#igcird alias Il giorno che incontrammo Roddy Doyle

In scrittura non esistono regole. Tranne quelle grammaticali.
Qualche regola c’è ma è stata inventata affinché qualcuno potesse infrangerla.
Con coraggio. Convinzione. Determinazione.
La scrittura ha subito cambiamenti, evoluzioni. In una sorta di maturazione ha trovato il seme per diventare quella che è oggi.
Una forma d’arte straordinaria.
L’espressione dell’anima di colui o colei che ha così a cuore il senso delle parole e ha deciso di donarle agli altri.
È quello che trasmette #igcird, ossia Il giorno che incontrammo Roddy Doyle, il romanzo-antologia di Max O’Rover, scrittore, social media marketing, direttore della comunicazione di Antonio Tombolini Editore. Un romanzo in cui ogni capitolo ha un suo significato e che nell’insieme formano una storia più grande.
I personaggi che O’Rover ha chiamato sul palcoscenico sono personalità forti, delineate in maniera perfetta, cesellate. Dietro questo lavoro di limatura esiste un amore profondo per l’umanità, per i rapporti personali, di rispetto verso l’uomo.
Ho interpretato ogni capitolo come un racconto. Un pezzettino della vita di uomini e donne che cavalcano il palcoscenico e raccontano uno scorcio di Irlanda, la terra dalle alte scogliere, dove il vento travolge la natura e la Guinness è la bevanda nazionale.
Tutti pazzi per l’Irlanda, avrebbe potuto essere il sottotitolo di #igcird, una storia dove i personaggi cercano di raggiungere l’isola Verde, di viverla o abbandonarla, tutti attratti e affascinati da questa terra stregata.
In fondo è l’elemento comune di tutti i personaggi, ognuno con la sua storia che si intreccia a quella degli altri, in una sorta di destino comune. C’è anche un Roddy Doyle che diventa personaggio, con la sua vicenda e i suoi libri. In particolare uno, quello che tutti gli altri personaggi vogliono.
Max O’Rover ha il tratto deciso, dell’autore che non teme il foglio bianco, che sa tener testa alle parole, piegandole al suo servizio. O forse sono le parole a piegare l’autore. Chi lo sa?

Il giorno che incontrammo Roddy Doyle  è scritto da Max O’Rover e pubblicato nella collana Oceania  di Antonio Tombolini Editore.

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L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Manuela Bonfanti

Per presentarla uso le sue parole. Una frase che spiega tutto di lei, soprattutto la profondità del suo lavoro di scrittrice e il rapporto fra lei e la parola scritta: “La scrittura mi accompagna fin dal giorno in cui andai alla lavagna in prima elementare e scrissi l’unica parola che sapevo scrivere: il mio nome. Mica una parola da nulla: è la prima porta di entrata verso l’identità. E, da allora, ne ho esplorato le stanze”.
Sono felice di averla con me oggi, il suo nome è Manuela Bonfanti Bozzini. Manuela è nata nella Svizzera italiana, vive in Francia ed ha pubblicato, da poco, Punti e Interrogativi per Antonio Tombolini Editore, all’interno della collana Oceania. Conosciamola assieme!

Benvenuta Manuela! È un piacere incontrarti di nuovo. Sono le cinque, posso offrirti un tè bianco? È uno dei miei preferiti…
Perfetto, adoro il tè bianco. In foglie, senza latte né zucchero per favore.

Se sei pronta possiamo partire con la nostra chiacchierata. Che ne pensi?
Sono pronta!

A che età hai iniziato a scrivere?
Se intendi per un pubblico: dopo gli anni di università, tra i 25 e i 30.

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Non ho manie.

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
In luoghi immaginari che assomigliano a quelli che conosco. Per ancorarle a una realtà plausibile ma universale.

Il libro più bello che hai letto?
Tanti. Ma se dovessi salvarne solo uno, opterei per La buona terra di Pearl Buck.

Il luogo più strano in cui scrivi?
In giardino, d’estate. I riflessi sullo schermo mi fanno impazzire, ma impazzirei di più senza sole e luce.

