Io e Anna in radio

Sono le cinque ed è l’ora del tè. Oggi con me non ci sarà nessun ospite a chiacchierare di scrittura, libri e tutte quelle curiosità che fanno degli autori quelle persone strane con la testa fra le nuvole.
Mentre sorseggiate il vostro earl grey o darjeeling preferito vi racconto cosa succederà questa sera.
Vi ho deluso? Spero di no!
Volevate una nuova puntata de L’ora del tè, vero? Arriverà presto e con autori molto interessanti; nel frattempo berremo assieme un ottimo calice di vino rosso o bianco oppure, meglio ancora, una birra artigianale, pasteggiando con salumi e formaggi.
E mentre voi vi rilasserete sbocconcellando in qua e in là, io chiacchiererò per voi con la bravissima Francesca Scherini, la conduttrice di Caffè Letteradio, la trasmissione di Radio Blabla in cui si parla di libri, e poi di libri, e infine ancora di libri.
Tutto questo succederà fra qualche ora, precisamente alle 20.30, proprio mentre voi addenterete una fetta di culatello o una scaglia di parmigiano.
Io e Francesca parleremo di Ti raggiungo in Pakistanil mio ultimo romanzo auto-pubblicato con StreetLib, la piattaforma per il self publishing.
Ovviamente ascolteremo anche della buona musica, alcune canzoni legate al libro e alla storia di Anna, la protagonista.

Io vi aspetto numerosi e partecipi, anche a bocca piena!

A fra poco!

L’ora del tè; chiacchierando in salotto con Clara Piacentini

La mia ospite di oggi è una cara amica. La nostra amicizia è nata dopo la mia recensione a Bianca come l’Africa, il libro che Clara ha pubblicato nel 2016 per Antonio Tombolini Editore nella collana Officina Marziani.
Clara Piacentini è stata docente di Lettere in Italia e all’estero ed ha vissuto sette anni in Bulgaria e altrettanti in Etiopia. I sette anni trascorsi in Etiopia hanno profondamente segnato il suo modo di pensare, il suo sguardo sulla vita.
Al rientro in Italia ha scelto come sua dimora un piccolo paese dell’entroterra romagnolo perché dalla sua casa si vede il mare.
Si è diplomata alla Scuola Triennale della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari conseguendo il titolo di Consulente in scrittura biografica ed autobiografica e conduce Seminari e Laboratori di scrittura di sé, coniugando la forza creativa della parola con il linguaggio poetico.
Nel 2015 e nel 2016 è stata selezionata con i racconti “Corale” e “L’anima si è fatta re” nell’ambito del Concorso Nazionale Lingua Madre. I racconti sono pubblicati nelle antologie “Lingua Madre Duemilaquindici/Duemilasedici. Racconti di donne straniere in Italia”, a cura di Daniela Finocchi – Edizioni SEB27.
Sempre nell’ambito del Concorso Lingua Madre, è stata selezionata, negli stessi anni, per il Premio speciale Fondazione Sandretto Re Rebaudengo con le foto ABABA-FIORE e ATTESA.

A questo punto non ci resta che incontrarla!

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Clara, è un vero piacere averti qui nel mio salotto. Vista l’ora, ai miei ospiti offro tè e dolci, ma lascio piena libertà di scelta. Tu cosa gradisci?

Gradirei, se puoi, un caffè freddo. Puoi aggiungere acqua e ghiaccio a un caffè appena fatto. Poiché lo bevo amaro, lo accompagno volentieri con un dolcetto. Grazie.

Ottimo! A questo punto possiamo iniziare la nostra chiacchierata. Sei pronta?

Prontissima!

A che età hai iniziato a scrivere?

Se si esclude la cospicua scrittura epistolare, cartacea e telematica che parte dall’adolescenza, la scrittura voluta e consapevole è cominciata nell’età matura durante gli anni trascorsi in Etiopia e da lì è continuata.

 

Quali sono, se ne hai, le tue manie quando scrivi?

Penna V5 HI-TECPOINT- 0,5 di qualsiasi colore, quaderni e quadernetti “preziosi”, tavolo completamente sgombro per computer e quaderno se sono in casa.

 

Il luogo in cui preferisci ambientare le tue storie?

Il luogo ha poca importanza. Non parto da un luogo, ma da una persona che diventa personaggio e che nel luogo o nei luoghi agisce.

 

Il libro più bello che hai letto?

Domanda “difficile”. Il primo che mi viene in mente: Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar.

 

Il luogo più strano in cui scrivi?

