Un’eredità di filo e forbici

A mia mamma
Cose che non si dimenticano

La casa è piena di aghi, spilli, bottoni, tessuti e filati di diversi tipi e colori. La chiamiamo la bancarella.
Una volta era una stanzetta lunga e stretta, stipata di mobiletti e cassettiere dove, là in mezzo, primeggiavano l’asse da stiro e la macchina da cucire. Un baule, quello del tuo corredo, era pieno di altri tessuti e buste di plastica. Solo tu sapevi cosa contenessero.
Era là che trascorrevi le giornate, a spingere con il ditale sull’ago, a tagliare vestiti, imbastire, provare, riprovare, tutto di fretta per finire l’abito da consegnare.
Ho vissuto così, accanto a te, fin da piccola, in mezzo alle gugliate di filo attaccate alle maglie o sparse per casa.
Oggi quella stanzetta è diventata una mansarda, con un tavolo grande, due macchine da cucire e tanti armadietti straripanti di fodere, sete, cotoni e lane. E ogni momento con te, sedute per terra in mezzo alle stoffe, a rovistare, ridere e sognare, è un tuffo nei ricordi.
Cose che non si dimenticano.
La tua schiena curva sulla sedia e le mani che infilavano l’ago, tiravano il filo e disegnavano una lunga cucitura, e la sigaretta sempre accesa, lasciata a consumarsi nel posacenere.
Un lavoro pesante, fatto di piccoli punti, a mano o a macchina, uno vicino all’altro. Tanti, numerosissimi, infiniti.
Quanti ne hai fatti? Quante volte il tuo ago ha infilato la stoffa?
C’è stato il periodo delle confezioni: ricevevi centinaia di pezzi che ammassavi sul baule; erano tutti uguali, solo da cucire a macchina. Erano gonne o pantaloni o abiti tagliati con lo stesso modello, cambiava solo la dimensione o il colore. Una catena di montaggio.
Poi c’è stato il periodo della grande sartoria, delle riparazioni ai vestiti costosissimi: dal semplice orlo alla modifica più impegnativa, fatte a volte anche all’ultimo minuto, per la cliente che non poteva aspettare.
Non hai mai detto di no. Correvi da casa alla boutique, ritiravi il lavoro, tornavi a casa, cucivi, cucinavi, col tempo alle spalle, preparavi tutto, aspettavi noi, sempre a schiena curva, su quella sedia e con un ago in mano.
Le tue amiche passavano per casa, sedevano vicino a te, in quella stanzetta fredda, con le doppie calze e le mani gelide. Erano chiacchiere, sigarette consumate, abiti riparati o cuciti da zero, che si ammassavano sul baule, uno dopo l’altro in attesa di essere consegnati.
C’è stato il periodo di Luna. Tu avevi paura di lei, non sapevi sarebbe arrivata, te la sei ritrovata in casa e ti ha conquistata subito. Un batuffolo bianco con una macchia nera che girava in mezzo a noi, si nascondeva nei posti più insoliti e si strusciava alle tue gambe. Amava rifugiarsi nei sacchetti di plastica, quelli pieni di stracci o ritagli di tessuti. Qualche volta s’infilava nelle buste dove avevi riposto gli abiti stirati e piegati di una cliente o negli scatoloni in cui conservavi le stoffe più belle, le sete preziose, i tagli che avevi acquistato sognando di cucire l’abito da mille e una notte.
Luna era diventata la tua compagnia. Quando non ti alzavi presto, lei veniva da te, entrava silenziosa, saltava sul letto, s’infilava sotto le coperte e ti aspettava con pazienza.
La Teresa, invece, esiste da sempre, il primo regalo di tuo padre quando iniziasti ad andare a bottega per diventare sarta, la modella che prova tutti gli abiti, di qualsiasi modello o taglia. Sempre slanciata, in forma, perfetta. Disponibile ventiquattro ore al giorno. Non ha particolari esigenze e non chiede compensi. L’abbiamo chiamata Teresa per quell’abitudine insolita di dare un nome agli oggetti, alle piante, agli alberi.
Hai cucito di tutto, non solo abiti. Hai rivestito divani, poltrone, cuscini; hai confezionato tende, lenzuola, coperte. Hai arredato scenografie e realizzato vestiti da scena. Per non parlare delle maschere di carnevale, gli abiti da cerimonia, le borse, i foulard, le mantelle e i cappotti.
Hai riparato di tutto con un’abilità solo tua. Hai rinnovato. Modificato. Accontentato ogni richiesta, anche la più strana, insolita, impossibile, quella che solo tu, per magia, sai soddisfare.
Hai iniziato giovanissima e continui ancora oggi. Con le dita storte, la schiena che fa male, la sciatica che punge e non ti lascia respirare, tu sali in mansarda e ti rifugi lì, nel tuo mondo, dove i colori, i vestiti appesi, i tagli di stoffa e i rocchetti di filo parlano di te.