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Eccoci Manuela! È un piacere ospitare nel mio salotto un’autrice internazionale. Ti ringrazio in anticipo del tempo che mi dedicherai e vorrei partire subito con la prima domanda.
Ho sbirciato sul tuo sito e, da vera donna curiosa, ho letto la tua biografia. Ti confesso che sono rimasta a bocca aperta. Il tuo curriculum è ammirevole. Complimenti davvero!
Partiamo dalla tua passione per lo studio che da quel che ho potuto leggere non si è ancora esaurita. Hai approfondito tanto ed a fondo alcune tematiche come le lingue (italiano, francese, inglese, tedesco, russo, spagnolo, portoghese, cinese, conseguendo anche risultati prestigiosi); hai effettuato studi di psicologia, sociologia, marketing e comunicazione. Ed hai frequentato il corso di formazione biennale in metodologie di scrittura (auto)biografica presso la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Mi interessa iniziare con l’approfondire quest’ultimo tassello del tuo mosaico formativo. Ci vuoi parlare della scrittura autobiografica? Cos’è, come funziona, qual è il suo ruolo…
Descriverla in poche parole è una sfida: intuisci che si scrive di sé, ma in modo riflessivo e ragionato. È un viaggio formativo che permette di capirsi più profondamente, di fare su di sé un esercizio filosofico che conduce a un “luogo interiore di benessere e di cura”(*). È stato un percorso estremamente arricchente, che mi ha consentito di esplorare i temi radicati nella mia scrittura. Ma la ragione per la quale ho imboccato questa via è molto più semplice e concreta: mi appassionano le storie. Ho ruotato attorno ad esse dagli studi di Lettere, quando ancora le storie le leggevo soltanto, allo scrivere storie “mie”. Una formazione che studia e valorizza storie autobiografiche mi è parsa la svolta naturale sul mio percorso perché nel mio primo romanzo, La lettera G, ho narrato una possibile biografia della donna comune, dimenticata dalle storie e dalla Storia. Grazie a questo libro, l’intuizione si è mutata in consapevolezza: volevo conoscere l’arte di scrivere storie di vita, espressione che preferisco ad autobiografia – parola che, essendo unicamente autoreferenziale, si presta a interpretazioni anche fallaci, soprattutto quando emana da una scrittrice. Ma qui entriamo in un discorso complesso, credo che tu mi capisca. Comprendere le storie degli altri (e in particolare delle altre) mi offre spunti diversi per poterle narrare – sia in forma di fiction come ho fatto finora, che attraverso raccolte di storie di vita reali, sia per intero, che sviscerandone uno o più aspetti. Il finale del racconto “Le urla dei muti” di Punti e Interrogativi tradisce il desiderio di dar voce a storie che, altrimenti, non verrebbero raccontate. Ecco, spero di aver risposto alla tua domanda. Ora permettimi di ringraziarti di cuore per avermi invitato per il tè, e dell’opportunità che mi offri di parlare di ciò che scrivo e sono…

(*)espressione di Duccio Demetrio, co-fondatore della LUA

Interessante, Manuela. Confesso che io stessa ero stata tratta in inganno e forse non solo io. Autobiografia intesa come narrazione di una storia di vita (reale o inventata) ma non per forza biografia dell’artista. Ora è tutto molto più chiaro e interessante, e si sposa perfettamente con i racconti contenuti in Punti e Interrogativi, il tuo secondo libro pubblicato da Antonio Tombolini Editore. Ne parleremo fra poco.
Ho fatto riferimento, nella precedente domanda, alla tua immensa passione per lo studio. Quando ci siamo incontrate, l’ho percepita intensamente dalle tue parole e dall’inconfondibile luce negli occhi. Ti chiedo. Quanto peso hanno avuto, gli studi che hai fatto, su Manuela scrittrice? Sono stati fondamentali per la sua maturità artistica? In che cosa senti che l’abbiano aiutata o eventualmente migliorata?
Ho sempre considerato lo studio come parte di un percorso di crescita personale, slegato dalla scrittura. Questo perché nessuno studio trasforma in scrittrice, la scintilla sta dentro. Ma indubbiamente, studiare è stato fondamentale per alimentarla: mi ha fornito strumenti di analisi e di comunicazione ed è stato motore di apertura e ricerca. È pure possibile che, senza l’uno, non sarebbe potuta emergere l’altra. O viceversa. Non posso dirti con precisione come si è creata la sinergia. E poi, non ti nascondo che, con il tempo, ho ampliato la mia definizione personale della parola studio, includendo l’istruzione informale, ovvero quella che si può ricavare da metodi meno codificati come l’osservazione, l’ascolto, le esperienze costruttive. In questo senso, i miei tre grandi alleati sono stati le letture, i viaggi e i figli. Tutto contribuisce a creare spazi di scoperta e comprensione che, nel mio caso, confluiscono nella scrittura.