Le sale d’attesa di qualsiasi genere, così mi estraneo, a meno che… l’immaginazione non si posi su persone particolari che mi offrano un nuovo spunto.

Bene, Clara! Sono felice di averti con me oggi. Noi ci conosciamo da un anno; sei la prima autrice targata Antonio Tombolini Editore con cui sono diventata amica dopo aver recensito la tua bellissima antologia di racconti. Partiamo da qui, dall’Africa. Del libro parleremo alla fine. Hai fatto riferimento all’Etiopia. Ad un luogo che tu ami molto e che è parte importante della tua vita. Corretto?

Eccoci, Roberta! È un grande piacere anche per me essere in tua compagnia.
Sì Roberta, è corretto ciò che dici. L’Etiopia è il mio paese d’adozione, ha avuto un ruolo fondamentale nella mia esistenza. Ha segnato profondamente il mio modo di pensare, il mio sguardo sulla vita.

 

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Foto ATTESA di Clara Piacentini

Tu hai un legame particolare con le persone, con la mentalità e con gli usi di un popolo così lontano da noi ma così vicino nel tuo cuore. Ci racconti come è nata l’occasione di questo viaggio in Africa, cosa è successo durante il tuo soggiorno in Etiopia e come vivi e hai vissuto tutto ciò?

Vedi, Roberta, questo viaggio è durato sette anni.
In Etiopia sono andata per lavoro in seguito a un concorso fatto al Ministero degli Affari Esteri. Sono stata docente di Lettere presso la Scuola Italiana di Addis Abeba.
Non è facile rispondere alla tua domanda. Mi viene in mente una frase, letta, credo, nella rivista dei Padri Bianchi, Africa, che esprimeva più o meno questo concetto, chiaramente un po’ provocatorio: Chi va in Africa per un mese, torna e scrive un libro, chi vi passa un anno scrive una guida o un articolo, chi vi passa una parte di vita o una vita intera, preferisce star zitto davanti alla sua complessità. Quanto a me, poiché ti ho detto del motivo della mia vita in Etiopia, posso dirti che laggiù ho vissuto con pienezza, lavorando, viaggiando, cercando di capire, a contatto con la popolazione. Non è stato il mio un viaggio turistico, ma un viaggio dell’anima nel suo significato più ampio. Questo è ciò che è successo.
Come ho vissuto ha il nome di gratitudine, riconoscenza, un senso affettivo del ringraziamento.
Come vivo ha il nome di nostalgia, che secondo l’etimologia, dal greco, significa “dolore del ritorno”, nostalgia come sentimento di tristezza, di rimpianto per la lontananza da persone o luoghi cari, per un passato che si vorrebbe rivivere.
Dopo il cosiddetto rimpatrio, sono tornata due volte in Etiopia, ma… Nei puntini di sospensione il significato di un passato che non si può rivivere.
Vorrei aggiungere una cosa, ma forse emergerà quando mi farai domande sul mio libro: il mio amore per l’Etiopia non ha niente a che vedere con un che di romantico, sdolcinato o, quel che è peggio, colonialista.
Ho visitato altri Paesi africani, ma da turista…

 

Ho percepito quel “dolore del ritorno” sia durante la lettura di Bianca come l’Africa che dei due racconti Corale e L’anima si è fatta re pubblicati nelle antologie Lingua Madre Duemilaquindici/Duemilasedici. Racconti di donne straniere in Italia.
La tua è la scrittura dell’anima. Rispecchia quello che tu sei. Rispecchia quello che trasmetti in chi ti sta accanto. Di quella tua anima che un po’ doni agli altri.
C’è tanto nella tua scrittura di ciò che hai visto e vissuto. C’è anche tanta nostalgia.
Qual è il tuo desiderio di scrittrice? Il tuo obiettivo? Ogni scrittore ha il suo. Chi desidera diventare famoso, chi ricco, chi noto, chi semplicemente vuole essere letto.
Clara cosa desidera dal suo futuro di scrittrice?

Ho cominciato a scrivere da adulta, come dicevo rispondendo alla prima domanda. Ho sentito la scrittura come un bisogno, ho desiderato scrivere della mia vita, per me sola. Mi sono diplomata alla Scuola Triennale della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari e ho scritto la mia autobiografia che è riposta nel mio cassetto segreto, in attesa non so bene di cosa.
Intanto scrivo.
È stato pubblicando Bianca come l’Africa che mi sono accorta del mio ruolo di scrittrice. Non mi pongo un obiettivo particolare, non sicuramente quello di diventare famosa o ricca. Forse è il desiderio di essere letta, la gratificazione di un “riconoscimento” dei temi che affronto, unitamente alla capacità di una buona scrittura, ciò che mi aspetto dal mio futuro di scrittrice, se un futuro ci sarà.

