Nella perfezione

A mia nonna

Domande che
rimasero senza voce

Ultimo giorno

Nella perfezione, però, manchi tu.
È vuoto, quello che sento? O forse l’egoismo di non voler, a nessun costo, sentirmi sola. Mi chiedo spesso cosa sia la solitudine e perché incuta così tanto timore. Poi guardo al passato e capisco che non è l’essere da sola a spaventarmi, ma la mancanza delle tue parole, il non poterti ascoltare ridere a squarciagola come di solito fai. Anche in mezzo al dolore.
Sì, perché si può anche ridere di dolore.
Io non lo sapevo. Ma la prima volta che ho perso te ho riso. La seconda mi sono incazzata a morte con il destino. La terza ho desiderato la tua morte. La quarta, la mia.
Nell’imperfezione, esisti tu.
Non è un amore, il nostro, lo vedo più come una sfida, coltelli in mano, a costringere l’altro a cedere al proprio desiderio. Non solo quello carnale. Anzi, di carnale non c’è proprio nulla, considerando che non sei il mio uomo, né la mia donna, né un oggetto sessuale. Sei mio, mia, tutto, non so cosa sei. Una volta, tanto tempo fa, abbiamo provato a dircelo, anzi, a scriverlo su fogli immensi appiccicati al pavimento. Con i pennarelli in mano io scrivevo di te e tu di me. Abbiamo riso. Dio quanto abbiamo riso!
Tu di me hai scritto pene, e io, intendendo il sesso maschile, ti ho guardato seria e ho intercettato il tuo sguardo per poterci leggere il significato di quella parola associata a me. Tu, bastarda, hai colto il mio dubbio e non hai mosso neanche l’angolo della bocca ad accennare un sorriso. Mi hai lasciata così, inebetita davanti alla tua strafottenza. Avrei voluto prenderti a schiaffi, morderti e poi baciarti dolcemente sulle labbra, sfiorarti con i polpastrelli e annusare la tua pelle. Quando hai colto il mio desiderio, allora hai riso. Doppiamente bastarda!
Per strappare dalla pancia la mia eccitazione, ti sei alzata e hai preparato la nostra ora del tè. Hai riempito d’acqua il bollitore vecchio di mia nonna, quello che ti ostini a non voler buttare via perché solo lì il tè viene come piace a te. Poi le tazze, sistemate sul vassoio, la mia e la tua, vicine, vicinissime. Lo zucchero solo di canna grezzo di coltivazione biologica, in alternativa miele dell’apicoltore che vive vicino al torrente. Non so perché tu ti sia intestardita nel volerlo comprare solo da lui, ma ho visto gli sguardi, ho notato che ogni barattolo che compri te ne regala un altro. Quando vai a comprare il miele non torni mai a casa. Una volta sei rientrata il giorno dopo. E io sono impazzita! So che muori tra quelle braccia possenti mentre io posso solo deliziarti con carne morbida e vellutata.
Hai scelto il mio tè preferito. Darjeeling indiano di dubbia provenienza, così lo chiami per farmi arrabbiare. Per te tisana al finocchio; sembra che abbia il potere di farti rilassare e ti aiuti a pensare positivo. Tua nonna, quando eri piccola, ti riempiva il biberon grande di quella bevanda e da allora non hai più smesso.
Mentre tu prepari il tè, io penso a una parola che ti rappresenti e scrivo anima. Dopo che mi hai definito pene non meriti una parola così bella, ma il mio cuore suggerisce solo questa e la scrivo in maiuscolo, stampatello, grassettato e con una linea rotonda che ci gira tutto attorno. Sopra la parola il cerchio si schiaccia verso il basso, sotto invece forma una punta all’ingiù. L’ho incorniciata con una riga rossa, il colore del cuore.