Parliamo ora della tua scrittura. Le tue storie sono storie di vita. Quanto è vera quella vita che racconti? In Punti e Interrogativi dai la sensazione che lo sia. Ci racconti come nasce l’idea di una tua storia? Che cosa ha ispirato i racconti di Punti e Interrogativi?
Per risponderti, permettimi di citare un grande della letteratura, Orhan Pamuk: “Le opere di un romanziere sono come costellazioni di stelle in cui lui, o lei, propone decine di migliaia di piccole osservazioni sulla vita – in altre parole, esperienze di vita basate su sensazioni personali”. Ecco, le “piccole osservazioni sulla vita” sono gli spunti dai quali nascono le mie storie: riflessioni mie, che hanno trovato il loro spunto in una metafora o in una parola; frasi o frammenti di vita regalatimi, consciamente o meno, da qualcuno; problematiche vissute o osservate, che mi rincorrono per essere interrogate. Su questi spunti ho costruito trame di fantasia, popolate di personaggi emblematici, “veri” solo in quanto sintesi o caricature di caratteristiche osservabili. I miei Punti e Interrogativi sono nati così. Ora però è tempo di offrirli perché, oltre al piacere della lettura, possano andare a suscitare spazi di senso e movimenti interni unici in ciascuna lettrice o lettore.

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Nelle “piccole osservazioni sulla vita” mi ci riconosco anch’io e come me e te credo anche tanti altri autori. È un po’ come vivere tante vite e poi tentare di raccontarle. Su dettagli, immagini, sensazioni vere costruiamo storie di pura fantasia, ma che non sempre sono pura fantasia. C’è qualcosa di reale nelle storie che inventiamo, non credi? Per quanto io mi sforzi di creare storie che non esistono, qualcosa di me, della mia vita, dei miei sentimenti ritorna continuamente fra le righe ed emerge, all’improvviso, come catturato dalla mia stessa anima e nascosto fra le parole. Confrontando la tua esperienza di scrittura con la mia, quanto ti ritrovi in ciò che ho appena descritto? Quanto riesci a separare la tua vita da quella dei tuoi personaggi? Oltre ad attingere dalle tue giornate e dalla quotidianità, le tue storie nascono anche dal tuo vissuto? Ci sono temi pesanti nei tuoi racconti come la violenza, la solitudine… ci racconti come sono arrivati alla tua penna?
Sottolinei un aspetto fondamentale, Roberta: nel genere romanzo, dell’autore c’è tutto e niente. Al di là dell’invenzione, qualcosa di noi filtra sempre nella scrittura, che sia un ambiente, una caratteristica di un personaggio, un pensiero. È questo, che rende ciò che scriviamo “reale”. Ma ci interroghiamo tanto, forse troppo, sulla relazione tra scrittura e vita vera. In fondo, che importanza ha? L’essenziale è come il testo viene letto, quali sensazioni e riflessioni scatena. Quel che mi prefiggo, scrivendo, è entrare dentro. E ad aprire la porta è chi legge. Quindi, perché non parlare di lettrici e lettori? Sono loro, i veri protagonisti di ogni libro.
Mi chiedi come sono arrivati questi temi alla mia penna. Io credo che ciascuno porti in sé, radicati già dalla nascita, alcuni temi sui quali riflette. E ogni esperienza, ogni parola, sguardo o gesto, vanno a interrogarli. È come se, fin da piccoli, il nostro inconscio li selezionasse perché quello, proprio quello ci parla. Per questo non è necessario che io abbia sperimentato qualcosa, perché mi sorga la necessità di scriverne. Ne hai citata una: la violenza sulle donne. Non l’ho mai subita, né osservata da vicino, ma mi turba profondamente. Certo, qualcosa che mi lega a questo tema universale c’è: sono una donna. Ecco l’elemento reale, quel qualcosa di me che, come dici bene tu, torna tra le righe e accomuna questa tematica alle altre. Ma la cosa parte da lì, e lì si ferma.
La maggior parte di noi, però, non scrive. Preferisce riflettere silenziosamente. E spesso legge. Ed eccoci di nuovo ai lettori. Tu prendi Punti e Interrogativi: quale racconto ti è piaciuto di più? Se lo chiedo a cento persone, otterrò risposte diverse. Risposte che mi parleranno di loro, non di me. Perché noi amiamo soprattutto i libri che toccano le nostre corde interiori. Tu li chiami temi pesanti: io li chiamo temi importanti, realtà della vita che amo scandagliare. Temi che toccano quelle corde. Non scrivo per intrattenimento, ma vorrei rassicurare chi ci legge: tra le mie pagine troverete anche il piacere della lettura.

