzo corale e multi-situazione: ogni scena, accadimento, dialogo avviene attraverso il punto di vista di Gio e questo impone scelte stilistiche e narrative forti e, a volte, limitanti. Ma volevo dare assoluta priorità all’esplorazione del dolore e l’unico modo di farlo era portare il lettore nell’anima di questa donna.
Da ciò deriva anche la scelta di limitare il numero e la profondità dei personaggi: “gli altri” esistono nella misura in cui partecipano alla tragedia di Gio, che è l’unica cosa che conta in questo romanzo. Ho quindi abbandonato ogni velleità accademica riguardante la costruzione quali-quantitativa dei personaggi.
Il risultato che volevo raggiungere era un libro da leggere tutto d’un fiato, e che non si perdesse in derive inutili. Con un ritmo interiore scandito da una trama serrata, che si mette in moto sin dalla prima pagina e non si ferma più, fino all’ultima.

Hai intenzione di continuare a farti leggere come Lea Rivalta? Ci sono nuovi progetti in cantiere o Un solo sangue – parte II?
Lea ha altre cose da dire e lo farà. Ho idee che andranno ancora più a fondo nella materia oscura di cui è fatta l’anima, e comporranno una trilogia di cui Un solo sangue costituirà il primo atto. Ritengo si tratti di soggetti potenti e sorprendenti, che si baseranno su uno storytelling non convenzionale e una scrittura spericolata. I tempi per la venuta al mondo di queste creature sono ancora in via di definizione anche perché, nel frattempo, Un solo sangue potrebbe diventare qualcosa di diverso da un libro. Ne parleremo più in là, Roberta.

Con molto piacere, Lea. Ti aspetto nel mio salotto quando sarai pronta a parlarcene.
Ed ora l’ultima domanda. Hai affermato che scrivi “di tutto da sempre”. “Di tutto” intendi qualsiasi genere letterario? Ci racconti quali generi hai approcciato e per quale provi maggiore affinità?
E “da sempre” significa che hai scritto storie fin da piccola? E che storie amavi raccontare?
Nella prima parte della mia vita ho scritto tanto per ragioni professionali, ma il contenuto non poteva certo permettersi di volare sulle ali della fantasia.  La fiction è arrivata tardi, con incursioni nel mondo ragazzi e young adults, in cui ho scoperto il valore della fuga nei mondi fantastici. Ma è con la creazione di Un solo sangue, il mio primo romanzo per un lettore adulto, che credo di aver trovato il vero valore della scrittura nel mio bilancio personale. Un’autrice molto in gamba ha detto che “la vita creativa è il risarcimento della vita ordinaria”. Per me la scrittura è una grande amica, che sa aiutarmi nei momenti di dolore e sa aspettare quando non ho tempo per lei. Perché mi vuole bene senza condizioni.

Lea è stato un piacere averti mia ospite a L’ora del tè. Ti ringrazio per la tua disponibilità e ricordo ai nostri lettori il tuo romanzo: Un solo sangue di Lea Rivalta, edito da Antonio Tombolini Editore.
Arrivederci alla prossima puntata!

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