L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Michele Marziani

Lo presento, ma il suo nome parla da sé. Michele Marziani – giornalista, scrittore, maestro di scrittura, editor, direttore editoriale di Antonio Tombolini Editore per il quale dirige anche la rivista Il Colophon – è nato a Rimini ma è cittadino del mondo. Ha vissuto in Romagna, in Piemonte e in Lombardia. Oggi vive in tre luoghi: a Rimini, a Dublino e sulle alpi piemontesi. Però se pensa a “casa”, pensa al Monte Rosa. Questa ce la faremo spiegare da lui!
Michele ha al suo attivo sette romanzi più una serie di libri di viaggi enogastronomici.
La scrittura non è il suo lavoro, ma la sua vita.
È un’emozione averlo qui con me, oggi, nel mio salotto. Prepariamo il tè e iniziamo subito la nostra chiacchierata.

Michele, benvenuto nel mio salotto e grazie per aver accettato il mio invito. Sono le cinque di mercoledì otto febbraio e stiamo per iniziare la nostra chiacchierata. Prima però ti chiedo cosa gradisci? Tè, caffè, infuso? Biscotti, crostata?
So che sarebbe l’ora del tè, ma prendo volentieri un caffè lungo, americano, senza zucchero e una fetta di crostata. Buona la marmellata di lamponi.

Fantastico! Se sei comodo, iniziamo con le cinque domande introduttive.
Comodissimo. Davvero onorato di essere qui.

A che età hai iniziato a scrivere?
A sei anni, più o meno. Quando ho imparato. All’inizio preferivo i fumetti. Poi la poesia. La narrativa è venuta dopo.

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Tazza di caffè sempre piena.

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
Dove vivono i miei personaggi.

Il libro più bello che hai letto?
Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline.

Il luogo più strano in cui scrivi?
L’angolo delle macchinette del caffè al piano interrato del Trinity College a Dublino.

10858434_795450307171516_6764053761804055060_nPer me non esiste altro. Una frase bellissima di Bernard Malamud (che prenderò in prestito!) a cui fai riferimento nella tua biografia. I libri, prima come lettura e poi come scrittura, permeano la tua vita da sempre. Ci racconti com’è iniziata questa passione così grande?
Chi ti conosce (ed io sono fortunata ad avere questo onore) percepisce in te l’amore smisurato per la parola scritta. Un amore che supera ogni altra passione. So che la domanda può sembrare sciocca ma vorrei che tu ci raccontassi perché hai deciso che da grande avresti fatto lo scrittore e se hai mai preso in considerazione un altro mestiere. Io personalmente ti vedo bene nei panni che indossi, ma per curiosità, ti sarebbe piaciuto fare, che ne so, l’astronauta, il giardiniere, il cuoco? In fondo hai scritto anche libri di ricette…
Guarda, io sono sempre stato affascinato dalla parola scritta perché mi indica qualcosa di nuovo, mi insegna qualcosa che non so. Se non so leggere e vedo un cartello blu con dentro una scritta bianca non so nulla, ma quando imparo a leggere ci leggo dentro “Milano” e allora imparo dove sono.
Ho sempre letto di tutto, da quando sono nato, compresi i bugiardini delle medicine e le istruzioni degli elettrodomestici, mi piacciono le parole scritte dentro la vita vera, come i cartelli stradali. Per questo sin da bambino sono stato un divoratore di fumetti. Nei fumetti c’è la parola scritta dentro alla vita disegnata. Li amavo. E amavo il disegno, non facevo altro che disegnare, ovunque, comprese le pareti della mia stanza (mio papà era un seguace convinto del pediatra Benjamin Spock). Questo avrei voluto fare: il fumettista. Però non mi riusciva, non riuscivo a far combaciare quello che avevo in testa con quello che disegnavo. Il segno grafico mi tradiva. E tutto questo è stato per me molto frustrante, per parecchi anni. Leggevo tantissimo, ho sempre letto tantissimo, oltre ai fumetti, libri di ogni tipo. Lo facevo perché ero spesso malato e la televisione non c’era e andavo sovente dai medici, finivo in ospedale e i libri, assieme, appunto, ai fumetti, mi facevano compagnia, mi permettevano di vivere vite più interessanti di quella di un ragazzino nella sala d’attesa di un ambulatorio.
Non ho capito subito che oltre a leggere potevo scrivere. Ho avuto la ventura di comporre delle poesie, come tutti gli adolescenti. Erano brutte. Poi una sera ho attaccato i versi tra loro e ho visto qualcosa che non avevo compreso prima: un racconto scritto sì da me, ma nato da solo. La mia scrittura è questo: lasciare spazio a cose che nascono per conto proprio. Certo, dopo un lungo lavoro di ricerca e di immedesimazione, anche, ma le parole prendono posto autonomamente e come le ritrovo mi piace. A differenza dei disegni: anche loro vengono da soli, ma non sono come li vorrei. Racconti e romanzi non li immagino in qualche modo, li lascio liberi. Per questo, probabilmente, mi vengono abbastanza bene.
Appartengo a una generazione che ha creduto fortemente nella fine del lavoro: io, semplicemente, non vorrei lavorare. Se qualche volta ho immaginato un mestiere diverso dal mio è quello di non fare nulla, di andarmene in giro per il mondo, guardare che cosa accade. Mi piace moltissimo guardare la vita degli altri. Scrivere e leggere non sono un mestiere, sono la vita. La mia almeno.

Tazza di caffè sempre piena. Io di solito la riempio di tè o infusi. Il rito della scrittura in cui ogni scrittore si riconosce. Parlando di manie ed abitudini vorrei curiosare un po’ in casa Marziani, trasformarmi in farfalla ed osservarti nella tua giornata tipo dedicata alla scrittura: come ti organizzi, quale luogo scegli o preferisci, come gestisci i disturbatori, quando decidi che è il momento di iniziare a scrivere c’è qualcosa che deve succedere oppure inizia e basta? In sostanza, raccontaci quali sono le tue abitudini, se ne hai, quando scrivi.
Il punto è capire dove comincia la scrittura. Se inizia quando cominci a stendere le parole sul foglio allora ho poco da raccontare. Per me la scrittura parte molto prima, a volte anni prima, quando vengo avvolto da una sorta di frenesia e improvvisamente mi interessano cose di cui prima non mi importava niente e comincio a viaggiare dentro a idee che a volte diventano romanzi.
Provo a farti un esempio, sono un paio di mesi che penso a Garibaldi, all’Uruguay, alle fisarmoniche, ai migranti italiani, ai pellerossa americani, alla Beat Generation e a un viaggio coast to coast negli Stati Uniti che vorrei fare ma senza dimenticare Montevideo, il Rio della Plata, Buenos Aires… C’è nulla di sensato in questo? Ancora no, ma io avverto un prurito da qualche parte nell’anima che mi dice che anche solo un particolare di tutte queste cose diventerà una storia. Siccome però non so quale sarà mi guardo in giro, progetto viaggi, leggo libri, vado in luoghi che mi sembrano adatti. Adatti a cosa? Boh, lo scoprirò. Intanto obbedisco ad una sorta di istinto narrativo e ci vado. Poi mi faccio mandare vecchie riviste dai posti più strani. Cerco di incontrare esperti delle varie suggestioni che mi riempiono la testa. Questo accade piano piano. All’inizio sono pensieri che stanno di lato, mentre tu fai altro, ti occupi delle cose della vita. Poi diventano idee fisse. Infine un giorno, per caso, all’improvviso, come le illuminazioni Zen, intravedi una storia che spesso non c’entra nulla col casino che hai messo in moto. Però la riconosci e dici: quella è la storia. Così cominci a cercare con maggiore precisione e a costruirne il percorso nella testa. In tutto questo tempo io non scrivo una sola riga, disegno piuttosto, perché disegnare mi dipana i pensieri. Lo faccio su piccoli taccuini che riguardo raramente.
Poi un giorno qualcosa nella mia testa dice che è il tempo di scrivere. Allora mi apparto, mi metto in un angolo, metaforico e reale, chiudo la porta, non concedo accesso a nessuno e comincio a scrivere. A volte senza neppure fermarmi per giorni. Senza togliere il pigiama. Mangiando quello che avanza nel frigo e non rispondendo a nessuna sollecitazione dall’esterno. Nasce quasi sempre così la prima stesura.
Poi un giorno metto il punto e chiudo tutto in un cassetto. Mi guardo allo specchio. Mi faccio una doccia. Metto a posto la casa, mi vesto bene e esco a cena con la persona più cara che ho intorno. Rientro comunque nel mondo.
Dopo un mese, ritiro fuori il manoscritto e comincio a lavorare. Qui allora posso parlare di giornata tipo. Se riesco lavoro sul libro la mattina presto. Diciamo dopo colazione, dalle 7 alle 10. Poi se sono al mare vado in giro in bicicletta, pranzo e mi dedico alle altre cose della vita e del mio lavoro fino a sera quando vado a dormire prestissimo. Se invece sono in montagna vado a pesca oppure a funghi o semplicemente in giro fino all’ora di pranzo. Credo che sia in questo tempo liberato che la mente cominci a raccogliere stravaganze pronte per il libro successivo.
Il lavoro di limatura, riscrittura, messa a punto è il più lungo. Dura molti mesi. Con pause necessarie anche di un mese tra una lettura e l’altra, perché a quello che hai scritto con tanta ferocia verso te stesso e verso il mondo, adesso occorrono la cura del riposo e della riconciliazione. L’editing è spesso una carezza.