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Scrittura e lettura camminano a braccetto e personalmente sono molti di più i libri che leggo perché devo di quelli che leggo perché desidero. Qual è il tuo rapporto con i libri e con gli autori che preferisci? Ce ne sono alcuni che pensi abbiano influenzato il tuo stile o in qualche modo condizionato?
Io leggo solo i libri che desidero, e sono tanti. Più di cinquanta l’anno, tra letteratura e saggistica. Se scopro un’autrice o un autore che mi piace, tendo a leggere tutti i suoi libri. Sono sempre stata una lettrice avida, fin da piccola, e i libri non mi bastavano mai. Ho letto tutto e di più, mi sono sforzata di terminare anche i libri che non mi piacevano e penso che, in quella fase, sia stata cosa giusta: mi ha aiutato a conoscere la diversità e soprattutto a capire cosa amo in un libro. Così, da qualche anno, mi permetto di non finire quelli che non mi piacciono. A livello di stile, mi scoraggiano i testi in cui l’essenziale annega in mille digressioni o descrizioni minuziose – però vedi, già devo citarti un’eccezione, perché tra gli autori che ho amato di più c’è Nagib Mahfuz, prolisso e pungente. Lo stile che preferisco apre universi di senso in modo corposo, morbido, evocatore e leggero, con pochi dialoghi e una sufficiente tensione narrativa. Ma più dello stile, mi interessano trame e tematiche, o la capacità di cogliere e spiegare un particolare universo. Infatti ho amato moltissimo quasi tutte le opere di scrittrici come Pearl Buck, Elisabeth Gaskell o la Allende, padrone della scrittura e della tensione narrativa e al contempo sociologhe o antropologhe eccezionali, ma che possiedono stili differenti. O, più vicino a noi per tempo e luogo, Elena Ferrante. Se avessi tempo ne citerei altri, magari solo per un libro straordinario come lo Stoner di John Williams o l’Homo Faber di Frisch. E naturalmente La buona terra, che ho scelto come libro-feticcio. Sono stati modelli letterari ai quali tendere.
Si è fatto tardi, Roberta, non ho visto il tempo passare. È stata una discussione interessante e le tue domande mi hanno offerto nuovi spunti di riflessione. Sono stata bene in tua compagnia, rivediamoci presto!

Grazie Manuela, un incontro piacevole e veramente costruttivo sotto tutti i punti di vista. Grazie per il tuo tempo, la tua bella personalità e la compagnia, qui, a L’ora del tè.
Arrivederci a presto!

Punti e interrogativi

Quanti sono i Punti e quanti gli Interrogativi?

Quante sono le domande di una vita? Quante invece le certezze?

Adoro le storie di donne scritte da donne, lo dissi già qualche decina di recensioni fa a proposito di Angeles Mastretta. E questa antologia me la ricorda molto.

