Il primo capitolo: Tranne il colore degli occhi

È mezzanotte e nevica, senza sosta, da tre giorni e tre notti.
San Felice Maggiore è ricoperto da un manto bianco. Si distinguono solo i triangoli dei tetti, il campanile della chiesa e i sentieri scavati nella neve che collegano gli ingressi delle case. Non c’è luna. Il vento accompagna i fiocchi che cadono, ondeggiando, sopra altra neve ghiacciata.
San Felice Maggiore dorme dentro le case. Le strade sono vuote e c’è silenzio ovunque.
Dall’ultima abitazione del paese esce un uomo. Apre l’uscio, osserva per un minuto nel buio e poi chiude il portone dietro le spalle. Non accende luci, s’incammina nell’oscurità con passo sicuro e sotto il peso del fagotto che ha fra le braccia. Guarda dietro di sé e senza fare rumore imbocca il sentiero che conduce in montagna. Costeggia il limitare della stradina, cammina dove la luce dei lampioni non riesce ad arrivare. Nascosto agli occhi e alle orecchie di tutti.
La neve scende fitta. Grossi fiocchi cadono sulla sua testa e tutto attorno. Anche sulla coperta che regge fra le braccia, dalla quale ogni tanto sbuca una manina.
Giovanni affronta la salita, mentre culla il fagotto che porta con sé. Quando le case sono abbastanza lontane, si ferma, appoggia l’involto su una pietra, chiude bene la coperta che lo avvolge e pronuncia qualche parola sottovoce.
«Mi raccomando, silenzio! Ssst…»
Alza l’indice davanti alla bocca e poi riprende il fagotto in braccio.
La neve attutisce i suoi passi. Giovanni avanza instancabile. Vuole risposte. I ricordi sono libri stampati; restano impressi sulla carta e non si cancellano. Ci sono cose che diventano più leggere ed altre che invece ingigantiscono.
Diana l’aveva promesso, aveva detto che Michela avrebbe avuto gli occhi scuri. Quella strega malefica racconta solo frottole. Tutti si chiedono come sia potuta accadere una cosa del genere. Le voci attraversano il paese, passano di casa in casa, di bocca in bocca e lui è diventato lo zimbello delle donne e degli uomini di San Felice Maggiore.
Giovanni prosegue a ritmo lento, raggiunge la fine del sentiero e sparisce sotto i faggi che ricoprono il fianco della montagna.
Il fagotto si muove e la coperta scende, rivelando un faccino tondo e due vispi occhi azzurri. Michela sorride, punta il dito verso la testa bagnata del padre, appoggia la manina al viso di Giovanni, la batte due volte sulla guancia e ride.
«Michela, ssst, siamo quasi arrivati. Stai sotto la coperta, è freddo!»
Il bosco diventa sempre più fitto. Giovanni si ferma. Si appoggia a un tronco e stringe Michela a sé. Il cuore batte che sembra voglia sfondare il torace e mettersi a correre nella neve. Il fiato non è più quello di quando era giovane. A vent’anni era il più veloce di tutti. Alle campestri distanziava gli altri concorrenti di parecchi metri. Dopo l’incidente non ha più recuperato la forza che aveva un tempo. Può camminare, ma senza esagerare. Non può portare pesi e ogni ora, secondo il medico, dovrebbe stendere la gamba. Facile a dirsi. Ma la vita da lui pretende altro.
Giovanni riprende a salire. Mancano pochi metri. Sente già il rumore del torrente. L’aria è umida. Un’ultima salita, la più ripida, e sono arrivati.
Michela si agita, spinge con le braccine contro il collo di Giovanni. Torce il busto, si guarda attorno e poi strilla.
«No, Michela! Ssst! Siamo arrivati».
Michela si dimena dentro la coperta che ormai tocca terra. Giovanni stringe la figlia a sé e corre per gli ultimi metri.
La baracca di Diana è addossata ad una roccia che si trova lungo il corso del torrente Cavo. Il fumo esce dal camino e le galline passeggiano ovunque.
La vecchia appare sull’uscio, attirata dall’urlo di Michela. Corre zoppicando verso Giovanni, strappa la bambina dalle sue braccia ed entra nella baracca.
L’interno è un’unica stanza, senza corrente elettrica, né acqua potabile.
Nella parete di fronte all’ingresso c’è un camino acceso e al centro della stanza un tavolo e due sedie. Ai muri pochi mobili: una credenza scrostata, una cassapanca, un baule e un letto fatto di paglia intrecciata, senza cuscino. I muri sono neri di fuliggine.