309443_2390791007480_1182024689_2746144_523145277_n1Grazie Michele, hai espresso molto bene quello che per te è la tua vita dedicata alla scrittura e come nascono le storie che scrivi. Prima di parlare nello specifico di alcuni dei tuoi libri, riprendo una cosa che hai detto poco fa, per ragionarci un po’ assieme. Le tue storie sono ambientate dove vivono i tuoi personaggi. Che è, più o meno, quello che tutti gli scrittori rispondono. La domanda forse sembra banale, ma l’ho rivolta a tutti gli autori per svelare quelle abitudini che tutti noi abbiamo quando scriviamo e di cui forse non ci accorgiamo, come ad esempio fare vivere i personaggi in luoghi più o meno sempre simili e vicini a ciò che amiamo. Ti faccio un esempio. Tempo fa feci leggere ad un’amica alcune storie che avevo scritto e dopo la lettura lei mi disse che facevo abitare i miei personaggi sempre in un casolare. Io non me ne ero accorta ma dovetti convenire che aveva ragione e da allora ci feci caso: amo la campagna e i miei personaggi di solito vivono lì.
Ho letto tutti i tuoi romanzi e la maggior parte di essi hanno un elemento in comune: l’acqua. Credo tu abbia capito cosa intendo. Ce ne vuoi parlare?
Ho scritto un libro per spiegare il mio rapporto narrativo con l’acqua e neppure so se ne sono stato capace fino in fondo. Comunque si intitola Il pescatore di tempo e attraversa tutti i luoghi e le mitologie della mia narrativa. Lo fa con la canna da pesca in mano, ma perché io sono anche un pescatore.
I protagonisti dei miei romanzi vivono tutti nei luoghi de Il pescatore di tempo, ne respirano il senso, ne percepiscono la forza anche quando odiano quella zona salmastra tra il fiume e il mare (Franco Botteghi in Barafonda); anche quando l’acqua è solo un pretesto cittadino (penso alla ciclofficina di Arnaldo Scura sulla riva del Naviglio della Martesana a Milano in Umberto Dei). Ma i due romanzi dentro ai quali io sono nato, perché dentro alla scrittura accade anche questo, di nascere un’altra volta, sono La trota ai tempi di Zorro in cui Stefano Baldazzi Morra impara a crescere grazie alle trote che nuotano nel torrente del suo paese e Fotogrammi in 6×6 dove il protagonista, un altro Stefano, fa esperienza diretta della diseguaglianza pescando i tritoni col suo amico Igor, uno zingaro, occasionale compagno di scuola. Persino in Nel nome di Marco che è la storia di un sacerdote tifoso di Marco Pantani, uno degli episodi cardine del libro è nell’incontro tra il padre del protagonista e il parroco del paese: sono su un torrente a pescare. La signora del caviale, poi, è completamente ambientato sulla golena del Po, cioè in quello spazio che sta tra il fiume e l’argine. Uno spazio che le stagioni regalano spesso agli uomini e ogni tanto al fiume in piena. Possibilità di vita e devastazione. Un rapporto che un tempo la gente accettava forzatamente e del quale oggi restano solo storie da raccontare: lungo il fiume Po ci sono 35000 (sì, hai capito bene, trentacinquemila) case abbandonate nelle golene. Nessuno oggi, giustamente, vuole più vivere lì, ma questo non vuol dire che chi ci è vissuto non abbia originato un’epica del fiume. Cito i primi autori che mi vengono in mente: Riccardo Baccelli e Beniamino Guareschi.
Per me l’acqua, narrativamente, è tutto. Ho scritto altri romanzi che arriveranno prima o poi in libreria: tutti seguono il filo di un fiume. Uno addirittura attraversa i mari, partendo da una piccola valle alpina italiana, passando per l’isola di Ventotene, poi la Spagna, per approdare nel Connemara, nell’ovest dell’Irlanda sulle sponde di un piccolo lago. In questo specchiarsi di acque si specchia la storia del Novecento. Sarà in libreria a luglio. Si intitola La figlia del partigiano O’Connor. Per la prima volta è una storia con una protagonista femminile. Di più ora non posso dirti.
L’acqua sulla quale si svolge la vita è il mio sogno infantile e lo ripeto all’infinito. Rubo le parole a Renzo Casali, indimenticato uomo di teatro e fondatore della Comuna Baires di Milano: «Tutto quello che faccio è cercare di realizzare quello che sognavo a otto anni». Anch’io.

libri micAllora, Michele, arrivata a questo punto della chiacchierata, di solito, cerco di catturare l’attenzione dei lettori sulla produzione letteraria del mio ospite. Come vedi, qui sul tavolino, ho una bella pila di tuoi libri: i romanzi, i racconti ed infine i libri dei viaggi enogastronomici. Ho l’imbarazzo della scelta, ma soprattutto sono condizionata da due cose: dal mio amore per i romanzi e soprattutto per i tuoi romanzi. Non vorrei togliere importanza alle altre tue opere, come ad esempio Un ombrello per le anguille, una bellissima serie di racconti scritti sull’acqua, oppure Fotogrammi in 6×6, un piccolo libretto che contiene tre storie intense e forti o Nel nome di Marco il tuo bellissimo romanzo dedicato al grande Pantani. Non vorrei togliere importanza alle altre tue opere, dicevo, ma mi piacerebbe che ci parlassi di due tuoi romanzi in particolare. Iniziamo con il primo, e cioè con Umberto Dei, biografica non autorizzata di una bicicletta. Prima di tutto vorrei che ci raccontassi com’è nata l’idea di questa storia e perché hai scelto proprio, come protagonista, una Umberto Dei; poi vorrei sapere perché è una biografia non autorizzata di una bicicletta e come è nato il titolo; ed infine, già che ci sei, raccontaci anche qualche curiosità, se ce ne sono, su questo libro.
L’idea è nata percorrendo in bicicletta il Naviglio della Martesana ogni giorno. All’epoca abitavo a Milano. Non mi piace la metropolitana, se posso preferisco andare a piedi o in bicicletta. E in bici, appunto, andavo a lavorare in viale Monza. Ogni volta che passavo davanti al portone dove poi ho ambientato il romanzo qualcosa mi attraeva, mi costringeva lì. Piano piano è nato il personaggio, è nata la storia, ma era una storia del cavolo perché raccontava di un ex rivoluzionario, di un cocciuto, estremista ed estremo, che andava in giro con la cosa meno estrema che c’è al mondo, una paciosissima bici da città. Poi ho scoperto le Umberto Dei, biciclette per maniaci, per feticisti direi. La bicicletta estrema. È nato tutto così, ad ogni passaggio sul Naviglio. È una biografia di una bicicletta perché è lei, il mezzo meccanico, che accompagna tutto il percorso narrativo. Non è autorizzata perché Umberto Dei, il costruttore, mica l’avrebbe mai scritta una biografia così delle sue biciclette. E suonava bene. Come suona bene Umberto Dei, prova a ripeterlo ad alta voce: dura il tempo di un giro di pedale. La sonorità è tutto nella scrittura. Curiosità? Tantissime, non saprei da dove cominciare. Anzi sì, mandai il manoscritto da leggere a due amici e loro, dopo averlo terminato, per tutta risposta mi regalarono una bicicletta Umberto Dei. Fu commovente. Anzi no, fu molto bello. Commovente fu invece una lettera che ricevetti da un professore universitario di Milano che mi disse che gli avevo raccontato la sua vita, o almeno la parte che lui sognava, compresa, purtroppo, la moglie amatissima che muore di un tumore. Proprio come nel libro. Umberto Dei è stato il mio tributo a Milano, l’unica città italiana per cui provo affetto.