La giusta via della giustizia

Storia di una cittadina alle prese con provvedimenti e rendiconti senza rendersene conto

(Storia di una cittadina alle prese con provvedimenti e rendiconti senza rendersene conto)

L’avvocato pronunciò tre parole che somigliavano a qualcosa di imponente. Non conoscevo il significato.  Mi resi conto della fregatura solo quando giurai e la giudice mi disse: «Auguri e buona fortuna».

Ho una nonna. Una dolcissima vecchina di poche parole, autonoma e indipendente fino ai cent’anni. Ha cucinato, pulito, accudito il figlio ultra-settantenne come meglio poteva e senza chiedere l’aiuto di nessuno. Anche adesso, se provo ad avvicinarmi, lei tenta di allontanarmi. Poi sorride e si fa accarezzare.

Al compleanno cifra tonda con due zeri l’ho portata al ristorante. Ha percorso le cinque rampe di scale per scendere dal secondo piano senza ascensore (perché nel condominio non esiste), ha raggiunto la macchina e si è lasciata accompagnare. Ha soffiato sulle candeline e mangiato da sola, con forchetta e coltello, gustando, fino all’ultima goccia, un bel bicchiere di vino.

Ha l’approccio rude ma poi mi dà la mano e viene con me.

Parla poco, ci sente poco. E allora io urlo, scandisco le sillabe e penso a quelli attorno a me che osservano una (la sottoscritta) gridare a una vecchina che mi guarda con gli occhi dello stupore. Forse anche lei pensa di avere una nipote svitata, ammesso che si ricordi chi sono. Quando mi vede sorride, quando l’abbraccio batte affettuosamente con la mano sul mio braccio e quando la bacio risponde allo stesso modo, anche se poi, quando qualcuno le chiede chi sia quella donna giovane che è passata a trovarla («Donna giovane non lo sono più tanto ma grazie del complimento!»), lei non risponde, resta assente e con gli occhi persi chissà dove e non c’è modo di farle pronunciare parola.

Le racconto qualcosa, non so neanche cosa recepisce. Però il freddo delle mie mani non le sfugge mai.

«Uh! Che fredda!» dice.

E io le spiego che fuori si gela, la temperatura si è abbassata, è inverno ma la sua mente è già altrove. Non risponde più, guarda i miei braccialetti, li fa tintinnare con le dita e saluta con la mano l’infermiera che passa e la chiama per nome, con un gesto che somiglia a quello del Papa.

L’avvocato mi disse che per gestire la nonna occorreva un Amministratore di Sostegno o ADS per dirla in gergo, qualcuno insomma che potesse amministrare i conti della Regina della mia casata e occuparsi dei suoi bisogni. Per una povera vecchina di un centinaio d’anni la legge imponeva un ragioniere.

Quale occasione migliore! Un ragioniere? C’est moi! E perché uso il francese? Meglio It’s me? Manca solo lo spagnolo: Soy Yo? E siamo al completo (grazie Mister Google per la traduzione). Il senso è sempre lo stesso: il ragioniere, anzi la ragioniera sono io, diplomata con un calcio nel sedere.

E così entro nel dedalo intricato dei corridoi con la lettera e delle stanze con il numero. Imparo presto: gli orari, i nomi, i volti, i sorrisi e il gusto del cappuccino con pasta di riso al bar del piano terra, in attesa del mio turno.