Contiene quello che c’è nella vita di ogni donna: superficialità, completezza, disorientamento, irriverenza, passione, schiettezza, ricordi, tenerezza.

Quattordici pennellate di colore, quattordici spaccati di quotidiana presenza o assenza, quattordici protagoniste con un sogno da raggiungere o una delusione.

Donne che interpretano una vita piena o vuota, che sono vive o morte, madri o figlie, regine o puttane, ricche o povere. Donne che aspirano con orgoglio all’unica luce che splende alla fine del cammino. Prendono in mano la vita e la stendono ai loro piedi. Come stendono figli, madri e uomini. Come spezzano catene. Come traducono sogni. Come cuciono vestiti. O scrivono poesie. Con coraggio.

Quattordici catene chiuse o spezzate.

Leggere Punti e Interrogativi lascia con molte domande aperte, quelle che il lettore vorrebbe rivolgere, alla fine della storia, ad ognuna delle protagoniste. Perché? Avrei immaginato finali diversi. Con respiri pieni, sogni realizzati. Ho pianto per le lacrime ed il dolore. Ho avuto paura di andare avanti, oltre la pagina. Ho ascoltato le loro voci, il battito dei loro cuori. Ho passeggiato al loro fianco, spalla contro spalla, respiro contro respiro.

Con la sua scrittura piena, ricca, indimenticabile Manuela Bonfanti irrompe in un pomeriggio di silenzio. Come lettrice mi sono appassionata alle storie tutte diverse e altrettanto sorprendenti, come scrittrice ho amato lo stile pulito e sicuro di una scrittura matura intrisa di tutti i sentimenti tipici delle donne.

Punti e Interrogativi, per i temi che contiene, non è una lettura facile. Soprattutto non risponde ai dubbi che i racconti fanno emergere.

Leggetelo, ma in solitudine, fino all’anima di ogni singola parola.

Punti e Interrogativi lo trovate nella collana Oceania di Antonio Tombolini Editore.

Il peso sul cuore

Io non conosco l’Irlanda, il mare, le scogliere, il folklore, i racconti di fate e lepricani. Non conosco il mal d’Irlanda e neanche il meraviglioso colore delle sue colline grazie al quale è chiamata anche Isola di Smeraldo. Il peso sul cuore è una storia appassionante, deliziosa, coinvolgente, ma è anche un romanzo che parla di tradizioni, leggende raccontate in un pub davanti a un boccale di birra, con, in sottofondo, le note di una musica celtica.

Una lettera che nessuno aspettava catapulta Erica dalla Liguria all’Irlanda, dove la giovane donna conoscerà Finn (il marito di zia Flora), il bellissimo Brian, la vulcanica Grace e si ritroverà, suo malgrado, a fare i conti con tradizioni e credenze popolari che fatica a comprendere. Le storie del piccolo popolo, le fiabe che hanno un sapore reale, le leggende che appassionano la gente dell’isola…l’Irlanda è anche questo. Erica lotta contro se stessa per cercare di comprendere, aprire la mente e il cuore alle storie che Finn e Brian le raccontano. Storie magiche, di sparizioni ed apparizioni, favole che sembrano tali solo per essere narrate e scritte con inchiostro e non per essere vissute. Quella che Finn racconta a Erica è una favola dipinta da storia vera o una storia vera che sembra una favola. Erica non può fare a meno di farsi trascinare in quelle che fino a poco tempo prima avrebbe considerato solo fantasie o sciocche storielle da bar. La commozione che legge negli occhi di Finn, la convinzione con cui tutti credono alla presenza di fate e folletti la convincono a cercare e capire.

Erica s’innamora dell’Irlanda, del suo cuore, delle sue tradizioni e del suo popolo e trascina il lettore in una bellissima storia che prima ti travolge e poi ti resta dentro per giorni anche dopo che hai letto la parola FINE. Resti lì, in sospeso, indecisa se ricominciare daccapo o chiedere all’autrice se ci sarà un seguito.

È quello che succede quando leggi un bellissimo libro come questo.

Il peso sul cuore di Amanda Melling è edito da Antonio Tombolini Ediore – Collana Oceania

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