Giuro, ho provato a ripetere a voce alta Umberto Dei e suona davvero bene. Se dura il tempo di un giro di pedale non lo so perché qui non ho una Umberto Dei ma mi fido di te. Sono stupita nello scoprire che abbiamo a cuore la stessa città e non ti nascondo che ho passeggiato più volte lungo il Naviglio della Martesana curiosando nei portoni e cercando qualche indizio per capire quale fosse il luogo in cui avevi ambientato la bottega di Arnaldo Scura. È davvero emozionante andare a caccia dei luoghi e dei personaggi dei nostri libri preferiti.
Ed ora veniamo ad un altro tuo capolavoro; l’ho scelto perché mi ha incuriosito il titolo e quando l’ho letto mi sono ritrovata immersa in un sogno.
Nella mia recensione a questo tuo libro ho riportato un estratto particolarmente significativo: Per pescare sul serio serve imparare il silenzio e il passo felpato. Occorre lo stupore di trovare pesci incredibilmente grandi in corsi d’acqua spaventosamente piccoli, stretti, gallerie di frasche con sponde di rovi. Quasi rigagnoli. Luoghi intricati, dove l’accesso costa fatica, punture d’insetto, braccia segnate, sudore… I pesci vivono spesso in luoghi che non immagineresti mai. Saperli invece immaginare è l’arma vincente. Credere l’incredibile.”
Avrai già capito che mi riferisco a Il pescatore di tempo, a mio avviso, forse, il tuo libro più profondo. Profondo perché parla di acqua e di pesci da pescare? Profondo perché parla di vita? Di viaggi? Di tempo? E silenzio?
Raccontaci tu di cosa parla e del significato che hanno per te il tempo e questo piccolo grande libretto.
Ha a che fare anche con la leggerezza del vivere?
Che dire? Grazie di spendere delle parole così importanti, così grandi, per un libro piccino che in fondo racconta solo che un pescatore può avere una chance in più per affrontare la vita: immaginarla. Giacomo Leopardi diceva che l’immaginazione è il primo fonte della felicità umana. Credo che nessuno sia costretto a immaginare più di un pescatore che si trova di fronte all’acqua e deve pensare che lì sotto ci siano pesci di ogni specie, grandezza, tipo, colore, tane, sassi, piante, ostacoli sommersi… E magari non c’è nulla, ma lui pesca convinto perché immagina un mondo sotto alla superficie dell’acqua. Un mondo migliore. Pescare è un’applicazione pratica dell’immaginazione.
Poi a me, come al protagonista del libro, la pesca ha insegnato la libertà della natura, l’uguaglianza dettata dal merito, la fraternità delle osterie. La contraddizione eterna tra amare e uccidere (ami il pesce, ma lo uccidi), l’affascinante antinomia della parola amo che è l’uncino per prendere i pesci e la prima persona singolare del verbo amare.
Credo che Il pescatore di tempo sia prima di tutto un libro sulla vita, che racconta di un ragazzo che diventa un uomo, nel caso specifico uno scrittore, portando l’immaginazione a spasso sui fiumi, mescolando libri e natura, passione e istinto. È una storia di grande fortuna e anche di piccole cose. È infine un percorso personale, quello di un bambino innamorato di una canna da pesca per la sua somiglianza con una lancia di un indiano Cheyenne e che per questo ha imparato a pescare sui libri, portando poi quei libri a sentire lo scorrere del fiume.
Il pescatore di tempo è uno scritto nato per caso. Anzi su richiesta dell’editore. Ho risposto a un invito, quello di raccontare cosa fosse la pesca. Per me, come per tantissimi scrittori che ne hanno narrato storie bellissime, penso a Ernest Hemingway di Grande fiume tra due cuori (più tutto il resto che non è poco), alla follia di Pesca alla trota in America di Richard Brautigan, alla religiosità della natura di In mezzo scorre il fiume di Norman Maclean, alla vita sull’acqua raccontata ne Il grande silenzio di Thomas McGuane, all’utopia di Pesca al salmone nello Yemen di Paul Torday, alla pace bucolica e ironica di certe acque di pianura del centro Europa raccontate da Ota Pavel ne La morte dei caprioli belli ma anche, se vogliamo citare autori vecchi e nuovi di casa nostra, alla pennellata di Novecento italiano de L’amo e la lenza di Mario Albertarelli, al mitico Colombre di Dino Buzzati che fa il paio con le splendide descrizioni dello storione del Po scritte da Gianni Brera ne La pacciada, fino ad arrivare a Fabio Genovesi con il suo romanzo Esche vive. Credo che pescare sia, prima di tutto, occuparsi di sé e del proprio tempo. E farlo con leggerezza perché, come diceva Mark Twain, comunque non ce la faremo ad uscirne vivi.
Per raccontare tutto questo, per scrivere Il pescatore di tempo, non sapendo da dove iniziare, ho cominciato come quando si giocava coi Lego: ho sparso davanti a me libri, oggetti, canne da pesca, esche artificiali, un vecchio cestino di vimini, tante foto sbiadite, qualche mappa di sperdute vallate montane… Ho riempito il tavolo, mi sono versato un bicchiere di vino e ho cominciato a osservare tutte quelle cose appoggiate lì alla rinfusa. Guardandole ho sentito l’odore del fiume – che per me è quello della vita – e ho cominciato a scrivere.

947236_10201133272632234_385289796_nSe sostituisco la parola pescatore con la parola scrittore in una frase che hai appena detto ottengo: “uno scrittore può avere una chance in più per affrontare la vita: immaginarla”. Credo che avere la possibilità di poter vivere altre vite, oltre alla propria, sia una opportunità unica, sia per lo scrittore che inventa la storia, sia per il lettore che in quella storia si immedesima. Quando ho letto Il pescatore di tempo ho trovato tante analogie fra la pesca e la scrittura e dove tu scrivevi pesca io leggevo scrittura. È un libro che parla di vita e tutti dovrebbero leggerlo.
Il tempo è volato, Michele e la nostra ora del tè è giunta al termine.
Ti chiedo solo altre due cose prima di salutarci.
La prima è una richiesta: promettimi che verrai di nuovo a trovarmi dopo la pubblicazione del tuo prossimo romanzo.
La seconda è una curiosità: nella tua biografia hai scritto che se pensi a casa, pensi al Monte Rosa. Ci spieghi perché proprio il Monte Rosa?
Con questo io ti lascio la parola, perché voglio finire questa bellissima intervista con la tua voce. Saluto i nostri lettori e do appuntamento a tutti alla prossima puntata de L’ora del tè. Grazie di cuore, Michele, per essere stato qui con me oggi!
Beh, è stata un’ora piacevolissima, almeno per me, e quindi tornerò sicuramente dopo l’uscita del nuovo romanzo.
La domanda sul Monte Rosa è difficile. Provo a risponde e parto da lontano: mio nonno paterno è cresciuto in un casello ferroviario dell’alto Molise, dove i bisnonni facevano i casellanti, non so bene da dove venissero, credo dall’Abruzzo ma potrei sbagliare.
Domenico Tommaso Marziani, questo il nome del nonno, entrò in ferrovia, divenne capostazione e girò mezza Italia. Mio padre è nato a Gorizia, mia madre viene dal basso Friuli. Quando sono nato io vivevano a San Leo che allora era nelle Marche, dopo pochi anni ci siamo trasferiti a Rimini ma a tutte le feste comandate andavamo a Padova a trovare i nonni materni che nel frattempo erano andati ad abitare lì.
Finite le scuole elementari ci spostiamo di nuovo, per motivi familiari, in Piemonte, nel Novarese, sul lago d’Orta. Credo che quegli anni siano stati i più belli della mia vita, a contatto con una natura che prima non avevo avuto occasione di conoscere.
Da Gozzano, dove abitavo, ma anche da Novara dove ho studiato e pure da Milano dove ho vissuto, nelle giornate terse si vede il Monte Rosa. Il vederlo mi rende sicuro dello stare al mondo. Mi fa sentire meno sradicato, meno perduto nei miei venticinque traslochi.
Mi sono innamorato della Valsesia, il versante più bello del Monte Rosa, quando da ragazzo in certe giornate di primavera invece di andare a scuola prendevo il trenino per Varallo. È un amore che è rimasto sempre lì. Ogni tanto torno e tutto mi sembra più bello. Ovviamente non lo è, anzi. Non c’è alcun motivo se non il respiro forte della montagna. Forse è solo un luogo dove immaginare delle radici che non ho. Magari perché è il posto di tante scorribande da ragazzo. Non è però l’unico luogo del cuore, ne ho altri, anche in montagna, la vicina val d’Ossola ad esempio.
L’ho fatta lunga inutilmente, la verità è che il Monte Rosa è semplicemente il pezzetto di mondo dove senza nessun motivo mi sento a casa. Grazie per la pazienza di tanto ascolto.