Imparo presto che se scrivo tutto quello che il funzionario mi dice, quando arrivo a casa ricordo ogni particolare. Sì, perché lui, anzi è una lei, parla a raffica, sciorina veloce veloce le pratiche da preparare: l’istanza da scrivere (e quello che ci va scritto), i moduli da compilare, le marche da bollo da acquistare che non devo comprare né troppo presto né troppo tardi ma in una data precisa. E mentre recita la lista della spesa, mi sorride e dice: «Ha segnato tutto?» (Sottotitolo: Se non hai bisogno di altro te ne puoi andare).

Ho imparato a non uscire da quella stanza se ho il più piccolo dei dubbi, un’incertezza o se non ho capito anche una sola delle diecimila parole che la funzionaria (non si dice ma mi piace) ha pronunciato in cinque secondi. Perché quando chiudo la porta alle mie spalle io non ricordo più nulla. Buio totale.

È il girone dell’Inferno. Aveva ragione la giudice ad augurarmi buona fortuna!

“Domattina vado in tribunale e se tutto va bene a mezzogiorno sono in ufficio” penso mentre organizzo la giornata. È un’avventura: sveglia presto per essere la prima davanti al cancello del tribunale, attendere le otto e mezza, prendere il biglietto e poi gironzolare fino alle dieci quando l’ufficio apre ai clienti. Ci va una mattinata. E non ne basta una sola: vado la prima volta a chiedere cosa devo fare, la seconda a consegnare (sperando di non avere fatto errori) e poi altre due o tre per ritirare l’atto (la prima non è ancora pronto, la seconda non c’è l’impiegato, la terza, se sono fortunata, me lo consegnano ma solo dopo aver comprato le marche da bollo e fatto le fotocopie). Un supplizio al supplì!

Per fortuna c’è la pasta di riso ad attendermi al bar.

In quell’ora e mezza di attesa, qualche volta, accendo il computer, rispondo alle mail, alle telefonate e leggo documenti di lavoro. C’è un salotto con divanetti, tavoli e piante. Mi accomodo lì, in quello spazio fuori dal tempo, dove le persone corrono, sbuffano e attendono.

Mi ripeto ogni giorno che non potevo fare altro. Che alternative avevo? Lasciare la mia nonnina, sangue del mio sangue, nelle mani di uno sconosciuto? Che poi quando la vedono diventano tutti amici suoi. Perché lei è così: tanto rude quanto dolce.

«Buongiorno» mi salutano gioiosi quando entro nella struttura che la ospita. «Che cara la nonna!» aggiungono. Ed è vero. È silenziosa, dorme quasi tutto il giorno e mangia ancora da sola. Rigorosamente frullato.

Ma lo stupore maggiore lo leggo negli occhi dell’impiegato comunale o del funzionare o dell’avvocato quando mi chiedono: «Quando è nata la nonna?»

Chiunque sia la reazione è sempre la stessa. Voi come reagireste se rispondessi 22 luglio 1913?

 

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Massimo Lazzari

Benvenuti alla seconda puntata de L’ora del tè, il salotto in cui si parla di libri e di 13920039_10209966357338097_5427798882119535818_oscrittura; il nostro intento però è soprattutto quello di conoscere l’autore che di volta in volta ci farà compagnia.
Oggi è la volta di Massimo Lazzari, autore di Quando guardo verso Ovest, una raccolta di racconti legati alle più belle canzoni rock dei nostri anni, pubblicato nella collana Officina Marziani di Antonio Tombolini Editore. I racconti di Massimo però non parlano solo di musica, anzi. Fra poco lo scopriremo.
Per conoscere meglio Massimo vi consiglio di fare una visita sul suo sito; ha una casa piena di libri, musica e persone interessanti… Questo è il link: www.massimolazzari.com

Benvenuto nel mio salotto, Massimo. Di solito offro tè e dolci. Tu cosa gradisci?
Grazie per l’invito Roby, è un piacere e un onore essere qui. Per me tè verde senza zucchero grazie.

Massimo, sei comodo? Partiamo con le cinque domande brevi?
Tre, due, uno, via!!!

A che età hai iniziato a scrivere?
La sera del mio trentesimo compleanno. Avevo bisogno di una data simbolica.