Quando ti avvicini con il vassoio in mano, io siedo con le gambe incrociate e attendo paziente che appoggi la nostra merenda sul pavimento, sopra le nostre parole, e siedi vicino a me. Guardi il cuore. Poi me. Poi sorridi.
Bello il cuore, dici.
E della parola cosa ne pensi? chiedo senza staccare gli occhi dalle tue folte ciglia.
Bella, rispondi senza troppa enfasi. Molto bella, aggiungi un attimo dopo.
Forse ce l’ho scritta in faccia, la delusione per la tua reazione. Mi aspettavo un abbraccio, sì, lo volevo, un tuo abbraccio. Perché non puoi amare una persona, come tu ami me, senza desiderare un suo abbraccio.
Sorseggi la bevanda e mi chiedi, perché anima? Perché sono un’anima, secondo te?
Ci penso e non lo so spiegare. Tu sei eterea, intoccabile, una nuvola soffice che galleggia sul filo dell’aria, quella che mi necessita per vivere. Tu contieni ossigeno, sei della stessa sostanza dell’acqua. Potrei vivere senza questi due elementi? Non c’è risposta a una domanda così banale. Un giorno sei entrata nella mia atmosfera. Non so come. Non ti ho chiesto perché, a me non serviva saperlo. Ti avevo e tanto bastava al mio cuore.
Provo a spiegarti questo, ma tu mi guardi con la faccia che sa di nuvola, panna montata, con due fragole appiccicate alle guance e una leggera sfumatura color oro sulle palpebre. Hai gli occhi neri e quel tocco brillante li fa esplodere ancora di più. Dio quanto amo i tuoi occhi. Li passi su di me come un radar, scandagli i miei sensi con l’arroganza della donna libera. Mi provochi, scavi un buco nel mio torace e poi lo riempi di un amore solo tuo. Non mi hai mai detto quello che provi per me, ma io lo percepisco.
So che non potresti vivere senza questo legame che ci unisce. Ridi, mentre lo dico. È il mio modo per tirarti fuori un sì, che non arriva. Non arriverà mai. Sei troppo orgogliosa per dirmi che mi ami. Hai paura di una delusione. Un rifiuto. Un abbandono.
Ma come posso lasciarti se l’amore che provo per te è totalizzante, unico, travolgente. Se mi sono trasformata da persona a zerbino. Se ho scelto di vivere come tu vuoi che io viva.
Il darjeeling mi osserva dalla tazza, con il suo temperamento ambrato. Tè nero. Che io lascio in infusione per pochi minuti. A conferma del suo sapore delicato. È lì che si specchia il tuo sguardo, con quel sorriso mozzato che mi punge la pancia in più punti. È lì che trovo te, quella parte di anima che ha saputo, in questo ultimo anno, alimentare la mia, nutrirla, farla crescere. Hai saputo, con i tuoi occhi scuri, accogliere il mio affetto con un’accettazione infinita.
Mi hai preso per mano? Lo sai che non lo ricordo? O forse io ho preso per mano te. E abbiamo camminato. Tanto. Per una destinazione sconosciuta. Abbiamo cercato invano un riparo, quando l’unico riparo utile eravamo noi due, con due cuori accostati così vicini da sembrare uno.
Mi chiedo quanto potremmo vivere, l’una senza l’altra, o senza quelle parole, quei gesti che ci fanno toccare la vita. Porgo a te la domanda, ti lancio la palla, e tu ridi, con quel suono cristallino che automaticamente coinvolge anche la mia risata. Sono le parole, mi dici, il nostro unico legame, sono i nostri pensieri, così reciprocamente collegati, sono i momenti felici, di pura gioia, e quelli tristi, fino alla profondità dell’anima. Anime asciutte, le nostre, senza più lacrime da versare. Non devi piangere, ti dico, nemmeno tu, rispondi. La tua mano ora è sulla mia, disegna tatuaggi immaginari di parole che incidono l’anima e la liberano dalle sue pene.