Il sito di Michele Marziani è michelemarziani.org.
Per info sui suoi libri navigate questa pagina.

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Lea Rivalta

Ed eccomi con voi, oggi, per l’ottava puntata de L’ora del tè, in compagnia di Lea Rivalta, l’autrice di Un solo sangue (Antonio Tombolini Editore), un romanzo intenso, imprevedibile e sorprendente. Scopriremo oggi la personalità molto particolare di questa scrittrice ed entreremo con lei nei meandri oscuri dell’anima.
Apro la porta alla nostra ospite e ve la presento.

Ciao Lea e benvenuta nel mio salotto. Gradisci un tè, un caffè, una tisana?
Ciao Roberta. Grazie, un earl grey con un dito di scotch whisky sarebbe perfetto. Anche del bourbon va bene.

Ottimo! Allora iniziamo con le prime cinque domande, se sei d’accordo.
Vai.

Intanto grazie per la tua disponibilità e per avermi dedicato un po’ del tuo tempo. In questo spazio desidero fare conoscere gli autori, non solo per quello che scrivono ma anche per quello che pensano, sentono, ascoltano, leggono. Leggendo un po’ di te e ascoltando le tue parole, la sensazione che ho è quella di avere di fronte una persona molto precisa, organizzata, programmata. Con abitudini consolidate e un approccio pragmatico alla vita e a tutto ciò che essa contiene. Però non è tutto qui. C’è un lato particolare di te che galleggia oltre le parole, oltre ciò che scrivi. C’è una Lea più razionale e una emozionale. Una che controlla e programma ed una che cerca invece di uscire dalle righe e tirare fuori dalla pancia una storia come quella contenuta in Un solo sangue di cui parleremo fra poco. Vorrei che ci raccontassi un po’ chi è Lea Rivalta e che smentissi quanto ho affermato poco fa oppure no…
Credo di essere come tutti gli esseri umani di questo mondo. In ognuno di noi esistono aspetti divergenti della personalità, ciò che ci differenzia è il modo di gestire questa complessità. La vita, spesso, impone di nascondere i lati meno ortodossi, che finiscono per diventare oscuri. Quando vengono alla luce, queste identità nascoste assumono sembianze che agli occhi del senso comune possono sembrare sovversive, minacciose… talvolta criminali.
lea

Lo pseudonimo Lea Rivalta è la mia voce libera di parlare della sostanza profonda delle cose, nella forma ruvida e dura che preferisco, senza che ciò possa interferire con la mia vita ordinaria in cui tiro avanti con un altro nome e cognome. Anche Lea è precisa, analitica, acuminata ma esplora le pieghe nascoste dell’anima, va dove si annida il dolore e lo affronta guardandolo in faccia.

Visto che hai tirato fuori l’argomento (l’avrei fatto senz’altro anch’io) parliamo di Lea Rivalta.
Come hai appena detto, Lea è la parte interiore di te, quella che, nonostante la modalità pragmatica di affrontare la quotidianità, sa guardare in faccia alle difficoltà della vita. È un po’ la tua parte più vera o, forse, quella che non puoi mostrare? Quando scriviamo qualcosa di noi emerge sempre fra le pagine dei nostri libri. Un dettaglio, un sentimento, un ricordo. Che a volte fatichiamo a tirare fuori. Ci può aiutare lo pseudonimo in questo? Credo che molti di noi abbiamo vissuto, almeno una volta nella loro vita di scrittori, l’esperienza di pubblicare sotto mentite spoglie.
La scelta di usare uno pseudonimo è conseguente all’esigenza di tenere separata la mia vita “ordinaria” da quella creativa. Una questione di praticità, innanzi tutto, e poi personale: volevo che la mia esperienza nello scrivere non fosse in alcun modo inquinata da infiltrazioni narcisistiche. Negli atteggiamenti di tanti presunti scrittori trovo una crescente tendenza a magnificare la propria immagine di autori a scapito del contenuto e della qualità dell’opera. Lea Rivalta è solo ciò che scrive: se questo è interessante, bene. Altrimenti Lea non esiste.

L’uso dello pseudonimo ha condizionato il tuo modo di scrivere?
No, anzi: penso abbia fatto emergere la mia vera natura creativa. Il non dover rendere conto a nessun profilo preesistente ha fatto sì che le idee fluissero libere e la forma si adattasse alla sostanza di ciò che volevo dire, senza vincoli e condizionamenti. Il risultato è una narrazione istintivamente molto asciutta che non concede nulla all’auto-compiacimento, e punta sempre al cuore delle cose anche quando entra nella carne viva dell’anima.
Penso che solo Lea potesse addentrarsi nella personalità devastata di Gio e mostrarne le macerie più intime senza vergogna, senza pudore, senza paura.

35520873_un-solo-sangue-di-lea-rivalta-1Parliamo ora del tuo bellissimo romanzo, Un solo sangue, senza entrare troppo nel racconto per non fare spoiler. Un solo sangue ha una trama molto forte, ci sono passaggi di una intensità estrema e cose che succedono e che non ti aspetti. È scritto con uno stile asciutto e coinvolgente; quello che colpisce è la veridicità della storia e dei personaggi. Hai tratto spunto da qualcosa che hai letto o da qualcosa che ti è successo? Come hai lavorato per costruire i personaggi?
Un solo sangue intende parlare di un tema vero, che riguarda quote crescenti del mondo occidentale, e che produce danni sempre più grandi sia a livello sociale che individuale: l’abbandono della propria identità e la fuga verso un’io-immagine artificiale. Si tratta di una patologia grave, che ha sviluppato radici ormai profonde e che nasce con l’incapacità di gestire la difficoltà di vivere. Tendiamo, inconsapevolmente, a rinnegare la nostra identità che ci fa sentire impotenti di fronte a modelli di vita inarrivabili e a costruire ectoplasmi belli, sorridenti e performanti in apparenza ma che non contengono più l’essere vero delle persone. Ciò produce tragedie enormi, che spesso si consumano in silenzio ma che talvolta deflagrano spargendo il carico di dolore accumulato nel tempo. Di questo argomento tratta uno dei libri più interessanti che abbia mai letto, un saggio che tiene incollati alle pagine più di un thriller. È Il Narcisimo, di Alexander Lowen… andrebbe studiato al liceo.

lea2Ovviamente Un solo sangue non è un saggio: l’idea alla base del romanzo è pura fiction. Volevo una trama che andasse dritta al cuore del problema e affondasse senza remore e condizionamenti la lama narrativa. Per questo l’ho maturata per quasi un anno, prima di passare alla scrittura. La storia è comunque costruita su mattoncini di assoluta verità: praticamente tutte le situazioni e i personaggi nascono dalla mia esperienza personale, che ho assemblato in un’architettura di fantasia al servizio del tema di cui intendevo parlare.
Parlando di tecnica narrativa, ho preso un paio di decisioni molto ponderate che hanno fortemente caratterizzato il risultato finale: la scrittura in prima persona e la limitazione del set dei personaggi.