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?
Quando scrivo un racconto o un capitolo di un romanzo la lunghezza deve sempre essere tre pagine word, non una di più non una di meno.

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?
Non ho un luogo preferito. Il romanzo Esprimi un desiderio è ambientato nei luoghi immaginari dei sogni dei protagonisti; Quando guardo verso Ovest contiene racconti ambientati sia in Italia che all’estero (Irlanda, Sudafrica, Australia, …). Il terzo libro che uscirà nel 2017 è ambientato in India.

Il libro più bello che hai letto?
Domanda difficile. Se devo scegliere un libro solo allora dico Il Maestro e Margherita di Bulgakov.

Il luogo più strano in cui scrivi?
THE END, uno dei racconti contenuti in Quando guardo verso Ovest l’ho scritto seduto su una scogliera, mentre il sole si tuffava nell’Oceano Atlantico. Ero a Finisterre (Spagna), nel punto in cui termina il cammino di Santiago.

Massimo, rispettiamo l’indice e cominciamo dalla fine, ossia da THE END, il primo racconto della tua antologia Quando guardo verso Ovest. C’è un argomento che mi tocca sempre molto profondamente ed è quello del CAMMINO INTERIORE. Cammino visto come passaggio di età o crescita personale o spirituale o altro. Una cosa non esclude l’altra ed a mio avviso sono tutte legate fra di loro. Tu ami molto camminare, ami la montagna, la solitudine delle cime o dei boschi, il contatto con il te stesso che batte dentro di te. Qual è il significato delle frecce gialle nella tua vita? Quale strada indicano?
Le frecce gialle a cui faccio riferimento nel primo racconto del mio libro sono quelle che indicano la via di Santiago ai viandanti che intraprendono il Cammino. Chi ha fatto questa esperienza sa che deve seguirle, è naturale farlo perché la meta è la stessa per tutti. Nella vita di ognuno di noi le cose cambiano. La meta cambia da persona a persona, oppure anche per la stessa persona in fasi diverse della vita. Eppure le frecce gialle sono sempre lì, a indicarci un cammino che non è il nostro, a spingerci verso una meta che non ci appartiene. Come avrai capito parlo dei condizionamenti, impostici dalla famiglia, dalla scuola, dal lavoro, dal contesto sociale in cui viviamo. Il filo rosso che lega tutti i racconti di Quando guardo verso Ovest è proprio questo: fotografare il momento in cui i protagonisti dei racconti riconoscono i condizionamenti delle loro vite, li affrontano di petto e decidono deliberatamente di non seguire più le frecce gialle che qualcun altro ha posizionato sul loro cammino. Mi chiedi che significato abbia tutto ciò sulla mia vita. Beh, in uno dei racconti del libro il protagonista sono io, quindi la risposta è contenuta lì…

Vorrei tornare un attimo ad un tema a cui ho accennato nella domanda precedente, perché lo sento molto mio. Ritorno a quel tuo amore per la montagna e per le camminate in mezzo alla natura, da solo: tu, la tua anima e il mondo. Dalla tua scrittura e dalle tue passioni questo amore emerge in modo quasi esplosivo. Ci racconti quando è nato e se ha un qualche legame con la scrittura?
Piccolo stimolo alla riflessione: la solitudine è uno stato molto particolare. Molte persone la temono, noi scrittori la desideriamo. Che rapporto ha Massimo Lazzari con la solitudine?
Anche la passione per il trekking e per le immersioni nella natura è iniziata tardi. La mia prima esperienza di viaggi a piedi l’ho fatta a 33 anni, quando in un periodo particolare della mia vita ho deciso di fare il Cammino di Santiago. Da lì in poi mi sono imposto di fare almeno un viaggio a piedi all’anno, percorrendo la Via degli Dei da Bologna a Firenze, un tratto della Via Francigena toscana, il sentiero delle Foreste Casentinesi e il Parco dei Monti Sibillini (una parte d’Italia dalla bellezza sconvolgente che purtroppo sta attraversando un terribile momento). Al di là di questi veri e propri viaggi itineranti, appena posso scappo dalla città per ritrovare il contatto con la natura. Quando la maggior parte delle persone si dirige verso spiagge affollate, centri commerciali e terme, io punto in direzione di fiumi, boschi, montagne. Spesso queste mie escursioni sono in solitaria, perché come dici tu la solitudine è una condizione che noi scrittori cerchiamo. Io amo stare in buona compagnia, ma amo altrettanto stare da solo. In quei momenti, specie se sono immerso nella natura, trovo uno stato di pace interiore e ispirazione che nella vita quotidiana mi è spesso interdetto. Penso che faccia bene a chiunque dedicare dei momenti a se stessi, isolandosi dal resto del mondo. Non è necessario diventare degli eremiti o degli asociali, né cercare la solitudine in cima a un monte o in mezzo a un bosco. Basta sedersi ogni tanto in un bel posto tranquillo, chiudere gli occhi per qualche minuto e ascoltare la propria voce interiore. Già questo è sufficiente a cambiare non solo la nostra giornata, ma addirittura il modo in cui approcciamo la vita intera. Provare per credere.14141482_10209180301696131_2120604001352222404_n