Giorno numero uno

Non lo ricordo più, il giorno numero uno. Un giorno non c’eri e quello dopo invece sì. Sei apparsa, iniziando a fare parte di quel mondo che ha per confini la mia vita.
Hai iniziato tu oppure io? Non ricordo nulla del nostro Big Bang. Due universi esplosi per poi fondersi in un unico nucleo, quello che contiene il succo della nostra amicizia.
Avevamo qualcosa in comune. L’amore per la scrittura. Quelle parole che hanno formato un legame solido, una catena di acciaio che ha legato la mia anima alla tua.
Siamo partite da lì, dalle parole. Da quel poco che sapevamo l’una dell’altra e da ciò che amavamo di più. Ci siamo inventate, raccontate, una tessera dopo l’altra e ci siamo scoperte totalmente diverse pur essendo profondamente uguali.
Tu ai monti, io al mare. Tu nera, io gialla. Tu con tutte quelle treccine. Strette e colorate. Ci siamo scoperte piano piano, come terre selvagge, dove entri un passo alla volta, cercando di non fare rumore. Tu, terra sconfinata, che ancora ogni giorno mi sorprendi per quanto sei immensa e inesplorata.
Parto da qui, dalla descrizione che posso fare di te.
Hai una età indefinita fra i diciotto e i diciannove anni. Rideresti, lo so, perché sono certa tu ne abbia più di quaranta. Ma che importa. Dicono tutti che l’età è quella che ci sentiamo dentro e per me tu hai diciotto anni e mezzo. Quel mezzo in più che ti concedo è per darti modo di poterti considerare una donna matura. Sei una strega, e per quanto ne so potresti andare in giro la notte per i tetti su una scopa a disturbare il sonno dei bambini indifesi. Ti avvicineresti con il semplice desiderio di fare loro qualche scherzo innocente: il solletico sotto i piedi, un pizzico piccolo piccolo su una guancia paffutella o un brutto sogno. Una cosa è certa. Di notte vivi sui tetti. Siedi sui coppi, raccogli le gambe strette vicino al seno, avvolta in uno scialle, e osservi il cielo. Cerchi una parola, un segnale, una risposta, un accenno di futuro. Sei la bontà assoluta. Quando non ti arrabbi. Nell’anno che abbiamo trascorso assieme non ti ho mai vista irritata; delusa, forse, ferita, amareggiata, ma adirata mai. Sei quasi troppo buona che a volte mi incazzo io per te. Quella volta che il tuo vicino di casa è entrato senza il tuo permesso l’avrei preso a pugni negli occhi. Ti sei limitata a guardarlo male, l’hai apostrofato per bene e gli hai sbattuto il portone sul naso. Troppo poco, io credo. Avresti dovuto stringere i pugni come fai quando sali sul ring e pestarlo fino a farlo piangere. Porco! Gode nell’osservarti. Ama la tua carne pallida. Si eccita a un tuo sorriso. E io non lo sopporto. Tollero a mala pena le tue fughe di sesso, quando sparisci di notte e nessuno sa dove sei, se rilassata sul tetto, nascosta nel bosco o infilata in mezzo alle lenzuola di qualcuno o qualcuna. Non ho ancora capito cosa ami di più al mondo. Quale sia la cosa a cui non rinunceresti. So che non faresti mai a meno del tuo cavallo e lo porteresti anche su un’isola deserta. Anche il telefono è indispensabile per te, e spero lo sia perché è l’unico filo che ci lega, il solo modo per colmare la nostra distanza. Ami il tè, il vino e tutte le verdure che crescono nel tuo orto. Quando sono stata da te ho mangiato solo vegetali e non ho sofferto per l’assenza di carne. Per quella c’eri tu. Hai riempito la mia anima con ciò che sei e non ho avuto fame.
La nostra prima volta non la ricordo. Io avevo letto il titolo del tuo libro da qualche parte, su qualche sito, e mi aveva incuriosita. L’ho acquistato, scaricato e dopo averlo letto ti ho scritto. È avvenuto così? Tu hai memoria di come sia andata? Quello che non dimenticherò mai è quanta emozione mi abbiano trasmesso le tue parole. Mi sono rintanata a leggere le tue pagine, chiudendo il mondo fuori e lasciando entrare solo te. Ho sottolineato con una linea immaginaria ciò che mi emozionava: tutto! Per leggerti avevo bisogno di silenzio, di averti solo mia. Di capirti come nessun altro aveva fatto. Di trovare nella tua anima quello che mancava alla mia. In quel momento credo di avere capito che non avrei mai più potuto vivere senza di te, che la mia esistenza non avrebbe avuto senso in tua assenza. Ne aveva avuto prima di te? Me lo chiedo ancora.
Per che cosa ho vissuto, se non per incontrare te?
Quando te l’ho detto hai sorriso, poi sei scoppiata dentro e mi hai riempita di quelle parole che nessuno mi aveva mai donato prima.
Ho capito una cosa. La so da tempo ma per la prima volta la scrivo a te.
Io e te dovevamo incontrarci, prima o poi. Per un motivo o un altro. In qualsiasi forma o creatura. Sotto forma di nuvola o cane o fantasma. O come foglie di uno stesso albero, trasportate dal vento o dall’acqua, in un legame eterno, indissolubile.
Quale sia lo scopo me lo chiedo dal giorno numero uno della nostra amicizia. O amore. O non so.
L’amore e l’amicizia sono le due facce della stessa moneta. Qual è il limite? L’amicizia finisce sul bordo da cui inizia l’amore?
Ho provato a chiedertelo più volte ma hai sempre eluso l’argomento. Mi hai lasciata con il dubbio. Sospesa a un filo. Buttata in un angolo come un sacco. Persa nei miei pensieri.
Cominciano con la A. Amicizia. Amore.
Ma ancora non capisco quale sia il confine.