Ti va di dirci di più su queste due scelte?
La prima persona si è rivelata fondamentale per garantire la profondità e l’impatto del racconto dell’esperienza della protagonista, che vede la propria vita decomporsi e intraprende il viaggio nella sofferenza, verso la riscoperta di sé. Questo ha comportato l’ovvia difficoltà nel costruire un romanzo corale e multi-situazione: ogni scena, accadimento, dialogo avviene attraverso il punto di vista di Gio e questo impone scelte stilistiche e narrative forti e, a volte, limitanti. Ma volevo dare assoluta priorità all’esplorazione del dolore e l’unico modo di farlo era portare il lettore nell’anima di questa donna.
Da ciò deriva anche la scelta di limitare il numero e la profondità dei personaggi: “gli altri” esistono nella misura in cui partecipano alla tragedia di Gio, che è l’unica cosa che conta in questo romanzo. Ho quindi abbandonato ogni velleità accademica riguardante la costruzione quali-quantitativa dei personaggi.
Il risultato che volevo raggiungere era un libro da leggere tutto d’un fiato, e che non si perdesse in derive inutili. Con un ritmo interiore scandito da una trama serrata, che si mette in moto sin dalla prima pagina e non si ferma più, fino all’ultima.

Hai intenzione di continuare a farti leggere come Lea Rivalta? Ci sono nuovi progetti in cantiere o Un solo sangue – parte II?
Lea ha altre cose da dire e lo farà. Ho idee che andranno ancora più a fondo nella materia oscura di cui è fatta l’anima, e comporranno una trilogia di cui Un solo sangue costituirà il primo atto. Ritengo si tratti di soggetti potenti e sorprendenti, che si baseranno su uno storytelling non convenzionale e una scrittura spericolata. I tempi per la venuta al mondo di queste creature sono ancora in via di definizione anche perché, nel frattempo, Un solo sangue potrebbe diventare qualcosa di diverso da un libro. Ne parleremo più in là, Roberta.

Con molto piacere, Lea. Ti aspetto nel mio salotto quando sarai pronta a parlarcene.
Ed ora l’ultima domanda. Hai affermato che scrivi “di tutto da sempre”. “Di tutto” intendi qualsiasi genere letterario? Ci racconti quali generi hai approcciato e per quale provi maggiore affinità?
E “da sempre” significa che hai scritto storie fin da piccola? E che storie amavi raccontare?
Nella prima parte della mia vita ho scritto tanto per ragioni professionali, ma il contenuto non poteva certo permettersi di volare sulle ali della fantasia.  La fiction è arrivata tardi, con incursioni nel mondo ragazzi e young adults, in cui ho scoperto il valore della fuga nei mondi fantastici. Ma è con la creazione di Un solo sangue, il mio primo romanzo per un lettore adulto, che credo di aver trovato il vero valore della scrittura nel mio bilancio personale. Un’autrice molto in gamba ha detto che “la vita creativa è il risarcimento della vita ordinaria”. Per me la scrittura è una grande amica, che sa aiutarmi nei momenti di dolore e sa aspettare quando non ho tempo per lei. Perché mi vuole bene senza condizioni.

Lea è stato un piacere averti mia ospite a L’ora del tè. Ti ringrazio per la tua disponibilità e ricordo ai nostri lettori il tuo romanzo: Un solo sangue di Lea Rivalta, edito da Antonio Tombolini Editore.
Arrivederci alla prossima puntata!

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Angelo Ricci

Benvenuti nel mio salotto per la consueta chiacchierata con l’autore durante L’ora del tè. Oggi conosciamo Angelo Ricci, noto scrittore italiano, che ha al suo attivo numerose pubblicazioni. Angelo ha scritto la trilogia della pianura, tre romanzi noir ambientati nella pianura della Lomellina e pubblicati da Antonio Tombolini Editore nella collana Officina Marziani; inoltre ricordiamo, fra gli altri libri pubblicati, i racconti di Padania Blus e Borges aveva un tumblr.

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La trilogia della pianura è formata da Sette sono i re, Notte di nebbia in pianura e L’odore del riso. Di questo ed altro parleremo oggi con Angelo.

Ciao Angelo e benvenuto nel mio salotto. Solitamente alle cinque io offro tè e una fetta di crostata. Va bene anche per te o gradisci altro?
Ciao Roberta. Grazie per l’invito, sono felicissimo di essere qui. Tè e crostata vanno benissimo.

Ottimo! Allora possiamo partire con le prime cinque domande brevi?
Sono pronto!

A che età hai iniziato a scrivere?
In modo narrativamente organizzato dopo i trentacinque anni.

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Non ne ho, o almeno così credo.

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
Nella mia terra, la Lomellina, principalmente e comunque nella Pianura Padana.

Il libro più bello che hai letto?
“Martin Eden”, di Jack London.

Il luogo più strano in cui scrivi?
Scrivo sempre e solo in cucina.

Ho una curiosità, Angelo, che è scaturita dalla lettura dei tuoi romanzi, di cui poi parleremo. Immergendosi nella trilogia della pianura appare evidente un elemento che contraddistingue i tuoi libri. Si parla tanto, ai corsi di scrittura, de “il luogo in cui scrivere” che a mio avviso non è solo il luogo in cui l’autore si siede per scrivere ma anche il paese, la città, lo stato in cui la storia che racconta è ambientata. Io ho anche un’altra convinzione personale, molto opinabile: “il luogo di cui decido di scrivere” può influenzare il mio modo di scrivere. Ti dico questo perché secondo me la tua scrittura risente dell’umidità tipica della nebbia, è ricca dell’odore del riso e cruda del sangue che scorre nelle tue storie. Quanto è vero questo secondo te? Quando la tua amata Lomellina influenza il tuo modo di scrivere? Non hai mai pensato di “girare” le tue storie in luoghi diversi?
Hai perfettamente ragione. La mia scrittura è fortemente calata nelle atmosfere della mia terra, ne trae spunto e ne è al contempo decisamente influenzata. Ogni essere umano proietta la propria anima sui luoghi in cui vive e i luoghi, a loro volta, si riflettono nell’anima di chi li abita, di chi li respira. È un rapporto di reciproca simbiosi, nel bene nel male, un rapporto cui non ci si può sottrarre tanto facilmente. Non è semplicemente un mezzo per scrivere solo di ciò che si conosce, come insegnava Hemingway, ma è una sorta di feedback narrativo e narrante tra organismi pluricellulari, una comunicazione, uno scambio di informazioni genetiche e culturali che fonde il trasferimento di parole e di visioni tra l’unità senziente a base carbonio che scrive e l’insieme di paesaggio, persone, posture, pietre e pensieri che lo circonda in ogni nanosecondo della sua vita e che, a sua volta, si muta in un’altra unità senziente, e spesso questa mutazione avviene in modo misterioso e inquietante e comunque mai uguale a se stessa. Si crea un intervallo infinito di spaziotempo quantistico in cui l’osservatore e l’osservato si modificano a vicenda e giungono alla consapevolezza della reciproca esistenza proprio in quanto si osservano l’un l’altro.
Certamente e più volte ho pensato di scrivere al di là di ciò che significa per me la mia terra, e accadrà ed è già accaduto e accade e saranno proprio queste costanti di comunicazione genetica e culturale che si fondono a creare un altrove che altro non potrà essere, una volta ancora, se non questo attimo di trasfigurazione in cui chi scrive osserva la sua propria scrittura intenta a osservarlo mentre sta scrivendo.

