Come nasce l’idea per una storia

Il backstage di Tranne il colore degli occhi.

Avere una storia da raccontare. Questa è una delle poche regole a cui mi attengo fedelmente quando scrivo. Prima di cominciare a scrivere devo essere certa di avere in mano una storia che trasmetta qualcosa, contenga anima, sentimenti o susciti ricordi; una storia che il lettore possa trovare bellissima o bruttissima ma che legga fino alla fine dicendo: «Ne è valsa la pena!»

Se è inconsistente, fumosa, incoerente, tanto vale che lascio perdere e penso ad altro.

L’idea di Tranne il colore degli occhi è nata al telefono. Io ero in vacanza al sud, in un paese dell’appennino campano e stavo parlando con lei, la mia migliore amica, rossa di capelli. All’epoca io ero mora.

«Scriverò la storia di due amiche, una rossa e una mora» le dissi.

E così fu!

Cominciai a immaginare l’ambiente in cui vivevano, il lavoro che facevano, il tipo di sentimento che le legava e a mano a mano che procedevo le tessere del puzzle si incastravano.

L’idea risale all’agosto del 2012, quando aprii il primo file con il titolo provvisorio “La contrada”. Era lì che vivevano, nel mio immaginario, Michela ed Annamaria. In una contrada.

Scaricai immagini e cominciai a fantasticare. Raccolsi foto, articoli di giornale e link a siti che potevano essermi utili per delineare i due personaggi principali. Due donne di carattere.

Ero febbricitante, sentivo in me quella strana eccitazione, quel fuoco particolare che so riconoscere ogni volta che l’idea di una nuova storia è quella giusta.

Patricia Highsmith scrive in merito ai germi delle idee: “L’importante è riconoscerli. Io li riconosco da una certa eccitazione che immediatamente li accompagna, simile al piacere e all’eccitazione per una bella poesia o un bel verso.

In cuor mio sapevo di essere sulla strada giusta, ma al momento stavo lavorando ad Anna (Anna era il nome del progetto che ha dato vita al mio romanzo Ti raggiungo in Pakistan, attualmente “in cerca di casa editrice”). Dovevo rimandare ad altro momento qualsiasi attività riguardasse “La contrada”, ma ricordo che nei momenti di pausa, fra le varie revisioni di Anna, continuavo a raccogliere materiale per la nuova storia. Aggiungevo una nota dopo l’altra nel taccuino di Evernote che avevo intitolato “La contrada” e nel giro di poco avevo già definito le caratteristiche delle mie protagoniste, il carattere, l’aspetto fisico, il mestiere. Allora sapevo già quale evento avrebbe rappresentato l’apice della storia, condizionando in modo radicale la vita delle due donne.

Tranne il colore degli occhi rimase in attesa per quasi 3 anni. Nel frattempo portai a compimento Ti raggiungo in Pakistan, terminai tutte le stesure, le riletture e l’editing.

Durante un corso di scrittura rispolverai il canovaccio di Tranne il colore degli occhi e lo usai come esercitazione.

Era il 23 aprile 2015.