Diana appoggia Michela sulla sedia, la libera dalla coperta e le scopre il viso dai capelli. Due occhietti sorridenti e azzurri la osservano. La bimba allarga le braccine e si butta al collo della vecchia.
«Perché l’hai portata qui? Lo sai che non devi venire da me!»
«Oggi è un anno».
«E cosa sei venuto a fare?»
«A cercare risposte».
«A cosa ti servono le risposte? Sono solo parole vuote che non riporteranno in vita Eleonora. Devi pensare a tua figlia».
«Diana, tu avevi detto…»
«Cosa? Cosa avevo detto? Pazzo che non sei altro. Rassegnati, Giovanni! Hai una vita sola. Una figlia sana. Una casa. Un lavoro. Tutto questo non verrà a mancarti mai. Hai la mia parola».
«E i suoi occhi?»
«Sei peggio di un mulo. Che Dio abbia misericordia di te quando verrà a prendere la tua anima, spero perdoni la tua stupidaggine. Siediti, ti preparo un caffè».
Diana appoggia Michela a terra. La bambina resta immobile per qualche secondo e poi inizia a correre. La vecchia riempie una brocca di terracotta e l’appoggia in mezzo alla brace del camino. Giovanni siede sulla sedia, con una mano si tocca la testa e accarezza la fronte.
Michela si avvicina a lui, di corsa, con le braccine allungate in avanti e si stende con testa e braccia sulle gambe del padre. Giovanni accarezza i capelli arruffati. La bimba fa un grido e corre vicino al camino.
«Bel modo di festeggiare il suo compleanno. Le hai fatto spegnere la candelina?»
«Sì, ci ha pensato Antonietta. Ha fatto tutto lei. Pranzo, torta, regalo. Mi ha dato anche un coniglio intero, già cotto, e una pagnotta di pane».
«Sei un irriconoscente, Giovanni, lo sai vero?»
«Ma, Diana!»
«Ma che cosa? Hai una figlia bella e serena, dei vicini di casa che ormai fanno parte della famiglia, un lavoro che ti darà da vivere per sempre, una casa da cui non ti caccerà nessuno. Giovanni, cosa cerchi da me?»
«Eleonora è morta un anno fa».
«E allora? Eleonora fa parte del passato».
«Un passato scomodo, non credi?»
«Scomodo? Ma cosa stai dicendo? Era tua moglie e ti amava».
«Non riesco a gestirlo…»
«Cosa?»
«Il passato».
«Ascolta Giovanni, il passato lascialo dov’è e fai riposare in pace quella povera anima. Se ti attacchi a ciò che non è stato, non riuscirai mai a vivere il presente. Cancella tutto dalla mente e pensa a questa meraviglia che Dio ti ha donato».
«Diana, Michela ha gli occhi azzurri».
«Benedetto uomo! Tu sei pazzo!»
«Ma tu mi avevi detto che…»
«Cosa ti avevo detto?»
«Che i suoi occhi sarebbero diventati scuri».
«Giovanni, io ti avevo detto che i bambini prendono il colore degli occhi dal padre o dalla madre e che il colore definitivo l’avremmo visto dopo sei mesi dalla sua nascita».
«Diana, io ho gli occhi neri ed Eleonora li aveva marroni».
Diana versa il caffè nel bicchiere e lo passa a Giovanni.
«E con questo?»
«Perché Michela ha gli occhi azzurri?»
«Ed io cosa ne so?»
«Diana, tu sai tutto, non farmi passare per scemo. Tu sai perché Michela ha gli occhi azzurri».
«Giovanni, Michela è tua figlia. Tua e di Eleonora. E ti vuole bene. Cerca di darle l’amore che merita altrimenti te la dovrai vedere con me».
Michela corre felice nella stanza, tocca tutto, parla con gli oggetti e, quando un pensiero attraversa la sua mente, si ferma, osserva il padre e la vecchia e poi riparte per una nuova corsa.
«Smetti di fare macinare quel povero cervello e goditi ciò che la vita ti dà».
«Diana, sai che in paese ridono di me?»
«E per quale motivo?»
«Perché sanno la verità, tutti tranne me. Io la immagino soltanto».
Michela si avvicina al camino, si accovaccia e guarda le fiamme. Poi allunga il dito e dice:
«Pa… pà».
«Giovanni, non ti serve a niente la verità, Eleonora è morta e nulla la riporterà in vita. Ti preoccupi troppo della gente. Dimentica quello che è stato e pensa a tua figlia».
Michela corre verso il padre, si arrampica sulle sue ginocchia e lo abbraccia.

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