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 “…chi scrive osserva la sua propria scrittura intenta a osservarlo mentre sta scrivendo.”
Fantastica Angelo la tua citazione. Partiamo da qui per affrontare un altro argomento che mi sta a cuore e che non so dove ci condurrà in questa chiacchierata. Come scrittrice io mi sono già data una risposta, ma vorrei sapere da te cosa ne pensi.
Non è solo il “luogo di cui scriviamo” che influenza la nostra scrittura, giusto? Ma anche il nostro vissuto, la vita di ogni giorno, le persone che incontriamo, il lavoro che svolgiamo, i libri che leggiamo, l’educazione che abbiamo ricevuto… Quale di questi elementi agisce maggiormente sulla tua penna? La scrittura è solo osservare e narrare oppure c’è dell’altro? Cosa contiene la scrittura di Angelo di ciò che di vero c’è nella vita di Angelo? Quando scrivi osservi la vita e la narri oppure è la vita che si fa narrare da te?
Direi che tutti tutti gli elementi che hai indicato più che influenzare la mia scrittura ne costituiscono delle basi di partenza; non ce n’è qualcuno che pesi di più, tutti sono sullo stesso piano. Scrivere è anche e soprattutto rubare, rubare visi, posture, voci isolate, fattezze, rubarle per poi rimescolarle in qualcosa che viene infuso in una struttura narrativa, in uno schema che spersonalizzi chi scrive. Certo, come giustamente dici il vissuto, la propria formazione di vita, le paure, i sentimenti entrano a forza nell’azione dello scrivere. Attenzione però. La scrittura intesa come un’organizzazione narrativa degna di lettura, perché possa portare a una storia che viva di vita propria, deve prendere da tutti questi elementi ma poi da questi elementi se ne deve in qualche modo allontanare. In questo senso parlavo di spersonalizzazione. La storia che nasce dalla scrittura deve diventare altro da chi la scrive, deve diventare estranea a chi l’ha pensata. Solo così riuscirà ad avere una sua forza, una sua cittadinanza. Ogni romanzo, ogni racconto è un po’ come un figlio. Lo metti al mondo, lo ami, lo fai crescere, poi però deve prendere la sua strada. Questo è quell'”altro” che secondo me va oltre la scrittura intesa solo come osservazione e narrazione. Nella mia scrittura cerco sempre di mettere pochissimo della mia vita, le considero due cose rigorosamente separate e faccio moltissimo per tenerle lontane l’una dall’altra. Nel tempo ho imparato a non usare la scrittura come un mezzo per fare i conti con me stesso o con la mia vita o per fare bilanci di qualche tipo. Uso la scrittura per tentare di scrivere storie che in qualche maniera cerchino di stare in piedi dignitosamente. Non mi pongo altri obiettivi. In questo senso osservo la vita per prendere appunti per una storia ma poi è la vita (o la storia, che forse è la vera vita) a farsi raccontare da me. Io sono solo un tramite.

Parliamo allora di tuo figlio, anzi, dei tuoi tre figli. Mi riferisco ai tre romanzi che compongono la trilogia della pianura (Notte di nebbia in pianura, Sette sono i re, L’odore del riso). Tre noir d’autore: uno stile personale molto marcato, vicende dai tratti duri, personaggi connotati da caratteristiche forti. Io che non sono abituata al noir, mi sono appassionata al tuo stile ed alle storie che hai scritto. Ho amato gli odori, le luci soffuse, la nebbia. I personaggi che si mimetizzano con l’ambiente in cui vivono e che insistono per raccontare la loro storia.
Sono rimasta molto colpita. Non è un genere che amo particolarmente, ma grazie ai tuoi romanzi mi sono avvicinata al noir e ne ho apprezzato la lettura.
Faccio una piccola digressione e poi torniamo sull’argomento.
La lettura di un noir non è cosa facile. I tuoi, poi, sono testi che richiedono attenzione, un po’ come una bella donna. Hanno bisogno del giusto tempo e dello spazio adatto. Di concentrazione e silenzio. Vanno goduti.
Quando scrivi pensi al tuo lettore tipo? Alcuni autori scrivono riferendosi a colui che leggerà il loro romanzo. È così anche per te? Ti domandi come reagirà al contatto con le tue storie? Se ne resterà influenzato, deluso, sorpreso, eccitato.
E poi, sempre per sedare la mia curiosità di femmina, hai un Lettore Ideale (come lo definisce S. King) a cui sottoponi le tue storie in anteprima e che critica in modo costruttivo il tuo lavoro? A volte abbiamo bisogno di conferme, no?
Usi per i miei piccoli libri parole bellissime, parole di cui ti ringrazio e che probabilmente non merito. Mi chiedi se quando scrivo penso a un mio lettore tipo. Probabilmente chiunque abbia provato l’esperienza della scrittura si è immaginato la figura del lettore, si è immaginato le sue reazioni, i suoi pensieri. È naturale, la scrittura è inevitabilmente un rapporto biunivoco, un dialogo silenzioso tra chi crea una storia e chi la fa sua leggendola. Io però scrivo i libri che mi piacerebbe leggere. Con questo non voglio negare che non pensi al lettore, tuttavia la scrittura è per me uno strumento che si posiziona principalmente tra me e la storia che cerco di scrivere, una sorta di interfaccia, di soglia cui prima o poi la trama, i personaggi, i dialoghi, le atmosfere, il detto, ma anche il non detto, giungono a soffermarsi e a porsi alla mia attenzione di tramite narrativo. Non ho un Lettore Ideale e probabilmente non lo vorrei nemmeno perché finiremmo per detestarci a vicenda. Quando ho finito di scrivere un libro lo leggo e lo rileggo e lo aggiusto finché non mi dà la sensazione che a scriverlo sia stato non io ma un estraneo. Solo in quel momento capisco che può avere una qualche speranza di essere letto.

È quello che penso, Angelo, e ti ringrazio perché ci hai donato tre capolavori. Anche perché, i libri, quando diventano tali, non sono più dell’autore, non credi? Ma diventano miei, tuoi, suoi e di qualsiasi persona decida di comprarli e leggerli.
Ed ora veniamo a noi. Tu sai che io ho amato in modo molto particolare L’odore del riso, una storia così intensa che quando l’hai finita rimani imbrigliato ancora nelle sensazioni, negli odori, nei colori. Che non ti stacchi di dosso.
Io vorrei davvero che tutti coloro che amano leggere conoscessero Angelo Ricci, la sua scrittura pungente, le sue storie crude, le sue pennellate su carta. Non voglio chiederti come sono nati Sette sono i re, Notte di nebbia in pianura e L’odore del riso (anche se muoio di curiosità) perché credo che l’atto della creazione sia un momento molto particolare che solo l’autore comprende. Però una cosa vorrei saperla, anzi più di una.
Quali sono state le tue sensazioni, le tue emozioni, le tue percezioni durante le fasi di progettazione e di realizzazione della trilogia? Io solitamente vivo nella pancia quello che scrivo e credo sia così per la maggior parte degli autori. Capita lo stesso a te? Quando hai scritto la parola fine dopo il terzo romanzo cosa ti è rimasto dentro l’anima?
Innanzi tutto ti devo dire che all’inizio non avevo programmato questi tre romanzi come una trilogia. Sono tre romanzi che ho scritto dal 2006 al 2013 (il primo è stato “Notte di nebbia in pianura”) e hanno avuto genesi diverse, sono legati a momenti e a esperienze della mia vita differenti, si riferiscono a versioni di un me stesso inteso come scrittore che forse non c’è nemmeno più, che inevitabilmente è mutato come tutto, d’altra parte, è destinato a mutare. La trilogia si è come composta da sé quando, conclusa la scrittura del terzo romanzo, “Sette sono i re”, tutti e tre si sono come autoassestati in modo da poter essere considerati come parti di una trilogia, anche perché erano attraversati da un filo rosso che è quello dei luoghi di una pianura che spesso diventa il personaggio principale. È un po’ come se i tre romanzi avessero deciso loro, al di là del loro stesso autore, di unirsi in questo modo, di considerarsi parti, comunque del tutto autonome, di qualche cosa di più grande che li abbracciava e li coniugava. Sai che io considero i miei romanzi come qualcosa di altro da me, qualcosa che vive di vita propria, qualcosa che mi prescinde e va oltre me. La stessa cosa fanno i miei personaggi. Io non li creo, sono loro che, uno ad uno, si presentano alla mia attenzione e mi dicono cosa vogliono fare, cosa vogliono dire, cosa amano, cosa odiano. E così è accaduto in ognuna delle stesure dei tre romanzi. Tra l’altro quando immagino una nuova storia la fase della scrittura è per me solo la fase finale, una sorta di verbalizzazione di quello che per mesi ho vissuto e si è sviluppato nel mio pensiero. È lì che la storia nasce e prende vita, cambia rotta, si adegua e si trasforma. Il tutto, naturalmente, sempre seguendo la via maestra che mi indicano volta per volta i vari personaggi. Per parte mia seguito a fare la mia vita solita, cerco di mantenermi il più possibile come osservatore esterno degli sviluppi della trama del romanzo. Poi arriva il momento in cui tutte le tessere del mosaico vanno al loro posto, inizia la fase della scrittura, della stesura del verbale, e poi compare un libro che riporta in copertina il mio nome, cosa che, il più delle volte, osservo con pensieroso stupore. In questo senso quando ho scritto la parola fine la mia anima era uguale a prima. È l’anima dei miei personaggi che invece era irrimediabilmente cambiata. 