Quella volta che

Il mio amore per il tè non è nato con il darjeeling. Ha origini molto più antiche, cresciuto tra le mura nere di fuliggine della vecchia cucina. Tra pareti strette, scrostate dal tempo e dall’umidità.
Se potessero parlare. Se potessero raccontare ciò che hanno visto e ascoltato…
Nonna aveva un modo tutto suo di prepararlo. Oggi farebbe inorridire i cultori della tradizione. Coloro che non ammettono tè in bustina con il limone e lo zucchero.
Ma lei si farebbe una risata, perché il tè che preparava era il più buono del mondo.
Era robusta e si muoveva a fatica, ma instancabile e dolce come non ne ho conosciute mai. Pronta a donare quello che aveva: un piccolo dolce, una bevanda calda o una storia terrificante.
Versava l’acqua nel bollitore, facendola scendere piano, a gocce, e canticchiando. Lo poggiava sulla stufa e, con gesti lenti e misurati, apriva la vetrina e cercava le tazze, scegliendole tutte uguali. Bianche, di ceramica con le rose rosa, il profilo d’oro e qualche sbeccatura qua e là.
Le spolverava con un cencio di cotone, disponendole al centro del piattino, prendeva i cucchiaini che infilava nella zuccheriera e poi tagliava la ciambella, a forma di filoncino, fatta con le sue mani carnose e ricoperta di zuccherini colorati o confetti piccoli piccoli. Era morbida come le sue guance. E sapeva di nocciola e uvetta.
Il tè era bollente con tanto limone, zucchero e amore. Il suo.
Poi sedeva al tavolo. Prendeva in mano un uncinetto, un filo di cotone bianco e, mentre raccontava, passava un capo sul dito, infilava il ferretto e lo estraeva da una catenella. Poi gettava di nuovo il filo sull’uncinetto e continuava così, senza guardare dove andavano le mani. Ogni tanto sorseggiava il tè.
Da una pentola sotto il coperchio, uscivano sbuffi di vapore. C’era sempre qualcosa che bolliva sulla stufa: verdura, carne o semplicemente acqua pronta all’uso. Perché poteva sempre servire.
Avrei tanto voluto fartela conoscere. Voi due vi sareste riconosciute subito. Avreste imparato l’una dall’altra: lei a scrivere e tu a fare l’uncinetto. Avreste invertito i ruoli. Tu a preparare il tè, lei a cavalcare il tuo stallone.
Avresti raccontato le sue storie: di donne che si svegliano per la paura di non essere sole, di uomini che strappano l’anima alle bambine, di vita che sa andare solo avanti e mai indietro.
Lei era il caldo di un abbraccio. La luce di un sorriso. La consolazione di una parola.
Sapeva sempre cosa c’era nella tua testa e nel tuo cuore. Senza chiedere.
Sapeva tutto di tutti, senza uscire mai di casa.
La vita non aveva segreti.
Le amiche le facevano compagnia ogni domenica pomeriggio, in quella cucina piena di vapore e profumo di ciambella.
Nella tasca del grembiule aveva le caramelle, i fazzoletti e le carte.
Quando incontrava qualcuno che aveva gli occhi tristi, lei mischiava il mazzo e cominciava a tirare fuori una figura alla volta e a disporle in una lunga fila dritta.
Poi parlava con una voce diversa che faceva paura anche a me che la conoscevo.
Diceva cose strane, mezze canticchiate. L’ospite di turno mi guardava con un velo di panico negli occhi e lo sguardo che formulava domande. A me. Io che ne capivo meno di lui.
Dopo giri e giri con le carte, alla fine lei si destava. Lo guardava negli occhi e gli diceva: hai capito? No, rispondeva lui. E lei rideva, aggiungendo: vai e sii felice.
Tranne una volta.
Quella in cui una mamma venne per chiedere aiuto. Sapeva da voci di paese che lei era capace di leggere le carte: voleva risposte e la verità.
Io ero presente, non so come ma c’ero sempre in queste occasioni.
Lessi la tensione nei suoi occhi. Anche lei sapeva che sarebbe stata un’altra cosa ma non disse di no.
Le carte girarono in modo diverso. Non era più una fila ma un cerchio stretto e poi sempre più grande. E fanti e cavalli e re, e gli assi e i colori. Qualcuno stava male, molto male. La donna non avrebbe dovuto venire da lei, disse, ma andare da un medico. C’era bisogno di aiuto per questa persona ma non era lei quella che avrebbe potuto guarire chi era in difficoltà.
La donna uscì di corsa e noi rimanemmo sole, a guardarci e farci domande che rimasero senza voce.