  

clara2Vorrei tornare per un attimo ancora all’Etiopia e chiederti di raccontarci dell’Africa dal tuo punto di vista femminile per mostrarci ciò che hai visto: come vive la popolazione etiope, qual è il ruolo delle donne e quali sono le difficoltà che le persone devono superare ogni giorno. Non quello che ci raccontano i media, ma ciò che veramente è!

 Cercherò di essere breve e puntualizzare ciò che mi hai chiesto, perché l’argomento è molto vasto e complesso. Sono rientrata nel 2006 dall’Etiopia dove ho trascorso sette anni come docente alla Scuola Italiana di Addis Abeba. Ci sono ritornata per più di un mese nel 2010 e nel 2015. Ti parlerò un poco dell’Etiopia che ho amato. I viaggi in altri Paesi africani fatti per turismo per me non fanno testo. L’Etiopia, quando sono arrivata era, nelle statistiche, il penultimo paese fra i più poveri del mondo. La capitale era un insieme di villaggi separati da rigagnoli d’acqua putrida, un paio di quartieri con edifici in stile fascista, retaggio della nostra colonizzazione (Piassa, deformazione di Piazza perché manca in amarico la esse, Casancis, deformazione di Case Incis, gli edifici destinati agli italiani), poi la grande zona di Mercato dove potevi perderti e non era molto sicuro inoltrarti da solo, poi le nostre ville, intendo quelle dei bianchi. Nonostante la povertà estrema l’Etiopia era ed è ancora il più grande mercato dell’Africa orientale e ospita tuttora almeno duecento rappresentanze di Paesi stranieri, fra Ambasciate, Consolati e Organizzazioni Internazionali. La vita dei bianchi era a stretto contatto con la popolazione. Accanto alle nostre confortevoli abitazioni, le abitazioni o le capanne fatiscenti. La mucca dei vicini veniva a mangiarsi le mie calle che il guardiano si ostinava a piantare fuori del muro di cinta. A me stava bene così! Ero contenta. Altri bianche erano perennemente scontenti e nervosi. Ritengo che l’emarginazione sia un terreno in cui può attecchire il germe della violenza. La vicinanza crea rapporti di rispetto per l’altro, nonostante le differenze.
Oggi Addis Abeba è un grande cantiere. Palazzi sorgono come funghi senza regole e soprattutto senza alcuna misura di sicurezza per i lavoratori.
Si parla di grande ripresa economica.
Nessuno sa che dall’ottobre 2016 il governo ha dichiarato lo stato di emergenza, ancora in atto, in seguito alle proteste della popolazione Oromo che si vedeva sottrarre le terre da coltivare, date alle multinazionali straniere. Cina e Arabia Saudita in primis. Ci sono state centinaia di morti. Coprifuoco e isolamento dei social e delle linee telefoniche.
Ti allego un brano di un articolo del Corriere della Sera del 24 agosto 2016 che fa capire come siano scoppiate le rivolte dopo il gesto del maratoneta etiope che ha vinto la medaglia d’argento.
Non è tornato da eroe. E neanche da nemico della patria. Mentre i suoi compagni atterravano in Etiopia, Feysa Lilesa è rimasto in Brasile. Non girerà per Addis Abeba mostrando la sua medaglia di argento. Perché la maratona più difficile, e non poteva non saperlo, Lilesa l’ha cominciata domenica arrivando sul traguardo di Rio, dopo due ore, nove minuti e rotti, con un gesto che nessuno a questi Giochi aveva osato compiere prima di lui. Un gesto di protesta politica. Alzando le braccia incrociate sopra la fronte, i pugni chiusi, gli occhi bassi. Il segno delle manette, che nelle strade di casa sua sono diventate il simbolo di una rivolta che negli ultimi mesi sta infiammando (nel silenzio internazionale) il Paese del miracolo economico africano (la cui stabilità è cara all’Occidente), la seconda nazione più popolosa del Continente con 95 milioni di abitanti e forti squilibri sociali che prendono la forma di tensioni etniche. «Il governo etiope sta uccidendo il mio popolo — ha detto il ventiseienne Lilesa dopo la gara —. Io sostengo la loro protesta, perché gli Oromo sono la mia gente. I miei familiari sono in prigione, se osano parlare di diritti e democrazia vengono uccisi. Se torno, rischio anch’io di essere ucciso. O di finire in carcere»”. 