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Mi ritrovo molto nelle cose che dici. E come me, credo, tanti altri autori. L’immagine che dai dello scrittore è realistica: colui che osserva la storia che altri (i personaggi) gli raccontano. Sembra surreale ma non lo è. È vivere la vita con altri abiti e raccontarla.
Ultima curiosità. Tu non sei solo autore dei tuoi romanzi, se non erro. Sei anche editor e correttore bozze. Giusto?
Come riesci a coniugare tre fasi così particolari e diverse fra di loro in una persona (tu) sola? Progettare, scrivere, valutare se il testo è valido per la pubblicazione, correggere refusi ed errori di italiano… non è facile essere obiettivi quando si tratta del nostro lavoro.
Essere editor di se stessi, come si fa?
Quello che dicevo prima, sul fatto che per me un mio lavoro è pronto soltanto quando leggendolo mi sembra che a scriverlo sia stato un altro, ha un valore personale, nel senso che rappresenta il momento in cui un mio libro per me ha finalmente raggiunto una vita propria. Certamente, quando si pubblica con un editore, il proprio lavoro, una volta accettato, viene letto e sottoposto alla visione di un editor. Per parte mia ho avuto diversi editori e il lavoro dei loro editor sulle mie opere non è mai stato invasivo, tutte sono sempre state lasciate come apparivano nel manoscritto, tranne alcuni minuscoli aggiustamenti in un paio di casi (nel primo l’editor mi aveva chiesto di trasformare una frase, che era scritta in dialetto, in modo che apparisse comprensibile a un pubblico più vasto, nel secondo si trattava di sviluppare un po’ di più un certo capitolo) ma mai nessun editor ha stravolto o riscritto parti dei miei libri, anche perché mi sarei opposto. Questo è quello che cerco di fare anche sui testi di altri. L’editor non deve stravolgere o riscrivere un testo. Il suo compito è quello di verificare se il testo ha un suo particolare ritmo, se la struttura narrativa regge, se esiste un senso della e nella scrittura, consigliando l’autore a fare, se necessario, degli aggiustamenti in quel senso. Se intende seguire queste indicazioni è comunque sempre l’autore che deve intervenire sul proprio testo perché è solamente lui che, in fin dei conti, ne conosce l’intima essenza. Quanto all’essere editor di se stessi sicuramente è possibile nel senso che, come autori, bisogna essere spietati con le proprie opere. Prima di presentarle a un editore vanno ripensate, rilette, eventualmente anche riscritte. Bisogna fare tesoro della propria esperienza di scrittura, di lettura, di affinamento di una certa tecnica. Poi però c’è la necessità che questi scritti passino al vaglio di un lettore professionale o editor che dir si voglia. Non va intesa come una prova terribile. È semplicemente una necessità. Fa semplicemente parte del gioco, così come le attese, i silenzi e i rifiuti da parte degli editori. Attendere che un proprio libro venga accolto da un editore è una prova faticosa e snervante che come scrittore purtroppo conosco benissimo per esperienza personale. Tuttavia verrebbe da dire: “È l’editoria, bellezza!”.

E anche oggi, purtroppo, la nostra ora del tè è finita. Purtroppo perché parlare con gli autori delle loro esperienze di lettura e scrittura non siamo mai sazi, vero?
Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate dei nostri primi tre numeri e dei primi autori con i quali abbiamo chiacchierato. Mi aspetto che compriate i loro libri e che li commentiate come meritano.
Grazie Angelo e alla prossima occasione.

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Massimo Lazzari

Benvenuti alla seconda puntata de L’ora del tè, il salotto in cui si parla di libri e di 13920039_10209966357338097_5427798882119535818_oscrittura; il nostro intento però è soprattutto quello di conoscere l’autore che di volta in volta ci farà compagnia.
Oggi è la volta di Massimo Lazzari, autore di Quando guardo verso Ovest, una raccolta di racconti legati alle più belle canzoni rock dei nostri anni, pubblicato nella collana Officina Marziani di Antonio Tombolini Editore. I racconti di Massimo però non parlano solo di musica, anzi. Fra poco lo scopriremo.
Per conoscere meglio Massimo vi consiglio di fare una visita sul suo sito; ha una casa piena di libri, musica e persone interessanti… Questo è il link: www.massimolazzari.com

Benvenuto nel mio salotto, Massimo. Di solito offro tè e dolci. Tu cosa gradisci?
Grazie per l’invito Roby, è un piacere e un onore essere qui. Per me tè verde senza zucchero grazie.

Massimo, sei comodo? Partiamo con le cinque domande brevi?
Tre, due, uno, via!!!

A che età hai iniziato a scrivere?
La sera del mio trentesimo compleanno. Avevo bisogno di una data simbolica.

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Quando scrivo un racconto o un capitolo di un romanzo la lunghezza deve sempre essere tre pagine word, non una di più non una di meno.

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
Non ho un luogo preferito. Il romanzo Esprimi un desiderio è ambientato nei luoghi immaginari dei sogni dei protagonisti; Quando guardo verso Ovest contiene racconti ambientati sia in Italia che all’estero (Irlanda, Sudafrica, Australia, …). Il terzo libro che uscirà nel 2017 è ambientato in India.

Il libro più bello che hai letto?
Domanda difficile. Se devo scegliere un libro solo allora dico Il Maestro e Margherita di Bulgakov.

Il luogo più strano in cui scrivi?
THE END, uno dei racconti contenuti in Quando guardo verso Ovest l’ho scritto seduto su una scogliera, mentre il sole si tuffava nell’Oceano Atlantico. Ero a Finisterre (Spagna), nel punto in cui termina il cammino di Santiago.

Massimo, rispettiamo l’indice e cominciamo dalla fine, ossia da THE END, il primo racconto della tua antologia Quando guardo verso Ovest. C’è un argomento che mi tocca sempre molto profondamente ed è quello del CAMMINO INTERIORE. Cammino visto come passaggio di età o crescita personale o spirituale o altro. Una cosa non esclude l’altra ed a mio avviso sono tutte legate fra di loro. Tu ami molto camminare, ami la montagna, la solitudine delle cime o dei boschi, il contatto con il te stesso che batte dentro di te. Qual è il significato delle frecce gialle nella tua vita? Quale strada indicano?
Le frecce gialle a cui faccio riferimento nel primo racconto del mio libro sono quelle che indicano la via di Santiago ai viandanti che intraprendono il Cammino. Chi ha fatto questa esperienza sa che deve seguirle, è naturale farlo perché la meta è la stessa per tutti. Nella vita di ognuno di noi le cose cambiano. La meta cambia da persona a persona, oppure anche per la stessa persona in fasi diverse della vita. Eppure le frecce gialle sono sempre lì, a indicarci un cammino che non è il nostro, a spingerci verso una meta che non ci appartiene. Come avrai capito parlo dei condizionamenti, impostici dalla famiglia, dalla scuola, dal lavoro, dal contesto sociale in cui viviamo. Il filo rosso che lega tutti i racconti di Quando guardo verso Ovest è proprio questo: fotografare il momento in cui i protagonisti dei racconti riconoscono i condizionamenti delle loro vite, li affrontano di petto e decidono deliberatamente di non seguire più le frecce gialle che qualcun altro ha posizionato sul loro cammino. Mi chiedi che significato abbia tutto ciò sulla mia vita. Beh, in uno dei racconti del libro il protagonista sono io, quindi la risposta è contenuta lì…