Il primo capitolo: Tranne il colore degli occhi

È mezzanotte e nevica, senza sosta, da tre giorni e tre notti.
San Felice Maggiore è ricoperto da un manto bianco. Si distinguono solo i triangoli dei tetti, il campanile della chiesa e i sentieri scavati nella neve che collegano gli ingressi delle case. Non c’è luna. Il vento accompagna i fiocchi che cadono, ondeggiando, sopra altra neve ghiacciata.
San Felice Maggiore dorme dentro le case. Le strade sono vuote e c’è silenzio ovunque.
Dall’ultima abitazione del paese esce un uomo. Apre l’uscio, osserva per un minuto nel buio e poi chiude il portone dietro le spalle. Non accende luci, s’incammina nell’oscurità con passo sicuro e sotto il peso del fagotto che ha fra le braccia. Guarda dietro di sé e senza fare rumore imbocca il sentiero che conduce in montagna. Costeggia il limitare della stradina, cammina dove la luce dei lampioni non riesce ad arrivare. Nascosto agli occhi e alle orecchie di tutti.
La neve scende fitta. Grossi fiocchi cadono sulla sua testa e tutto attorno. Anche sulla coperta che regge fra le braccia, dalla quale ogni tanto sbuca una manina.
Giovanni affronta la salita, mentre culla il fagotto che porta con sé. Quando le case sono abbastanza lontane, si ferma, appoggia l’involto su una pietra, chiude bene la coperta che lo avvolge e pronuncia qualche parola sottovoce.
«Mi raccomando, silenzio! Ssst…»
Alza l’indice davanti alla bocca e poi riprende il fagotto in braccio.
La neve attutisce i suoi passi. Giovanni avanza instancabile. Vuole risposte. I ricordi sono libri stampati; restano impressi sulla carta e non si cancellano. Ci sono cose che diventano più leggere ed altre che invece ingigantiscono.
Diana l’aveva promesso, aveva detto che Michela avrebbe avuto gli occhi scuri. Quella strega malefica racconta solo frottole. Tutti si chiedono come sia potuta accadere una cosa del genere. Le voci attraversano il paese, passano di casa in casa, di bocca in bocca e lui è diventato lo zimbello delle donne e degli uomini di San Felice Maggiore.
Giovanni prosegue a ritmo lento, raggiunge la fine del sentiero e sparisce sotto i faggi che ricoprono il fianco della montagna.
Il fagotto si muove e la coperta scende, rivelando un faccino tondo e due vispi occhi azzurri. Michela sorride, punta il dito verso la testa bagnata del padre, appoggia la manina al viso di Giovanni, la batte due volte sulla guancia e ride.
«Michela, ssst, siamo quasi arrivati. Stai sotto la coperta, è freddo!»
Il bosco diventa sempre più fitto. Giovanni si ferma. Si appoggia a un tronco e stringe Michela a sé. Il cuore batte che sembra voglia sfondare il torace e mettersi a correre nella neve. Il fiato non è più quello di quando era giovane. A vent’anni era il più veloce di tutti. Alle campestri distanziava gli altri concorrenti di parecchi metri. Dopo l’incidente non ha più recuperato la forza che aveva un tempo. Può camminare, ma senza esagerare. Non può portare pesi e ogni ora, secondo il medico, dovrebbe stendere la gamba. Facile a dirsi. Ma la vita da lui pretende altro.
Giovanni riprende a salire. Mancano pochi metri. Sente già il rumore del torrente. L’aria è umida. Un’ultima salita, la più ripida, e sono arrivati.
Michela si agita, spinge con le braccine contro il collo di Giovanni. Torce il busto, si guarda attorno e poi strilla.
«No, Michela! Ssst! Siamo arrivati».
Michela si dimena dentro la coperta che ormai tocca terra. Giovanni stringe la figlia a sé e corre per gli ultimi metri.
La baracca di Diana è addossata ad una roccia che si trova lungo il corso del torrente Cavo. Il fumo esce dal camino e le galline passeggiano ovunque.
La vecchia appare sull’uscio, attirata dall’urlo di Michela. Corre zoppicando verso Giovanni, strappa la bambina dalle sue braccia ed entra nella baracca.
L’interno è un’unica stanza, senza corrente elettrica, né acqua potabile.