Proveremo, Massimo, il tuo invito è talmente convincente che tutti i nostri lettori ascolteranno la loro voce interiore. Ovviamente anch’io lo farò! A volte abbiamo paura di ascoltarci, di scoprire cose scomode, che conosciamo benissimo ma che fingiamo di non sapere.
C’è un rischio in tutto questo, a mio avviso: che una parte della vita interiore dello scrittore finisca nelle storie che scrive. Dopo anni e tanti errori di scrittura ho capito che al lettore non interessa conoscere la mia vita. Vuole una storia che lo tenga incollato alla pagina, non dia spazio al lavoro, a mangiare, a dormire. Se la riempio di vita mia personale questa s’impoverisce e rischia di annoiare.
Da quel che ho percepito i tuoi racconti parlano di storie reali, ma non annoiano. Ci spieghi quale alchimia hai inventato?
Grazie mille Roby, ma forse qualcuno la pensa diversamente. Credo che i miei racconti ti abbiano fatto questo effetto perché, come dici giustamente tu, sono tutte storie vere, o verosimili. Ogni racconto ha come protagonista una persona che conosco (parenti, amici, colleghi), e in molti casi è stata proprio la persona in questione a decidere l’episodio da descrivere nel suo racconto. Quel particolare momento della sua vita in cui ha guardato verso Ovest e ha sentito il bisogno di cambiare qualcosa. In effetti nei 33 racconti che compongono il libro non c’è quasi nulla della mia vita privata, ma c’è molta vita vissuta da altre persone, persone comuni che affrontano difficoltà e inseguono sogni che il lettore può ritrovare come propri.

33 racconti per 33 giri. Quando guardo verso Ovest ha un forte legame con la musica rock. Racconti intensi, profondi, pieni di vita che si percepisce.
Ho apprezzato molto il legame che hai creato fra scrittura e musica, due elementi che ho capito essere fondamentali nelle tue giornate. Ho trovato geniale anche l’idea di abbinare ogni racconto ad una canzone rock.
Quando si scrive un romanzo o un racconto si parte da un’idea, la si sviluppa e poi si procede con la scrittura vera e propria. Spesso la domanda che uno scrittore si sente porre è: da dove è nata l’idea per questa storia?
Nel tuo caso invece io chiedo: come è nata l’idea di costruire un’antologia di racconti dove ogni racconto ha il titolo di una canzone rock? E inoltre, come è avvenuta la scelta di abbinare ogni canzone ad una storia (che come dici tu è legata ad una persona che conosci)?
Quando ho partorito l’idea di Quando guardo verso Ovest volevo realizzare un libro che fosse al tempo stesso una compilation della migliore musica rock del secolo scorso. La musica che amo e che, come dici tu, rappresenta una parte importante della mia vita. Ti confesso che non è stato facile abbinare ogni persona e la sua storia alla canzone che dà il titolo allo specifico racconto. In alcuni casi sono state le persone a scegliere il brano, anche se ho dovuto negare a molti Stairway to heaven, che ovviamente era la canzone che avevo scelto per il mio racconto. In altri casi ho scelto io, cercando un legame tra la persona o la sua storia con uno dei pezzi che avevo deciso di inserire. Legame che si può ritrovare nel testo della canzone stessa, nel titolo o semplicemente nel ritmo. La soddisfazione più grande che ho ottenuto da questo sforzo è che adesso tutte le persone più importanti della mia vita hanno una loro canzone. Quando la sento per radio penso a loro, e sarà così per sempre.