Quando sono stata in Etiopia ho visto Addis Abeba così mutata da non riconoscere interi quartieri.
Nelle campagne nulla era mutato.
Come vive la popolazione? Vive per la sopravvivenza. Per procurarsi il cibo quotidiano con una agricoltura ancestrale.
Le donne? Forse un po’ di emancipazione è arrivata, sicuramente nella capitale. L’emancipazione delle donne passa solo e necessariamente attraverso l’istruzione.
Le donne sono di una bellezza incantevole. Fanno i lavori più umili e pesanti. Dipendono direttamente dal marito. Partoriscono numerosissimi figli. Non hanno alcun diritto. Mancano di istruzione, soprattutto nelle campagne. Ti si avvicinano con grazia se tu sorridi loro. È un popolo mite quello etiope. Un popolo di sorrisi e silenzi.
Nei racconti di Bianca come l’Africa faccio spesso riferimento a figure di donne, alla loro vita.
Ti allego un post del Concorso Lingua Madre che affronta un tema difficile e lo fa con rispetto verso le bambine.

Oggi, 6 febbraio, si celebra la Giornata Mondiale contro le Mutilazioni Genitali Femminili, istituita dalle Nazioni Unite quale giornata di riflessione internazionale per l’eliminazione in tutto il mondo di queste violente pratiche.

Anche il #Clinguamadre si unisce e lo ricorda con la fotografia “Ababa – fiore” di Clara Piacentini, selezionata per il Premio Fondazione Sandretto Re Rebaudengo del X CL.
Quello delle mutilazioni genitali femminili è un tema scottante che ho visto affrontato spesso con violenza verbale, pruderie e morbosa curiosità. E ciò mi indigna.
È una pratica, quella delle mutilazioni, che continua nonostante da anni sia vietata legalmente. È ovviamente una pratica tremenda che spero scompaia già con le piccole generazioni del presente.
Nel film “Mouladé” il regista Sembène Ousmane affronta il tema con forza e delicatezza nella sua aperta denuncia. Ribadisce che solo l’informazione può sollevare le donne dall’essere vittime indifese e offrire loro l’opportunità di essere in grado di spezzare una cruenta tradizione.
Ho postato su Facebook un filmato che finalmente circolerà nelle scuole, un filmato a difesa delle bambine, in cui si parla della consapevolezza e dei diritti delle donne.
Ci sono due bambine in Etiopia, ora ragazzine, figlie della fisioterapista mia e di una mia amica. Sono un po’ figlie nostre. Supportiamo i loro studi. La più grande è stata ammessa all’Università. Diventeranno, spero, donne indipendenti e consapevoli dei loro diritti. Non mi piace parlare di questo. Non è un grande merito. Non mi piace l’atteggiamento buonista di tanti occidentali. Si sentono buoni perché portano doni o aprono una scuolina e si mettono in mostra. Forse non se ne rendono conto “Loro”, intendo gli Africani, i bimbi soprattutto, non ci devono alcun “grazie”. Siamo noi che lo dobbiamo a loro, per il loro sorriso, la loro ingenuità, la loro povertà che dipende in gran parte dalla nostra ricchezza.

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FOTO ABABA-FIORE di Clara Piacentini

Molto commovente, Clara, a volte siamo sordi e ciechi davanti a certe realtà e credo faccia bene a tutti ricordarci quanto siamo fortunati rispetto ad altri popoli, ad altre donne, uomini e bambini.
Mi hai chiesto di accorciare, se ti fossi dilungata, ma credo fermamente che non si possa cancellare neanche una sola parola di ciò che ci hai trasmesso con così tanto calore.
Veniamo ora a Bianca come l’Africa, a cui hai già accennato. Sono racconti che contengono tanto di ciò che hai vissuto, sono storie di una intensità disarmante. Ricordo, quando li lessi, provai davvero le sensazioni che descrivevi e per me, che non ho mai visitato l’Africa, è stato come essere lì, viverla, amarla, sentire il dolore di quel distacco.
Sono storie tue, dove c’è la tua vita.
Bianca come l’Africa è una denuncia a ciò che molti di noi non hanno vissuto e non vivranno mai. È il manifesto pubblico di una società che tutti dovrebbero conoscere. È una libertà verso un mondo difficile, quello delle donne, delle bambine, che sopportano ancora condizioni per noi inaccettabili.
È questo Bianca come l’Africa? Cosa è per te?