Nella parete di fronte all’ingresso c’è un camino acceso e al centro della stanza un tavolo e due sedie. Ai muri pochi mobili: una credenza scrostata, una cassapanca, un baule e un letto fatto di paglia intrecciata, senza cuscino. I muri sono neri di fuliggine.
Diana appoggia Michela sulla sedia, la libera dalla coperta e le scopre il viso dai capelli. Due occhietti sorridenti e azzurri la osservano. La bimba allarga le braccine e si butta al collo della vecchia.
«Perché l’hai portata qui? Lo sai che non devi venire da me!»
«Oggi è un anno».
«E cosa sei venuto a fare?»
«A cercare risposte».
«A cosa ti servono le risposte? Sono solo parole vuote che non riporteranno in vita Eleonora. Devi pensare a tua figlia».
«Diana, tu avevi detto…»
«Cosa? Cosa avevo detto? Pazzo che non sei altro. Rassegnati, Giovanni! Hai una vita sola. Una figlia sana. Una casa. Un lavoro. Tutto questo non verrà a mancarti mai. Hai la mia parola».
«E i suoi occhi?»
«Sei peggio di un mulo. Che Dio abbia misericordia di te quando verrà a prendere la tua anima, spero perdoni la tua stupidaggine. Siediti, ti preparo un caffè».
Diana appoggia Michela a terra. La bambina resta immobile per qualche secondo e poi inizia a correre. La vecchia riempie una brocca di terracotta e l’appoggia in mezzo alla brace del camino. Giovanni siede sulla sedia, con una mano si tocca la testa e accarezza la fronte.
Michela si avvicina a lui, di corsa, con le braccine allungate in avanti e si stende con testa e braccia sulle gambe del padre. Giovanni accarezza i capelli arruffati. La bimba fa un grido e corre vicino al camino.
«Bel modo di festeggiare il suo compleanno. Le hai fatto spegnere la candelina?»
«Sì, ci ha pensato Antonietta. Ha fatto tutto lei. Pranzo, torta, regalo. Mi ha dato anche un coniglio intero, già cotto, e una pagnotta di pane».
«Sei un irriconoscente, Giovanni, lo sai vero?»
«Ma, Diana!»
«Ma che cosa? Hai una figlia bella e serena, dei vicini di casa che ormai fanno parte della famiglia, un lavoro che ti darà da vivere per sempre, una casa da cui non ti caccerà nessuno. Giovanni, cosa cerchi da me?»
«Eleonora è morta un anno fa».
«E allora? Eleonora fa parte del passato».
«Un passato scomodo, non credi?»
«Scomodo? Ma cosa stai dicendo? Era tua moglie e ti amava».
«Non riesco a gestirlo…»
«Cosa?»
«Il passato».
«Ascolta Giovanni, il passato lascialo dov’è e fai riposare in pace quella povera anima. Se ti attacchi a ciò che non è stato, non riuscirai mai a vivere il presente. Cancella tutto dalla mente e pensa a questa meraviglia che Dio ti ha donato».
«Diana, Michela ha gli occhi azzurri».
«Benedetto uomo! Tu sei pazzo!»
«Ma tu mi avevi detto che…»
«Cosa ti avevo detto?»
«Che i suoi occhi sarebbero diventati scuri».
«Giovanni, io ti avevo detto che i bambini prendono il colore degli occhi dal padre o dalla madre e che il colore definitivo l’avremmo visto dopo sei mesi dalla sua nascita».
«Diana, io ho gli occhi neri ed Eleonora li aveva marroni».
Diana versa il caffè nel bicchiere e lo passa a Giovanni.
«E con questo?»
«Perché Michela ha gli occhi azzurri?»
«Ed io cosa ne so?»
«Diana, tu sai tutto, non farmi passare per scemo. Tu sai perché Michela ha gli occhi azzurri».
«Giovanni, Michela è tua figlia. Tua e di Eleonora. E ti vuole bene. Cerca di darle l’amore che merita altrimenti te la dovrai vedere con me».
Michela corre felice nella stanza, tocca tutto, parla con gli oggetti e, quando un pensiero attraversa la sua mente, si ferma, osserva il padre e la vecchia e poi riparte per una nuova corsa.
«Smetti di fare macinare quel povero cervello e goditi ciò che la vita ti dà».
«Diana, sai che in paese ridono di me?»
«E per quale motivo?»
«Perché sanno la verità, tutti tranne me. Io la immagino soltanto».
Michela si avvicina al camino, si accovaccia e guarda le fiamme. Poi allunga il dito e dice:
«Pa… pà».
«Giovanni, non ti serve a niente la verità, Eleonora è morta e nulla la riporterà in vita. Ti preoccupi troppo della gente. Dimentica quello che è stato e pensa a tua figlia».
Michela corre verso il padre, si arrampica sulle sue ginocchia e lo abbraccia.