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Quello che hai creato è qualcosa di veramente originale. Ed originale è anche il modo in cui lo porti in giro, lo promuovi. L’idea del reading con la lettura del racconto e la sua canzone abbinata, cantata dal vivo, penso sia davvero unica. Hai altre idee nel cassetto per la promozione di Quando guardo verso Ovest? Quale altra sorpresa ci riservi? Ho visto sul tuo profilo facebook una interessante iniziativa umanitaria legata al tuo libro, ce ne vuoi parlare?
Si Roby in effetti ho da poco lanciato una nuova iniziativa che spero abbia un grande successo, e ti ringrazio per l’opportunità di parlarne anche qui. Ho deciso di devolvere tutti i miei proventi derivanti dalla vendita di Quando guardo verso Ovest, sia in cartaceo che in ebook, all’Associazione Mondobimbi Onlus (http://www.mondobimbi.org) che gestisce alcune scuole a Tulear, una cittadina nel Sud Ovest del Madagascar. Con il ricavato l’associazione acquisterà tutto ciò che serve per garantire l’istruzione scolastica dei bimbi di questa città: quaderni, libri, divise, zaini, mensa, ecc. Questa mia decisione è nata dopo avere visitato il Madagascar, un Paese bellissimo ma molto povero. Due bambini malgasci su tre non hanno l’accesso all’istruzione scolastica, e questo per un Paese in cui oltre la metà della popolazione ha meno di 18 anni, è un grande problema. Spero davvero di riuscire a dare il mio modesto contributo a chi, come i volontari dell’associazione, dedica tempo, denaro ed energie a combattere tutti i giorni questo problema. Per farlo però ho bisogno dell’aiuto di tutti. Con 100 libri venduti riusciremo a mandare a scuola un bimbo per un anno, con 2.000 libri riempiamo una classe intera. A noi costa poco, ai bimbi del Madagascar arriva molto!
Grazie ancora a te e a tutte le persone che, acquistando il mio libro, mi aiuteranno a raggiungere questo obiettivo.

Grazie per avermi fatto compagnia nel mio salotto. Voglio ricordare a tutti la bellissima iniziativa di Massimo alla quale io stessa parteciperò acquistando una copia di Quando guardo verso Ovest. La prossima la compro di carta, così avrò anche la dedica dell’autore.
Arrivederci alla prossima chiacchierata!

Diploma di merito al mio racconto “L’Hotel Rimini”

Premio Scintille in 100 Parole

Concorso Scintille in 100 parole 2015: Diploma di merito al mio racconto L’Hotel Rimini – giudice: Marco Valenti


 

L’Hotel Rimini

Clochard, senzatetto, coperti di stracci e cartoni, sulle panchine e nei sottopassi della stazione.

Paolo sale sul taxi, con un senso di disagio nello stomaco. Davanti all’hotel ammira gli addobbi, le luci natalizie, l’enorme albero, le decorazioni costosissime. Entra in cucina ancora con la valigia in mano.

«Quanti pasti hai preparato?»

«Quaranta».

«Quanti altri ne puoi preparare?»

Il cuoco risponde e Paolo soddisfatto chiama Radio Taxi.

Tre auto. Sgancia cinquanta euro ad ognuno e parla con i taxisti. Dopo mezz’ora ritornano con un carico di uomini e donne vestiti di stracci e lo sguardo smarrito.

Paolo sorride. Ora è Natale!

 


 

Devo ringraziare in modo particolare Maggie Van Der Toorn per la magnifica organizzazione, Marco Valenti, giudice della categoria L’Hotel Rimini, per avere premiato il mio racconto e l’attore Francesco Tonti per la magistrale interpretazione dei racconti.

Complimenti a tutti i premiati!

Tutti i dettagli del Concorso Letterario sul Blog Scintille di Maggie e sulla pagina Facebook.

 

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