Sì, Roberta, posso risponderti che Bianca come l’Africa è tutto questo. Ma non è una denuncia, potrei dire, in stile giornalistico o sociale. Solo a occhi attenti, come il tuo del resto, appare ciò che si legge tra le righe, mentre le storie dei singoli si dipanano tenuti insieme da un filo quasi invisibile che la protagonista, in questo caso addirittura la scrittrice che racconta, tiene fra le mani. C’è un racconto intitolato Requiem, dove a un certo punto nel narrare di un fatto tragico, interviene con forza un pensiero che è quasi un grido, una riflessione che esce d’impeto: “… quest’Africa forte di contrasti, di dolcezza e violenza, di sorrisi e pianti, in questi cieli esagerati di bellezza, in questo sole che magnifica e uccide la vita, in questi fiori rabbiosi di colore a coprire il capire, a confondere le menti. Africa piegata che nulla nega al potente e in sé soffoca la sofferenza antica e la vendetta acerba”.
Ci sono quadri descrittivi che, usando un’espressione forte, un ossimoro, potrei definire “apocalisse di bellezza”, altri che danno l’idea della distruzione di un Paese tanto amato.
Per finire, ma forse te l’ho già detto, l’Africa, o meglio l’Etiopia, ha il nome di nostalgia che dal greco significa “dolore del ritorno” e questa nostalgia è quasi impossibile da spiegare, è quella che ti fa muovere per un ritorno reale, come ho fatto più di una volta -ma la mia vita nel frattempo è cambiata-, è quella che ti attanaglia l’anima quando meno te lo aspetti, così in qualsiasi momento della giornata, mentre svolgi azioni apparentemente futili…

Devo ringraziarti, Clara, per le tue parole, per quelle di Bianca come l’Africa che invito tutti a leggere. Il tuo libro è un cuore aperto. È emozione pura. È amore per l’Etiopia e la sua gente. Sono racconti che, legati uno all’altro, formano un filo unico. Di parole cariche di tutto il peso che l’Africa porta con sé.
Altre due domande prima di salutarti.
La prima: qual è il racconto che ami di più e perché?
La seconda: tu sei diplomata alla Scuola Triennale della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, hai conseguito il titolo di Consulente in scrittura biografica ed autobiografica e conduci Seminari e Laboratori di scrittura. Ci racconti, in breve, cos’è la scrittura autobiografica e perché, secondo te, le persone hanno un così forte bisogno di parlare di sé?

Il racconto che amo di più è senza dubbio “La collina degli eucalipti” (viene subito dopo il prologo – che ho scritto per ultimo, stanca di sentirmi chiedere del Mal d’Africa). L’ho scritto senza il presentimento che avrei continuato con altri racconti fino a farne un libro. L’ho scritto in Etiopia. Perché lo amo? Perché esprime tutto: dice chi io sono, dice della terra e degli orizzonti infiniti che ti si aprono davanti agli occhi e che in Europa è impossibile vedere, dice di bambini e donne. Dice di un presagio. Sono tornata in Etiopia due anni fa. Tutto è cambiato. La collina degli eucalipti no. È la stessa, troppo in alto e lontana dalla città non è ancora stata soffocata da una speculazione edilizia scriteriata e ladra.

Per rispondere alla seconda domanda e dirti in breve cos’è la scrittura autobiografica ti rimando a una citazione, tratta da un libro del filosofo Duccio Demetrio, mio maestro dell’età matura: “Arriva un momento nell’età adulta in cui si avverte il desiderio di raccontare la propria storia di vita. Per fare un po’ d’ordine dentro di sé e capire il presente, per ritrovare emozioni perdute e sapere come si è diventati, chi dobbiamo ringraziare o dimenticare. Quando questo bisogno ci sorprende, il racconto di quel che abbiamo fatto, amato, sofferto, inizia a prendere forma. Diventa scrittura di sé e alimenta l’esaltante passione di voler lasciare traccia di noi a chi verrà dopo o ci sarà accanto.” (da: Duccio Demetrio “Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé”, Raffaello Cortina Editore).