Si avvera un sogno

Tranne il colore degli occhi

Non è un sogno. E’ on-line il mio romanzo Tranne il colore degli occhi, edito da Antonio Tombolini Editore nella collana Amaranta diretta da Amanda Melling.
Lo trovate in versione e-book su Mybook.is, Amazon e altri store. La versione cartacea uscirà fra qualche mese.

Per qualsiasi cosa non esitate a contattarmi in privato, sulla mia pagina FB o via email. Sarò lieta di aiutarvi.

Cosa dire? Che sono così felice che di più non si può credo non farete fatica ad immaginarlo. Dopo anni di lavoro, impegno, fedeltà al mio sogno, finalmente posso realizzarlo.
Un grazie di cuore a tutti coloro che lo hanno permesso: Carla, Amanda, Marta (la bravissima art director), Costanza, Michele… Grazie davvero di cuore! Avete reso possibile un sogno che rischiava di fare le ragnatele.
Altri ringraziamenti specifici sono nelle ultime pagine di Tranne il colore degli occhi e riguardano coloro che hanno contribuito in modo attivo alla realizzazione di questo romanzo.
E grazie a tutti i miei amici, a chi ha creduto e crede in me ed ha sopportato i miei lunghi sproloqui sull’amore per la scrittura.

Nei prossimi articoli vi svelerò qualche segreto sulla trama (niente spoiler), solo curiosità sui retroscena del romanzo e sui personaggi…
Vi aspetto!

Conto alla rovescia

Proviamo a fare il conto alla rovescia?
Partire da -10 probabilmente è esagerato, forse basterà molto meno.
Per scaramanzia mi tengo larga e fingo che manchino 10 giorni.

Ci sono delle frasi fatte che viene spontaneo pronunciare in questi casi, ma che fanno sorridere per la loro ingenuità. Ieri sera parlavo con un amico e dicevo che non sono brava a fare marketing di me stessa, anche se, dopo quattro anni di Product Management, forse qualcosa dovrei avere imparato.

Trovo complesso parlare di me, enfatizzare i miei prodotti, dire quanto sono belli, fantastici e unici (perché li ho fatti io). E’ più facile fare parlare le cose che faccio.

Fatemi scrivere, inventare storie che contengano vita vera anche se inventata. Fatemi scrivere quello che la mia anima sogna di notte e il mio inconscio macina di giorno. Fatemi entrare nelle trame della mente umana per ideare altre trame. Lasciate che prenda la vita, quella che si muove ogni giorno, fatemela schiacciare, impastare, modellare, disintegrare e ricreare.

E’ vita, quella che c’è nelle mie storie, quella vera che viviamo tutti, che vivete voi, assieme a me. E’ vita presa e nascosta dietro il velo della narrazione. E’ quello che sento, provo e soffro ogni giorno. E’ la voglia di cantare, volare, piangere e fuggire. E’ il bisogno di consolare, amare, abbracciare… vivere.

Mi sentirete dire, fino alla nausea, che, per me, scrivere è vita. Non è una frase fatta, non scrivo per vivere ma vivo per scrivere. Perché senza la scrittura (e i libri) sarei morta, dentro.

Tranne il colore degli occhi uscirà a brevissimo all’interno della collana Amaranta di Antonio Tombolini Editore. Seguite questo sito e la mia pagina Facebook per non perdere aggiornamenti, novità, curiosità ed alcuni retroscena legati alla scrittura del romanzo.

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