Dove inizia il fosso

Da piccola correvo di fronte a casa con le bambine di altre famiglie che abitavano vicino a noi. Trascorrevamo così i pomeriggi. Disegnando corse nell’erba. Giocando a nasconderci. Raccontandoci storie. Inventando Sanremo. Imitando i grandi.
I solchi nel terreno erano più alti delle nostre gambe. Sembravano montagne. Ma per noi erano giostre che andavano su e giù. Scalavamo quelle cime rincorrendoci e facendo a chi arrivava prima per poi aspettare quelli piccoli che restavano indietro e ci raggiungevano in lacrime. Il grano, quando era alto, era un nascondiglio perfetto. Non pensavamo all’ira degli adulti e incuranti del danno che provocavamo, ci infilavamo in mezzo alle spighe e ci acquattavamo a terra.
Quando sentivi l’urlo Arriva mamma!, dovevi scappare più forte che potevi, dimenticandoti chi rimaneva indietro perché più lento di te e restare fuori casa fino a quando pensavi che la sua rabbia fosse sfumata. C’era sempre quel laccio di cuoio appeso alla parete, il terrore dei piccoli e la scusa dei grandi. Lo strumento di educazione primario. Con quello davanti agli occhi facevamo qualsiasi cosa ci venisse chiesta.
E quanto tornavo sentivo fischiare l’aria prima ancora di entrare in cucina. E subito dopo quel pizzicore sulla pelle che non mi faceva dormire, tanto era forte.
Avrei voluto averti come amica da allora. Avrei voluto crescere con te, correre assieme nelle zolle, nasconderci vicine dietro il muro di casa o nella legnaia. Avresti amato il mio paese e la terra così piatta e distesa, ora verde, ora oro, ora marrone. Avresti annusato l’odore del grano, della paglia, del fieno. E insieme avremmo dormito sotto una coperta di stelle, sopra un giaciglio di erba, abbracciate strette, ognuna con i propri sogni da raccontare. E poi avremmo ascoltato il canto dei grilli, delle cicale e osservato il tramonto oltre la collina, quel giallo che si espande e poi diventa oro e poi rosso e viola e blu.


Che giorno è oggi

Perché ti racconto di mia nonna e della mia infanzia non lo so.
So che avrei voglia di condividere tutto. Diventare io per te e tu per me un’unica lunga intrecciata esistenza. Un racconto che inizia per caso e solidifica a ogni passaggio. In eterno.
Il nostro è un legame di parole.
Abbiamo iniziato così ed è così che continuiamo.
A scriverci, a sfogarci, a prenderci in giro, a stupirci, a ridere e a piangere su un foglio bianco.
Quanti anni sono non lo so, non ho contato il trascorrere delle lune, i passaggi delle stagioni, i chilometri percorsi, le lettere digitate. Quante ne abbiamo consumate?
Quante immagini scattate? Quanti abbracci mancati o sorrisi spenti?
Oggi è uno dei giorni.
Il numero x.
Uno di una lunga catena.
Uno che inizia e finisce e domani ci trova ancora qui. Anello dentro anello. Unite da un unico lungo filo di luce e dalla voglia, un giorno, di incontrarci per davvero.

© Roberta Marcaccio 2023 – All rights reserved

Il pollo è buono caldo

Il pollo è buono caldo

Il lunedì è il suo giorno preferito

I fogli, scarabocchiati durante le riunioni del lunedì, sono impilati sopra il cestino del riciclo. Ritraggono i volti e gli oggetti che Mario osserva ogni giorno da più di quarant’anni: primi piani dei colleghi, nature morte ispirate a oggetti presenti negli uffici, riproduzioni di loghi o manifesti che tappezzano i muri dell’agenzia.
“Il tuo risparmio è al sicuro” è lo slogan che ha disegnato durante l’ultimo meeting e spicca sul primo foglio della pila; Mario alza gli occhi e legge la stessa frase sul cartellone appeso in ufficio, poi ruota la sedia di novanta gradi, appoggia la testa allo schienale e incrocia le mani all’altezza dello stomaco.
«Eccoci qua» sussurra.
Il mare, a centocinquanta metri dalla finestra, è una lastra di vetro. L’aria è ferma, gli alberi riposano immobili. In un mondo in attesa.
L’orologio dice che manca solo mezz’ora al fine settimana.
Il suo respiro è come l’aria all’esterno: fermo.
Spinge con le gambe sul pavimento e ruota la poltrona di centottanta gradi. Si avvicina al computer, chiude tutte le finestre ed esce dalle procedure, facendo attenzione a scollegare l’utente. Inserisce una chiavetta nella porta USB e sposta sull’unità esterna tutto il contenuto della cartella MARIO: foto, documenti, video, musica. Un pugno di Giga.
Esce dall’ufficio, attraversa l’open-space, sotto gli occhi curiosi o compassionevoli dei colleghi, ed entra in bagno. L’acqua fredda, sulle mani e sul viso, è refrigerante. Nonostante l’egregio lavoro fatto dai condizionatori, la camicia, stretta dalla cravatta, è l’unica cosa che detesta del suo lavoro.
Rientra in ufficio. Sul monitor la barra di avanzamento indica quarantacinque per cento.
Siede e chiude gli occhi. Ormai deve solo attendere. È tutto pronto.
Ripensa a quell’ultima giornata. Ai sorrisi dei colleghi, ad alcuni occhi tristi in mezzo ad altri soddisfatti, ai due chili di biscotti di Fabrizia spazzolati in pochi secondi e alla stretta di mano del direttore. Riapre gli occhi: settantacinque per cento.
Ripassa mentalmente la check-list di tutto ciò che doveva fare. Non ha dimenticato nulla. Deve solo attendere.
Gli effetti personali sono ordinati sulla scrivania: il tablet, lo smartphone, l’accendino, i sigari, le chiavi della macchina, il rasoio, la forchetta, lo spazzolino da denti. E il magnum. Regalo dei colleghi.
Perfetto, abbinato all’orata con le patate.
Cento per cento.
È ora.