Se si ripercorre la storia della letteratura possiamo vedere che la scrittura autobiografica è stata praticata dall’antichità, attraverso i secoli, sono tantissimi gli scrittori e le scrittrici che hanno detto della propria vita. Ti cito solo Marco Aurelio, Sant’Agostino, Rousseau, per arrivare con un salto temporale di secoli a Simone De Beauvoir, Marguerite Yourcenar, Daniel Pennac e alla scrittrice ultima di questo periodo che è Annie Ernaux.
Le persone hanno bisogno di parlare di sé e credo sia per un desiderio di riconoscimento. Ma il parlare, scusa la pedanteria, resta vano. È la scrittura che ci porta alla riflessione sulla propria vita, al recupero delle memorie, al prendersi cura. La scrittura di sé costituisce inoltre una modalità di cura alla quale donne e uomini ricorrono per oltrepassare momenti difficili, di fragilità della propria esistenza. Non vi è età della vita che non si avvalga della scrittura per raccontare un po’ di sé e per imparare a guardare nelle proprie pagine le occasioni di sollevarsi dal disagio.
Quante volte abbiamo scritto di noi! Nelle pagine di un diario, in una lettera, oggi in una mail, in un appunto, persino nella nota della spesa!
Non credo a coloro che scrivono negando che nella scrittura, seppure di finzione, ci sia qualcosa di sé, del proprio vissuto. Non possiamo scrivere del mare se non l’abbiamo conosciuto, anche indirettamente, così come non possiamo scrivere d’amore, per esempio, di un amore vissuto o solo desiderato, sognato o immaginato.
E con questo, cara Roberta, mi fermo, altrimenti correrei il rischio di tenere una lezione di un paio d’ore almeno!

 

Grazie Clara, dal più profondo del cuore; ascoltare i tuoi racconti di vita costringe chi ti ascolta a fermare il mondo in cui vive per immaginare ciò che scaturisce dalle tue parole.
Io ti conosco anche personalmente e quello che traspare da questa intervista è la bellezza di ciò che tu sei.
Vi invito a leggere Bianca come l’Africa, gustandolo a piccole dosi, nel silenzio di un salotto e in compagnia di una tazza di tè o caffè, come abbiamo fatto noi oggi, perché la lettura dei suoi spaccati di vita vi trasporterà altrove, in un mondo diverso, dove palpitano altri cuori come i nostri e la vita è meno facile. Vi resterà dentro e forse proverete anche voi il “dolore del ritorno”.

Ringrazio i nostri lettori e li invito al prossimo appuntamento con L’ora del tè.

Aula

Aveva preparato quella giornata, come tante altre prima, con la stessa cura meticolosa. Ogni dettaglio studiato in modo perfetto: l’argomento, la documentazione e anche l’abbigliamento.
Fine, graziosa, seducente.
Sapeva di avere un potere oltre l’immaginabile, sapeva e ne era cosciente. Avrebbe ricevuto complimenti, di cui non poteva fare a meno, avrebbe ricevuto sorrisi, sguardi. L’adrenalina l’avrebbe schiacciata come sempre, liberando tutta l’energia in suo possesso e facendola camminare a due metri dal pavimento.
Ormai viveva di questo. Del sentirsi al centro dell’attenzione, del piacere, per piacersi.
E tutto procedeva secondo i suoi piani. O quasi. Non era preparata a quello che aveva di fronte. Non l’aveva previsto.
Si muoveva nell’aula con la sua solita sicurezza, delicata come una farfalla, frusciante e leggera. Sui tacchi altissimi, sulle gambe sottili da cerbiatta.