Vorrei tornare un attimo ad un tema a cui ho accennato nella domanda precedente, perché lo sento molto mio. Ritorno a quel tuo amore per la montagna e per le camminate in mezzo alla natura, da solo: tu, la tua anima e il mondo. Dalla tua scrittura e dalle tue passioni questo amore emerge in modo quasi esplosivo. Ci racconti quando è nato e se ha un qualche legame con la scrittura?
Piccolo stimolo alla riflessione: la solitudine è uno stato molto particolare. Molte persone la temono, noi scrittori la desideriamo. Che rapporto ha Massimo Lazzari con la solitudine?
Anche la passione per il trekking e per le immersioni nella natura è iniziata tardi. La mia prima esperienza di viaggi a piedi l’ho fatta a 33 anni, quando in un periodo particolare della mia vita ho deciso di fare il Cammino di Santiago. Da lì in poi mi sono imposto di fare almeno un viaggio a piedi all’anno, percorrendo la Via degli Dei da Bologna a Firenze, un tratto della Via Francigena toscana, il sentiero delle Foreste Casentinesi e il Parco dei Monti Sibillini (una parte d’Italia dalla bellezza sconvolgente che purtroppo sta attraversando un terribile momento). Al di là di questi veri e propri viaggi itineranti, appena posso scappo dalla città per ritrovare il contatto con la natura. Quando la maggior parte delle persone si dirige verso spiagge affollate, centri commerciali e terme, io punto in direzione di fiumi, boschi, montagne. Spesso queste mie escursioni sono in solitaria, perché come dici tu la solitudine è una condizione che noi scrittori cerchiamo. Io amo stare in buona compagnia, ma amo altrettanto stare da solo. In quei momenti, specie se sono immerso nella natura, trovo uno stato di pace interiore e ispirazione che nella vita quotidiana mi è spesso interdetto. Penso che faccia bene a chiunque dedicare dei momenti a se stessi, isolandosi dal resto del mondo. Non è necessario diventare degli eremiti o degli asociali, né cercare la solitudine in cima a un monte o in mezzo a un bosco. Basta sedersi ogni tanto in un bel posto tranquillo, chiudere gli occhi per qualche minuto e ascoltare la propria voce interiore. Già questo è sufficiente a cambiare non solo la nostra giornata, ma addirittura il modo in cui approcciamo la vita intera. Provare per credere.14141482_10209180301696131_2120604001352222404_n

Proveremo, Massimo, il tuo invito è talmente convincente che tutti i nostri lettori ascolteranno la loro voce interiore. Ovviamente anch’io lo farò! A volte abbiamo paura di ascoltarci, di scoprire cose scomode, che conosciamo benissimo ma che fingiamo di non sapere.
C’è un rischio in tutto questo, a mio avviso: che una parte della vita interiore dello scrittore finisca nelle storie che scrive. Dopo anni e tanti errori di scrittura ho capito che al lettore non interessa conoscere la mia vita. Vuole una storia che lo tenga incollato alla pagina, non dia spazio al lavoro, a mangiare, a dormire. Se la riempio di vita mia personale questa s’impoverisce e rischia di annoiare.
Da quel che ho percepito i tuoi racconti parlano di storie reali, ma non annoiano. Ci spieghi quale alchimia hai inventato?
Grazie mille Roby, ma forse qualcuno la pensa diversamente. Credo che i miei racconti ti abbiano fatto questo effetto perché, come dici giustamente tu, sono tutte storie vere, o verosimili. Ogni racconto ha come protagonista una persona che conosco (parenti, amici, colleghi), e in molti casi è stata proprio la persona in questione a decidere l’episodio da descrivere nel suo racconto. Quel particolare momento della sua vita in cui ha guardato verso Ovest e ha sentito il bisogno di cambiare qualcosa. In effetti nei 33 racconti che compongono il libro non c’è quasi nulla della mia vita privata, ma c’è molta vita vissuta da altre persone, persone comuni che affrontano difficoltà e inseguono sogni che il lettore può ritrovare come propri.

33 racconti per 33 giri. Quando guardo verso Ovest ha un forte legame con la musica rock. Racconti intensi, profondi, pieni di vita che si percepisce.
Ho apprezzato molto il legame che hai creato fra scrittura e musica, due elementi che ho capito essere fondamentali nelle tue giornate. Ho trovato geniale anche l’idea di abbinare ogni racconto ad una canzone rock.
Quando si scrive un romanzo o un racconto si parte da un’idea, la si sviluppa e poi si procede con la scrittura vera e propria. Spesso la domanda che uno scrittore si sente porre è: da dove è nata l’idea per questa storia?
Nel tuo caso invece io chiedo: come è nata l’idea di costruire un’antologia di racconti dove ogni racconto ha il titolo di una canzone rock? E inoltre, come è avvenuta la scelta di abbinare ogni canzone ad una storia (che come dici tu è legata ad una persona che conosci)?
Quando ho partorito l’idea di Quando guardo verso Ovest volevo realizzare un libro che fosse al tempo stesso una compilation della migliore musica rock del secolo scorso. La musica che amo e che, come dici tu, rappresenta una parte importante della mia vita. Ti confesso che non è stato facile abbinare ogni persona e la sua storia alla canzone che dà il titolo allo specifico racconto. In alcuni casi sono state le persone a scegliere il brano, anche se ho dovuto negare a molti Stairway to heaven, che ovviamente era la canzone che avevo scelto per il mio racconto. In altri casi ho scelto io, cercando un legame tra la persona o la sua storia con uno dei pezzi che avevo deciso di inserire. Legame che si può ritrovare nel testo della canzone stessa, nel titolo o semplicemente nel ritmo. La soddisfazione più grande che ho ottenuto da questo sforzo è che adesso tutte le persone più importanti della mia vita hanno una loro canzone. Quando la sento per radio penso a loro, e sarà così per sempre.

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Quello che hai creato è qualcosa di veramente originale. Ed originale è anche il modo in cui lo porti in giro, lo promuovi. L’idea del reading con la lettura del racconto e la sua canzone abbinata, cantata dal vivo, penso sia davvero unica. Hai altre idee nel cassetto per la promozione di Quando guardo verso Ovest? Quale altra sorpresa ci riservi? Ho visto sul tuo profilo facebook una interessante iniziativa umanitaria legata al tuo libro, ce ne vuoi parlare?
Si Roby in effetti ho da poco lanciato una nuova iniziativa che spero abbia un grande successo, e ti ringrazio per l’opportunità di parlarne anche qui. Ho deciso di devolvere tutti i miei proventi derivanti dalla vendita di Quando guardo verso Ovest, sia in cartaceo che in ebook, all’Associazione Mondobimbi Onlus (http://www.mondobimbi.org) che gestisce alcune scuole a Tulear, una cittadina nel Sud Ovest del Madagascar. Con il ricavato l’associazione acquisterà tutto ciò che serve per garantire l’istruzione scolastica dei bimbi di questa città: quaderni, libri, divise, zaini, mensa, ecc. Questa mia decisione è nata dopo avere visitato il Madagascar, un Paese bellissimo ma molto povero. Due bambini malgasci su tre non hanno l’accesso all’istruzione scolastica, e questo per un Paese in cui oltre la metà della popolazione ha meno di 18 anni, è un grande problema. Spero davvero di riuscire a dare il mio modesto contributo a chi, come i volontari dell’associazione, dedica tempo, denaro ed energie a combattere tutti i giorni questo problema. Per farlo però ho bisogno dell’aiuto di tutti. Con 100 libri venduti riusciremo a mandare a scuola un bimbo per un anno, con 2.000 libri riempiamo una classe intera. A noi costa poco, ai bimbi del Madagascar arriva molto!
Grazie ancora a te e a tutte le persone che, acquistando il mio libro, mi aiuteranno a raggiungere questo obiettivo.

Grazie per avermi fatto compagnia nel mio salotto. Voglio ricordare a tutti la bellissima iniziativa di Massimo alla quale io stessa parteciperò acquistando una copia di Quando guardo verso Ovest. La prossima la compro di carta, così avrò anche la dedica dell’autore.
Arrivederci alla prossima chiacchierata!

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