Il lunedì è il suo giorno preferito. Il caffè al bar sotto l’ufficio, gli scontri calcistici del post-domenica, la riunione delle dieci in sala consiliare e la reportizzazione dei dati della settimana precedente. Non si interessa di calcio, ma ama i numeri, i grafici a barre, le torte, gli istogrammi. Per due ore, mentre i colleghi si insultano per un rigore regalato, Mario raccoglie in una cartella i dati per le pivot e poi comincia a tracciare linee. Alle dieci meno un quarto apre una mail, allega il file Excel e invia tutto al direttore.
Sotto la doccia canticchia Vamos a la playa; si insapona con vigore, sfrega con insistenza le parti intime, i piedi, le ascelle. Il profumo di muschio bianco si espande nel piccolo box, sotto il getto d’acqua bollente. Si asciuga energicamente testa e corpo e poi getta l’accappatoio nel cesto dei panni sporchi.
Sceglie una camicia azzurra, un paio di pantaloni in fresco di lana molto leggero, la cravatta a righe blu e rosse e un mocassino sfoderato color cuoio. Prende la giacca e scende a piano terra.
Entra in cucina fischiettando, appende la giacca alla spalliera, si guarda attorno e crolla sulla sedia: il suo giorno preferito diventa in un buco nero. Lo scatolone, con la marca di una nota merendina da colazione stampata su tutti i lati, è ancora nell’angolo dove lo ha tirato venerdì al ritorno dal lavoro. Il magnum di Prosecco Valdobbiadene lo fissa dalla mensola su cui lo ha dimenticato due giorni prima; sopra l’etichetta è stampato il suo stato di servizio.
Fabrizia spalma burro e marmellata sul pane. È da venerdì sera che non parla. Lo guarda, lo ascolta imprecare ma non parla.
La tavola è imbandita di croissant, biscotti, confetture, creme. I suoi dolci preferiti. Ad accompagnarli, latte, caffè, cioccolata in tazza, tè, spremute.
«Caffè?»
Mario scuote la testa.
«Torta della nonna?»
Alza le spalle.
Fabrizia inclina il capo. Gli porge una tazza di cioccolata calda accompagnata da un sorriso.
«Un cantuccino piccolo piccolo?»
Mario appoggia il biscotto sul piattino vicino alla tazza fumante.
«Non ho fame!»
Afferra la giacca, la butta su una spalla ed esce di casa. Gironzola per le vie del quartiere in cui abita da una vita ma che non conosce. Osserva le case, si ferma davanti ai giardini, ascolta il cinguettio degli uccelli.
Scioglie la cravatta, che penzola sulla camicia, e apre i primi due bottoni. Piccole gocce di sudore brillano sulla fronte.
Siede sulla panchina davanti al campetto dove i ragazzini giocano a calcio. A fianco, una pista da bocce per i pensionati, il passatempo dei nonni del circolo. Lancia la giacca sulla staccionata, arrotola le maniche della camicia e appoggia i gomiti sulle cosce. Osserva il riverbero del sole in mezzo agli alberi. L’afa colora di nebbia il verde delle fronde.
«Che ore sono?»
Il fracasso dei pensieri copre lo scricchiolio della ghiaia, pressata dal copertone, e il cigolio dei freni. Una nuvola di polvere cela la fonte della voce. Mario tossisce e guarda l’orologio.
«Le dieci meno un quarto».
«Cosa fai qui?»
«Non lo so».
«Non vai a lavorare?»
«Cosa ti fa pensare che io debba andare a lavorare?»
«Sei vestito come il mio papà, quando andava in ufficio».
«E non ci va più in ufficio il tuo papà?»
«No. È molto malato. Ha perso tutti i capelli. Proprio come te. Anche tu sei malato?»
Due occhi scuri, rotondi e luminosi lo guardano attraverso la polvere che si deposita di nuovo a terra.
«Quanti anni hai?»
«Otto».
«E cosa fai in giro da solo?»
«La mamma piange tutto il giorno, papà è a letto e io giro in bici. Tu cosa fai qui?»
«Niente. Non faccio niente».
«Sei triste?»
«Mi sento un po’ solo».
«Anche io a volte mi sento molto solo. Ma poi penso alle cose che mi piacciono, ai miei amici, alle partite a pallone, ai giri in bici. Tu hai amici?»
«Li avevo, fino a qualche giorno fa».
«E cosa ti piace fare?»
«Mi piace lavorare e disegnare».
«E non puoi andare a lavorare?»
«No! Ormai non più».