Parlava con gestualità controllata, calibrando il tono della voce che a tratti diveniva seducente. Le mani si libravano, sottolineavano, descrivevano il senso, il contenuto, il peso di ogni parola detta.
Ma diversamente dalle altre volte una leggera inquietudine s’impadronì di lei. Traspariva dall’incessante sollevarsi ed abbassarsi del suo seno, impercettibile ma evidente ad un occhio esperto. La giacca, corta e stretta sui fianchi sottili, allacciata solo da un bottone in vita, lasciava scoperta la maglietta troppo scollata e la curva dei seni con il loro incessante alzarsi ed abbassarsi.
Anche le mani, di solito sicure, presero a tremare invisibilmente, come una sottile luce che vibra senza dare presenza di sé ad occhio nudo. Mani piccole, discrete, curate, che nervose sfioravano ogni cosa che toccavano, con delicatezza, sinuosità.
La chiamavano, le chiedevano, le comunicavano e lei pronta, sempre in ogni istante a comunicare con ognuno di loro.
Tranne lui.
Seduto in ultima fila, capelli lunghi, brizzolati, carnagione scura, con un’aria trasandata da eterno ragazzo, la spogliava con quei meravigliosi, inquietanti occhi azzurri. Accarezzava con lo sguardo le sue forme, seguiva il tratto ondulato dei suoi fianchi, delle sue cosce, dei suoi seni, delle sue braccia.
Camminava in mezzo ai tavoli, parlava con ognuno la chiamasse.
Tranne che con lui.
Aveva pronunciato un asciutto buongiorno al suo arrivo. Poi niente più. Aveva fame della sua voce.
Era consapevole dei suoi occhi su di lei, del tocco del suo sguardo sulle sue gambe, di quella penetrazione dolce e azzurra, che sentiva anche quando era seduta, a ginocchia strette. Lui entrava, l’accarezzava, si scioglieva sotto il suo sguardo. Mentre si muoveva, percepiva la presenza di lui, come un dolce peso sulle spalle, sui fianchi, sulla vita, sul ventre.
Troppo spesso gli occhi di lei si posavano su quelli di lui, sempre fissi su di lei, pungenti, quei suoi maledetti occhi azzurri. Splendidi da togliere il fiato, chiari come l’acqua, insidiosi come un laser.
Comunicazione verbale. Comunicazione non verbale. Gestualità. Comunicazione del corpo. I titoli erano tutti scritti sulla lavagna ed ogni titolo era la personificazione della sua immagine, del suo corpo, di cui era così consapevole.
Scriveva alla lavagna, con movimenti lenti, come per sottolineare la sua presenza. Il pennarello cadde, lei si chinò a raccoglierlo, scendendo giù con la schiena, come le lavandaie al torrente, china su se stessa. Il tessuto trasparente della gonna, svasata, lunga appena sopra il ginocchio, aderì alla sua carne, mostrando il colore indistinto della sua pelle rosata.
Si rialzò con lenta naturalezza, lasciando il tessuto accarezzare, sfiorare, eccitare. E non fece nulla per evitare che la stoffa rimanesse incastrata nel taglio della schiena, lasciando immaginare il sottile indumento indossato sotto. Con la stessa naturalezza non si aggiustò la gonna. Lasciò che gli occhi cadessero sulla linea dei suoi glutei e delle sue cosce, cogliendo tutti gli sguardi su di sé.
Una pausa, un caffè. Tutti uscirono. Solo lei, solo lui rimasero nell’aula.
Sei troppo distratto. Cosa sei venuto a fare?
Lo sai che amo guardarti muovere in mezzo ad altri uomini. Guardare come ti atteggi e ti rendi provocante. E mi eccito al pensiero che loro ti eccitano.
Hai ascoltato quello che ho detto oggi?
No.
Se non ascolti, poi non ti rispondo quando hai bisogno di me.
Sono sempre il tuo capo. Mi devi ubbidire, senza obiettare.

Raso nero

Raso nero. Ormai aveva dimenticato di possederlo.
Non ricordava più quanto tempo fosse trascorso da allora.
Quella notte lasciò un segno così profondo nei suoi ricordi, che anche ora a distanza di molti anni, le pareva di sentirne il profumo, di percepirne le vibrazioni, di accogliere dentro di sé il seme del desiderio.
Quella notte la musica era dentro e fuori di lei. E così pure la favola che stava vivendo, la passione che sentiva scorrerle in mezzo alle gambe.
Sentiva che sarebbe stata una notte meravigliosa. Lei, lui, sotto un cielo stellato.
Il momento era adatto a ciò che stava per accadere; ogni cosa, ogni creatura divina si adoperava affinché avvenisse ciò che doveva essere. Non si udivano rumori, anche la natura attendeva in rispettoso silenzio.
Era notte fonda e lei era nera e profonda come la notte.
Apparve all’improvviso, per magia.
Bella, la più bella dea di ogni tempo; splendida e terrificante.
La più bella femmina mai vista. Ogni volta che si mostrava, sconvolgeva gli animi, la mente e i sensi di ogni uomo.
Tutti erano folgorati da lei.
E lei si dava, lei si concedeva, lei sceglieva, lei che in nessun caso si lasciava andare, donava solo ciò che voleva.
Era lì davanti a lui. L’aveva aspettata per un tempo infinito, incalcolabile, l’aveva desiderata da sempre, l’aveva tormentato per troppe notti. Si era svegliato bagnato, sudato, agitato ed eccitato dal ricordo dell’amore vissuto durante il sogno.
Ed ora lei era lì davanti a lui. Spaventosa, elettrizzante, avvolgente, irresistibile.
Ora che era lì per lui, non aveva nemmeno il coraggio di toccarla. E non ce ne fu bisogno.
La guardava, inconsapevole del suo ruolo di amante perfetto. Si era sentito forte della sua esperienza e della sua età, aveva percepito il proprio potere nei confronti di una donna molto più giovane, seppur così bella e sconvolgente.
Le cose non stavano andando come previsto. Si era immaginato di conquistarla con il suo fascino, prenderla di forza come un animale, con violenza, mentre ora si sentiva sopraffatto da lei.
Perché aveva scelto quel luogo desolato, perché aveva indossato quell’abito, perché sentiva già il desiderio crescere il lui, il sesso irrigidirsi e la voglia di possederla farlo impazzire?
Quel posto e quell’abito li aveva scelti per lui, perché non avesse altri pensieri che lei, perché tutto il mondo fuori fosse cancellato in un attimo ed in quel bosco, quella notte esistessero solo loro due.
Lo voleva sentire pregarla di donarsi a lui, voleva sentirlo piagnucolare che lei e solo lei era la sua vita e che senza di lei non aveva più aria da respirare.
Quell’abito, così perfetto su di lei, così sensuale, luminoso come i suoi occhi, lungo fino ai piedi scalzi, seguiva le colline dei seni, s’insinuava nel taglio della vita, disegnava le curve pronunciate dei suoi fianchi e dei suoi glutei. Le spalle nude erano ricoperte dalla cascata fluente dei capelli corvini, un mantello soffice e ondulato, di lunghe setole che profumavano di gelsomino.
Il fiato gli mancò, l’ossigeno era saturo del profumo della sua pelle, l’odore che emanava lo stordiva.
S’avvicinava a lui, ondeggiando i fianchi come una barca cullata dalle acque del porto, sbatteva le anche come una leonessa carica di desiderio. Le sue labbra carnose e dischiuse, erano gonfie come frutti maturi.
La luce della luna la illuminava da dietro, il suo volto, il suo corpo, il vestito, i capelli, tutto era oscurità, una dama nera avvolta da un’aura luminosa, troneggiava su di lui. I capelli accarezzati dal vento, si sollevavano in deliziose onde disordinate. Il lungo vestito frusciava attorno ai suoi piedi, come una musica di viole e arpe, che ne annunciavano l’arrivo.
Sentiva di non avere più la forza di resistere. Era troppo per lui. Nemmeno nel sogno l’aveva immaginata così bella.
Una strega, sì, era di sicuro una strega.
Quando gli fu vicina, la guardò in viso. I suoi tratti marcati, i suoi zigomi sporgenti, i suoi occhi allungati, la bocca piena e sugosa, il trucco nero come il vestito e come i capelli. Dio com’era bella!
Una notte interminabile. Non si rese conto di quanto lunga o corta fosse. L’amò fino al sorgere del sole ed il suo ricordo rimase inciso nella memoria per tutta la vita.
Ricordava perfettamente ogni istante. Il momento in cui appoggiò le mani sui suoi fianchi e con le dita palpò la morbidezza e la freschezza del tessuto, che scivolava su di lei ad ogni movimento.
Non dimenticò mai quel tocco, anche ora poteva percepirlo, a distanza di molto tempo.
Ricordava perfettamente le sue colline ricoperte di nera stoffa lucente e il momento in cui sganciò l’allacciatura che manteneva unito il tessuto, lasciando cadere la veste che scivolò con un delicato fruscio ai suoi piedi.
Questa volta il respiro cessò del tutto.
Il suo corpo era una statua di Venere, che arrivava a lui per condurlo alla disperazione dei sensi, la sua bocca era un cesto di frutta che profumava come le fragole di bosco e come le more sui rovi, le sue mani erano lunghe e affusolate, le dita come frecce scoccate dall’arco di Cupido, pronte a colpirlo al cuore, la sua pelle era morbida e liscia come il raso, come quel vestito caduto a terra, che al tocco sembrava ancora indossare, pelle bianca come la cera e come il chiaro di luna, gli occhi brillavano come le stelle del firmamento, luminosi come fuochi, accesi come torce per illuminare il cammino dei disperati di cuore e dei senz’anima.
Le mani di lei lo presero e lo esplorarono in ogni piega, disegnando ogni muscolo; mani esperte, piccole mani, frementi di desiderio, che si aprivano e si chiudevano per accarezzare e stringere.
Le labbra di lei si aprivano come petali di una rosa fresca e profumata, per raccoglie la rugiada del mattino e bere, assetata di siero.
Lui l’amò come mai aveva amato e come mai più amò nessuna.
La notte li protesse, non avrebbe permesso a nessuno di interferire nel loro amore.
Non si incontrarono più, il loro amore, perché questo fu, durò solo quella notte.
Dimenticò il suo volto, ma non dimenticò mai il tocco delle sue mani sui suoi fianchi, che accarezzavano il tessuto dell’abito di raso nero che era appeso nell’armadio da quella notte e che in nessun altra occasione indossò più.

 

 

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