Collo inamidato, cravatta con i personaggi della Disney e giacca a quadri.
Mario entra in agenzia. Ha in mano una valigetta e indossa occhiali da sole. Scuri.
«Buongiorno Mario!»
«Ciao Sara!»
La coda alle casse è interminabile. È metà mese.
Mario sale le scale fino al primo piano, attraversa l’open space, saluta i colleghi ed entra nel suo vecchio ufficio. Siede davanti al PC, digita la password e accede alle procedure. Apre la valigetta, prende alcuni fogli e comincia a pestare numeri sulla tastiera. Sorride mentre martella sui caratteri stampati bianco su nero. Ricontrolla gli importi, i soldi e scende alla cassa. Sara conta il denaro e gli consegna il resto. Mario lo divide nelle buste e chiude la valigetta. Prima di uscire dall’agenzia bussa alla porta del direttore. La apre. Uno sguardo d’intesa, un cenno di mano e la porta si richiude.
Il sibilo inconfondibile dei copertoni sull’asfalto strappa un sorriso a Mario.
«Ehi, aspettami!»
«Giacomo, cosa fai qui?»
«Ti stavo cercando».
«Non sei andato a scuola?»
«Stamattina avevo la tosse e la mamma mi ha lasciato a casa».
«E perché sei uscito? Mamma dov’è?»
«È andata al cimitero, da papà. Ci va tutte le mattine».
«Dai vieni, ti accompagno».
Mario suona alla canonica, il numero dieci di Via dei Tulipani, attende che Irma apra la porta e le consegna la busta con la delega e il denaro. La stessa cosa fa al numero sedici e al numero ventidue. Alcuni mesi sono molte di più le deleghe e per fare tutto il giro impiega anche un’ora.
Sosta davanti a casa di Giacomo e si accerta che il bambino entri.
«Non uscire di casa fino a che non torna tua madre. E se hai bisogno telefonami che arrivo».
Non fa in tempo a entrare in casa che il telefono squilla. Fabrizia sta cucinando il pollo al forno, con patate e castagne. Lo stomaco di Mario sorride.
Prende in mano l’apparecchio e, prima ancora di rispondere “Pronto”, la voce all’altro capo del filo irrompe nel suo timpano con la violenza di un bacio nell’orecchio.
«… e vuole sapere se oggi puoi portare i bambini a casa tua» gracchia la voce nella cornetta.
Mario incrocia gli occhi caldi e rassicuranti di Fabrizia.
«Va bene, Irma, li porterò a casa mia. Li verrò a prendere alle tre meno dieci».
Fabrizia inforna il pollo e aziona il timer. Poi dice: «Puoi usare la sala da pranzo, con tappeti e cuscini».
«Ma come…»
Lei sorride.
«E potresti riesumare quei tuoi cavalletti di legno; stanno marcendo in soffitta».
Mario la guarda a bocca aperta.
«Vi preparerò spremute di frutta fresca e una montagna di muffin».
Mario l’afferra in vita e l’attira a sé: Fabrizia profuma d’amore e di cose semplici. Deposita un bacio lieve sulle sue labbra e infila il naso nei suoi riccioli.
«Quanti sono?»
«Sei. Serviranno altri tre cavalletti».
Il sorriso di Fabrizia è impresso sulla tela appesa in cucina, vicino alla cappa. Il primo esperimento di ritratto, uno dei tanti schizzi abbozzati durante le lunghe ore di disegno. Lei se ne è innamorata e ha voluto appenderlo nella stanza in cui vive di più.
«Faccio una corsa in centro, devo fare scorte di fogli da disegno, colori e pennelli».
Mario fatica a staccarsi. Fabrizia ha un profumo che inebria e una leggerezza che semplifica tutto ciò che è complicato.
Lei allaccia le braccia attorno al collo del marito e gli stampa un bacio sulle labbra.
«Al ritorno passa al supermercato. Comprami le gocce di cioccolato e lo zucchero a velo».
Mario corre sul vialetto, afferra la bici e salta in sella.
«E fai prestooo! Il pollo è buono caldo».

© Roberta Marcaccio 2023 – All rights reserved

Il giorno del Cactus

Questa mattina mi sono alzata con la neve ad accarezzare ogni cosa. Era tutto bianco.

Ho aperto gli occhi e, ho avuto giusto il tempo di realizzare che oggi era il giorno del Cactus, prima che cominciassero ad arrivare i primi messaggi. Ho poltrito, prima a letto, poi a colazione con latte di grano saraceno e pane duro integrale e infine sul divano, sotto la coperta extra calda, a leggere messaggi, a colorare con Happy color, ancora in camicia da notte e vestaglia di pile, e a sperare che qualcun altro facesse tutto al posto mio.

Poi sono stata sopraffatta dalle recensioni (bellissime!) che ho letto commovendomi e appuntato nelle note per non dimenticarmi di ringraziare e condividere.

A metà mattina mi sono vestita, ho partecipato (poco!) alla liberazione dell’auto dalla neve e poi sono corsa a fare spesa. Le strade erano pulite, per fortuna, e quando sono tornata a casa ho trovato una sorpresa: la casa era linda!

Ho sorriso a mia figlia che mi ha strappato una risata con la sua frase a effetto: «Mamma, sei poco furba? Tu mi dovresti dire: “Perché non pulisci?”» «Perché io sono una mamma anomala.» Lei ha sorriso e mi ha detto che sì, io lo sono.

Ho trascorso tanto tempo al lavoro e quando ero a casa preferivo dedicare ai miei figli la qualità, chiacchierare con loro, stare assieme per i compiti, per i giochi o trascinarmeli stanza per stanza mentre io pulivo o cucinavo. Oggi sono grandi, ma tra noi è ancora così: passiamo tanto tempo separati ma quando siamo assieme assorbiamo ogni istante.

Lei ha anche cucinato. Vorrei farvi assistere a una scena a caso, dove io cerco di rendermi utile mentre lei prepara, per sentirmi dire: «Mamma, vai! Qui faccio io!» Giuro, non ho fatto nulla per meritarmi due figli meravigliosi, ma tant’è!

Abbiamo mangiato linguine agli scampi, loro, spaghetti quadrati integrali (sempre con gli scampi!) io!! 😊

Ebbene sì, io sono quella che mangia integrale, a volte senza glutine, limita la carne al massimo, preferisce la piada, sempre integrale, condita con l’olio (ma che romagnola seiiiii!! Oddio, spero che mia mamma non legga questo articolo!), le torte e i biscotti preparati con grano saraceno e zucchero di canna con poco sapore e poco dolci. Sono quella che beve acqua del rubinetto, tè e infusi di ogni tipo e che la sera, dopo cena, si coccola sul divano con caffè di fichi, cicoria e segnale con TRE!!! cucchiaini di miele. Sono sempre a dieta ma non rinuncio mai alla mia birra artigianale una volta alla settimana (da 75 cl!!!). Adoro la carne di maiale ma spesso mangio solo verdura. Nel minestrone non devono mancare le patate fresche e i fagioli. Zuppa di ceci o polenta sono tra i miei piatti preferiti, senza dimenticare il baccalà.

Se dovessi raccontarti qualcosa di me potrei dirti che…

Qualche anno fa ho detto che a 60 anni avrei smesso di fare la tinta e mi ero sbagliata, ho smesso parecchi anni prima.

Nella mia borsa c’è di tutto, è una valigia pesantissima: non mancano mai i due paia di occhiali indispensabili, un astuccio pieno di penne e matite colorate, quaderni, l’agenda, il tablet, il kindle…

Ho abbandonato il fondotinta da qualche anno e ora trucco solo gli occhi. Con l’avvento delle mascherine ho eliminato anche il rossetto. In compenso mia mamma ha pensato bene di farci sorridere confezionando mascherine coloratissime per tutti i gusti.

Io sono ordinatissima ed estremamente disordinata, sono capace di passare dalla gioia alla tristezza in meno di un attimo. Leggo negli sguardi, peso le parole, percepisco i malumori, non tiro mai indietro la mano, amo la socialità ma, al contrario, sono molto solitaria.

È sabato pomeriggio, è il giorno che attendo da nove mesi, e ho voluto raccontarti un po’ di quella che sono. Il cactus non ha colpa è stato un parto meraviglioso grazie a Triskell, a Barbara Cinelli e a tutte le splendide donne della redazione. Ringraziarle per la passione, la dedizione e la cura con cui trattano i libri e gli autori non sarà mai abbastanza!

Il cactus non ha colpa, lo so, ma serve a farci riflettere a fondo sulle priorità da dare a ciò che amiamo, desideriamo o riteniamo importante.

Ti lascio con un monito: se un giorno dovessi trovarti al buio ricordati di accendere la luce!! 😉 (L’ho sentita da qualche parte questa frase…)

Buona vita! <3 e se ti fa piacere seguimi sulla mia pagina Facebook o su questo sito!

(Foto di milivigerova on pixabay)

Il cactus non ha colpa

Esce il 13 febbraio il mio nuovo romanzo IL CACTUS NON HA COLPA edito da TRISKELL EDIZIONI.

A 45 anni Rebecca perde il lavoro a cui ha dedicato tutta la vita. Donna tenace, determinata, mette al primo posto la carriera, le persone con cui lavora e l’azienda, riuscendo sempre a dimostrare di farcela. La sua esistenza cambia radicalmente, entra in un gorgo depressivo che la trascina nel buio di una quotidianità in cui non vede la luce.
Riuscirà Rebecca a rinascere a nuova vita?

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: